Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

mercoledì 28 settembre 2016

Intimamente Miles

Luciano Granieri



Ci sono musicisti che hanno percorso da protagonisti il firmamento musicale, e ci sono  musicisti che, oltre ad aver segnato la storia  della musica hanno inciso profondamente sulla vita delle persone. Miles Davis, è stato un artista che oltre ad rivestire un ruolo di assoluta preminenza nella musica, ha segnato la mia vita di appassionato di jazz. 

Questa riflessione mi  è balzata in mente come un flash  grazie   alla  mia amica e compagna di lotte Marina.  In una    sua nota su facebook,  nel quale commemora Miles scomparso il 28 settembre del 1991, Marina  ricorda un suo momento particolare vissuto nell’ assistere ad un concerto del trombettista dell’Illinois: 28 settembre 1991, muore il dio miles....due anni prima a roma un suo concerto memorabile....ho i brividi solo a ricordarlo....e sono passati venticinque anni... venticinque anni appena....:  Così scrive Marina, parla di brividi. Gli stessi brividi che ho provato e provo ancora oggi  a sentire i fraseggi ipnotici di quella straordinaria tromba. 

Grazie all’input della mia amica ho realizzato  come  Miles Davis sia  stato  un musicista che ha riempito e continua a riempire la mia vita culturale e per certi versi politica.  In verità l’ultima volta che ho visto    Davis,  a Pescara jazz nel 1986 , non ne ricavai una grande impressione, nonostante ogni nota uscisse dal suo strumento, per quanto consunta e precaria, avesse il potere di entrarti nella pelle, si notava in lui  una certa stanchezza. Di  tutta la sua band, attrezzata con sintetizzatori, e ammennicoli elettrici vari , apprezzai l’efficacia del chitarrista Robben Ford e l’abilità dello splendido Bob Berg al sax tenore.  

Lo ammetto ero nel periodo dell’intransigenza politica che si riverberava in quella musicale. Miles Davis aveva tradito il sacro spirito del jazz nero quello del Black Panther Party, aveva buttato a mare la sperimentazione di Kind of Blue con John Coltrane, per cercare il successo commerciale attraverso  le diavolerie elettroniche. Il mio fondamentalismo di allora offuscava le sinapsi musicali e non mi faceva comprendere la grandezza di un album come Bitches Brew. Non era quella un’operazione commerciale, ma l’ennesima sperimentazione di sonorità e suggestioni straordinarie sviluppatesi attraverso l’uso degli strumenti elettrici. 

Grazie a quella svolta denominata jazz-rock  si imposero  all’attenzione del pubblico, musicisti straordinari come,  i pianisti Chic Corea, Joe Zawinul,  il sommo Keith Jarret , i batteristi Jack De Johnette e Billy Cobham , i chitarristi John Mc Laughlin, Pat Metheney e molti altri ancora. Del resto da  Miles Davis non si poteva pretendere un grande impegno dal punto di vista politico. Non era figlio del sottoproletariato nero cresciuto nelle vie del ghetto, era un prodotto dell’alta borghesia. Il padre era un ricco e affermato dentista di Alton nell’Illinois. 

Come non ricordare le discettazioni contrastanti, fra musica e politica sociale,  su un altro disco fondamentale per la storia del jazz come Birth of the Cool. Da un lato c’era l’oggettivo valore artistico e innovativo di quelle incisioni realizzate da Davis negli studi della Capitol fra il 1949 e il 1950 insieme a gente come Gerry Mulligan,  Lee Konitz, John Lewis, Max Roach, fra gli altri, dall’altro c’era il disappunto per una sorta di anestetizzazione che la nuova musica,  sgorgante  di quei microsolchi, arrecava alle  esuberanze  rivendicative del Be Bop. 

Ma su tutto imperava il Miles divino, quello di Kind of Blue,  e del  quintetto con George Coleman  al sax tenore ( poi sostituito da Wayne Shorter), Herbie Hancock,  al pianoforte, Ron Carter al contrabbasso  , Tony Williams alla batteria.  Quel Miles ha riempito molte delle mie giornate. Ho passato pomeriggi e notti intere a volare sulle note di Esp, My funny valentine, Seven  steps to heaven, Four   e altre straordinarie esecuzioni. Davis nel giradischi, una fumata di pipa,  un bicchiere di grappa o di vino,  qualcosa di alcolico insomma, discussioni con i tre o quattro amici di allora, così scorreva la mia vita di adolescente,  senza trascurare le ragazze ovviamente  che in verità non sono state molte. Non c’è dubbio,  Miles Davis è diventato ed è  una presenza nella mia quotidianità passata e presente . 

Qualche mese fa trovai in cantina alcune fotografie di quegli anni . Scatti di reflex che allora   consideravo creativi, sperimentali, ma per lo più erano foto uscite male. Decisi di digitalizzare quelle immagini e ricavarne una  video clip. Indovinate quale musica ho scelto per accompagnare lo scorrere di quegli scatti?  Proprio un brano di Miles Davis, Eighty One per la precisione. Lo pubblico qui sotto, proponendolo all’attenzione di quei naviganti un po’ sognatori, appassionati di musica e utopia. Ringrazio la mia amica Marina per aver fatto scattare, questa sequenza di ricordi, e ringrazio ovviamente Miles Davis.


  

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