Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

venerdì 3 marzo 2017

Storie di jazz, storie di espropri creativi.

Luciano Granieri


Spesso quando si discetta sulla genesi della musica jazz, si identifica  la nascita di questa straordinaria espressione come il frutto di una contaminazione fra la tradizione musicale africana, con qualche venatura di armonie arabe, e il composito patrimonio armonico occidentale, melodramma,tradizione bandistica e altro ancora. E’ però un fatto  che l’influsso non europeo, il blues,  la scala pentantonica e la metrica in 12 battute, siano  state predominanti nell’evoluzione del linguaggio jazz, e non solo, almeno fino allo spegnersi del secolo breve. Molti addirittura tendono a trasformare la creativa e atossica contaminazione, in un conflitto fra le due tradizioni, quella africano-araba e quella europea.  Ciò è vero se allarghiamo la visione oltre il progetto creativo e consideriamo le condizioni economiche e sociali in cui è cresciuta e si è evoluta la musica jazz. E’ innegabile come , in ogni fase della storia del jazz, ci sia stato il tentativo, spesso riuscito, di esproprio da parte dei bianchi,  a capo dell’industria musicale, di ciò che veniva creato dai musicisti neri. Tale appropriazione indebita, non si è esplicata solo in senso affaristico, ma anche nell’annacquamento delle forme  rivendicative  della musica afroamericana , così  da depotenziare il messaggio di rivolta sociale che questa esprimeva. Da un lato  hanno agito  le mire di profitto  delle case discografiche sulla musica dei neri, dall’altro il tentativo di ridurre la proposta musicale afroamericana  in semplice momento asettico di evasione e spettacolo.   Ripercorriamo in un rapido excursus le varie tappe di tale appropriazione indebita,  culturale,  economica e sociale.  

Race Record
Il blues fu la prima  e più longeva  fonte di tali colonizzazioni.  Lo sfruttamento del linguaggio in 12 battute si  è sviluppato ed evoluto nel corso di tutto il’900 per cui l’intuizione creativa dei neri, provenienti dall’africa, ha contribuito alla nascita del rock e all’arricchimento smisurato di personaggi bianchi  come Elvis Presley o gruppi come i Beatles e i Rolling  Stones. Tutto iniziò quando al sorgere degli anni ’20  alcune case discografiche,  cercando nuovi sbocchi commerciali scoprirono la redditività del canale nero. Nacquero così collane discografiche  chiamate “race record” (dischi di razza), riservate al solo mercato dei neri. Sui solchi di  questi dischi, fu fissato il ricchissimo patrimonio musicale del blues  vocale,ed orchestrale in particolare . Le Roi Jones nel suo libro  “Il popolo del blues” scrisse:”…. se osserviamo il fenomeno dei race record da un punto di vista più pratico,  come dovettero certamente fare i proprietari della Okeh, i dischi di Mamie Smith rivelarono l’esistenza di un mercato ancora non sfruttato. Di Crazy Blues se ne vendettero per mesi  circa 8000 copie alla settimana, del primo disco di Vittoria Spivey (Blake Snake blues), registrato sei anni più tardi, se ne vendettero in una anno 150.000 copie: ciò dimostra, se ce ne fosse bisogno, che la decisione delle case discografiche di estendere e potenziare il repertorio dei race record non era dettata da motivi altruistici  o artistici. Ma semplicemente dalla convinzione  che si trattasse di un ottimo affare”. Bessie Smith , ingaggiata dalla “Columbia” grazie al fiuto del discografico Frank Walker, contribuì a far realizzare alla casa discografica tali utili di vendita da risollevare il suo conto economico prossimo al fallimento. 




Swing Era

 Se il fenomeno dei race record fu solo  sfruttamento economico della creatività nera, limitando la sua azione  al profitto senza intaccare il patrimonio musicale del blues , completamente differente fu la devastante influenza dell’era dello swing . La chiusura delle case di piacere di Storyville,  la  militarizzazione del porto di New Orleans, in concomitanza con gli eventi della prima guerra mondiale,  costrinsero  i musicisti neri, che sulla città del Delta avevano costruito il linguaggio della nuova musica, a trasferirsi in cerca di un ingaggio nelle grandi metropoli ed essere inglobati nelle grandi orchestre bianche. Le sofferenze subite dopo le peripezie del ’29 orientarono la borghesia americana del New Deal, verso un ideale di vita basato sull’evasione. Il jazz, come al solito, non potè che essere espressione di quel sentimento. Le  orchestre furono le indiscusse protagoniste della scena musicale, ma la spinta propensione verso le sdolcinatezze proposte da alcune formazioni bianche non era  del tutto appropriate al musical business, che pretendeva anche quel pizzico di esoticità presente nelle formazioni  neworleaniste.  Ma New Orleans significava nero e tutto le critiche implicazioni sociali che dietro questa parola si nascondevano. L’ideale sarebbe stata un’orchestra bianca, o comunque con esecutori ben pettinati in frak e papillon, che nel suo dna avesse quel pizzico di esotismo nero tanto gradito.  Nel quartiere nero di Harlem a New York, sorsero un buon numero di locali, gestiti da bianchi, in cui lo strumentista afroamericano, proveniente da New Orleans, da Kansas City o anche dalla Chicago infestata da gangster, non era altro che l’attrazione esotica di un’orchestra formata da musicisti bianchi.  Nacque l’era dello swing, che al di la dell’esaltazione della pura evasione, vide l’affermazione di orchestre anche di buon livello. Il re della swing craze fu senza dubbio Benny Goodman. La chiave del successo di  Goodman fu , riproporre, lui che era bianco,  musica nera. Il fatto che un bianco suonasse  una musica che leader neri avevano creato prima di lui  dava ad essa una patina di rispettabilità mitigando certe  ruvidezze africane. I musicisti neri nella swing era furono costretti, per sopravvivere, a entrare come attrazione nelle orchestre bianche. Teddy Wilson al piano e Lionel Hampton la vibrafono furono le prime stelle di Goodman. Artie Shaw seguì l’esempio ingaggiando la straordinaria Billie Holiday.  Un’altra stella assoluta fu quel Roy “Little” Eldridge che Gene Krupa convinse ad esibirsi con lui offrendogli  150 dollari a sera rispetto ai 50 che Eldridge già guadagnava in un'altra orchestra. 

Dalla frustrazione di questi artisti, costretti a esibire la loro maestria tecnica come se fossero fenomeni da baraccone, e a subire umiliazioni come quella di entrare dalla porta secondaria dei locali dove suonavano, nacque il vento che portò ad una vera e propria rivincita nera. Il bebop, uno stile che espresse un concetto musicale  completamente opposto a quanto narrato dalla swing craze, a cominciare dall'idea  che quella non era più musica da ballo o d’evasione.  Intorno al 1940 solo pochi erano ottimisti sul futuro del jazz che pareva aver concluso il suo ciclo trasformandosi, nel giro di un trentina d’anni, o poco più, da musica folklorica legata a un certo ambiente e a certe condizioni storiche e sociali, a musica di svago destinata alle masse . La rivoluzione bebop fu la salvezza del jazz. Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Kenny Clarke e tutti gli altri grandi strumentisti della bop era furono dei veri e propri rivoluzionari. Quei musicisti neri, o non bianchi, intesero, creando la loro musica, rompere con i valori consolidati, con la ferrea routine imposta nelle orchestre da ballo, che in nome del musical business, chiedevano al  jim crow di turno, sia che  suonassero  uno strumento, o  cantassero , o ballassero , solo di divertire il pubblico. Smaccato  era  Il rifiuto di ogni concessione spettacolare,  marcato era il disprezzo  per    l’applauso,  molte esecuzioni erano irridenti verso la borghesia ricca. Un tale atteggiamento,creativo, venne spazzato via dalle regole del profitto musicale. Nonostante le straordinarie novità del linguaggio boppistico , che posero la basi su cui poggerà tutto  il jazz  futuro, il be bop fu ben presto cancellato dal panorama musicale americano e molti musicisti, andarono a cercare fortuna in Europa. 




West Coast

In piena era bebop, dove il jazz stava mostrando una verve rivoluzionaria, autenticamente nera, ma osteggiata dal pubblico e dal mercato discografico, l’orchestra di Woody Herman parve una sorta di restaurazione  conservatrice di valori artistici, ma anche sociali e politici. L’operazione musicale di Herman consistette nel recuperare il dixieland, esaltandone lo spirito blues. La sua orchestra suonava un blues vestito di bianco. Dunque si ripropose l’ennesima appropriazione di caratteri afroamericani  assimilati e trasformati ad uso e consumo del musical business.  In questa fase tornò preponderante la forma dell’orchestra la scrittura in luogo dell’improvvisazione . Gli stilemi boppistici divennero parte del linguaggio Hermaniano, ma furono levigati e addolciti. Un  dato emergeva incontrovertibile, la nuova musica doveva contrapporsi alla rabbia dei boppers e soprattutto al loro disprezzo e rifiuto del pubblico. Anzi  doveva presentarsi accettabile,  accattivante e magari un tantino ammiccante. In quel periodo la California fu l’elemento naturale in cui crebbe il nuovo jazz. Questa era il simbolo di un mondo privilegiato, Santa Monica, Long Beach, Hollywood vedevano circolare masse di denaro ingentissime e locali come l’Hangover, il Down Beat, il Tiffany, lo Zardis, offrivano sovente ospitalità ai musicisti di jazz, i quali avevano l’obbligo oggettivo di offrire al ricco pubblico musica non aggressiva, comprendente  solo esecuzioni gradevoli, accettabili, niente orchestrazioni dure o hot, urlate, ma sonorità aeree, climi eterei con il rifiuto aprioristico di ogni violenza sonora e comportamentale. L’elemento blues si sciolse negli arrangiamenti classici. I tempi erano ormai maturi perché al pubblico americano si offrisse una musica più “accettabile”, e soprattutto che fosse bianca, . Stan Kenton,  con la sua orchestra, composta da soli elementi  bianchi,   può essere assunto, senza forzature, a simbolo del conservatorismo più smaccato tra i musicisti di jazz di ogni tempo. Nelle sue formazioni ebbero fondamentale importanza “le sezioni” piuttosto che i singoli solisti, comandava il leader, le improvvisazioni erano bandite.  Esplicita  fu l’invettiva  razzista che Kenton mosse contro il bebop nero, considerato frenetico e alieno alla vera musica che, ovviamente, era quella della sua orchestra. Non è da sottovalutare comunque che molti esponenti bianchi delle orchestre di Herman di Kenton, ma anche di Claude Thornill, e di altre formazioni,  furono jazzisti di assoluto valore. Stan Getz, Gerry Mulligan, Paul Desmond, Dave Brubeck , Chet Baker,  Lee Konitz, Art Pepper, Kay Winding,   per citarne solo alcuni, non eliminarono o ridussero ai minimi termini la lezione bebop, ma l’integrarono e arricchirono attraverso un utilizzo delle pause e dei fraseggi, più meditati, meno istintivi. Nacque un nuovo stile,  il cool jazz dove  cool  sta per "calmo" e non, contrariamente a quanto si pensi “freddo”. In realtà caposcuola della nuova forma jazzistica fu un nero, Miles Davis. Il trombettista proveniente da East Sanit Louis  agli anni passati affianco di Charlie Parker sovrappose il tempo passato  alla Juillard School of Music di New York. Ai fiammeggianti fraseggi di Parker la poetica di Davis, mescolava le dinamiche armoniche della musica classica. Il cool non era un processo di edulcoramento del linguaggio nero, ma consisteva in una sorta di  nobilitazione formale del bebop. Il risultato fu assolutamente straordinario e divenne  patrimonio di musicisti sia bianchi che neri. Non è da trascurare il fatto che il nuovo stile si rese appetibile anche al musical-business, il quale vendeva questo tipo di musica non come elemento esclusivamente evasivo, ma come forma alta, da eseguirsi nelle sale da concerto. 



L’anomalia degli anni ’50 fra hard bop e R&B
Non fu un caso che preminenti esponenti del cool jazz ospitarono nei propri gruppi, o furono essi stessi, gli animatori di un ritorno alle spericolate evoluzioni bop.  Fu la rivincita della New York nera sulla Los Angeles bianca, o marrone, volendo usare una forzatura. I primi  protagonisti del nuovo bop,  come il trombonista Jay Jay Johnson, il sassofonista Sonny Rollins, i batteristi Philly Joe Jones e soprattutto Max Roach, provenivano tutti dal cool jazz. Alcuni di loro avevano partecipato all’incisione manifesto del ’49 “Birth of the cool” o avevano militato, fra il ’54 e il ’59 nelle piccole formazioni di Miles Davis. Si replicò in certa parte della comunità jazzistica nera, la stessa frustrazione che colse 10 anni prima i congiurati del Minton’s. Quella frustrazione  nata dalla consuetudine di  adagiarsi nella consunta routine imposta dallo strapotere del” business world”, in un paese lacerato da mille e pressanti problemi, la cui soluzione  si sarebbe potuta realizzare, o almeno così si riteneva,  solo con rabbiosa decisione e con una rinnovata determinazione nelle lotte civili. Il linguaggio musicale che ne scaturì  era saldamente legato al passato, non solo a quello più recente di Parker e Monk, ma anche a quello più remoto delle radici della musica afroamericana, il blues .  Vennero riproposti gli stilemi parkeriani  inaspriti   da una decisa determinazione esecutiva , talmente rocciosa, da far definire il bop che veniva suonato “duro”, hard.  L’obbiettivo era scaldare, eccitare, aggredire chi ascoltava, insomma farlo partecipe di un mondo  che di dolce e lieve – non solo ad Harlem – aveva ben poco.  Il trombettista Clifford Brown fu il faro attorno al quale si radunarono  i musicisti neri newyorkesi  che per anni avevano  dovuto subire lo strapotere bianco ed un emarginazione forzata. Proprio con Max Roach,  Brown  costituì un quintetto considerato la   vera anima dell’hard bop. Disgraziatamente la prematura scomparsa del trombettista di Wellington, a soli 26 anni, pose fine alla vita di quell’esperimento, ma ormai il solco era tracciato. E  in quel solco si inserirono molti altri jazzisti che pure provenivano dalle formazioni dell’inventore del cool Miles Davis, e che di li a poco avrebbero stravolto ogni convezione musicale con il free jazz.  Ci riferiamo,  fra gli altri, a John Cotrane, allo stesso Max Roach, a Freddie Hubbard. L’orgoglio nero si ripropose con forza non solo nell’hard bop, ma anche in un ritorno preponderante del blues. Una forma però diversa, più urlata rispetto a quella nata nel  sud. Per le  strade di Harlem risuonava una nuovo  blues:  il rhythm and blues, una    straripante  forza comunicativa di rabbia per le condizioni  di vita drammatiche  quali erano  costretti i neri dei ghetti.  Si trattava di  una derivazione più elementare ed epidermica del blues classico. Nella nuova espressione  alla filosofia della rinuncia, propria dello stile d’origine, si sostituì  un ben diverso approccio alla realtà.   Chi ascoltava o suonava R&B voleva superare la lamentosa accettazione di una situazione ritenuta immutabile . La voce urlante dei cantanti neri, necessaria a superare in decibel il frastuono delle chitarre elettriche, era assimilabile all’urlo di chi voleva ribellarsi ad una vita di stenti e sottomissione. Non fu un caso che in quegli anni sorsero e si svilupparono case discografiche di proprietà dei neri, le quali si incaricarono di far incidere e diffondere la nuova musica. Il nuovo blues suonato e cantato  da Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Mahalia Jackson, Etta James, e Chuck  Berry, Ray Charles, Aretha  Franklin  dilagò ad Harlem e in tutti gli altri ghetti, da Detroit, a Chicago, a Filadelfia, a Baltimora  grazie anche alla storica etichetta discografica Tama Motown. E’ doveroso  sottolineare come gli stessi combattenti neri del Black Panther Party e di altre simili organizzazioni si riconoscevano  proprio nella forza espressiva del R&B. La semplicità esecutiva, la  fragorosa forza ritmica, erano caratteristiche che decretarono immediatamente il successo economico  della nuova musica . Una fonte di guadagno che, dopo un primo momento di smarrimento, venne fagocitata  dall’industria dello spettacolo per confluire  nel mare sterminato del rock’n roll . E fu proprio un bianco borghese a riempirsi le tasche di dollari, sfruttando la  vena creativa africana, Il mito  di Memphis, Elvis Presley. Quella stessa vena creativa che in Europa arricchì i Rolling Stones, i Beatles e tutti gli esponenti del rock’n roll espressione di pura evasione e fonte di guadagni milionari. Si potè assistere, ancora una volta, all’ennesima appropriazione da parte del musical business di un’espressione tipicamente nera. 




L’invendibile free
L’evoluzione jazzistica che si sviluppò  attraversò parte degli anni ’60 e i successivi ’70,   non corse mai il pericolo di essere edulcorata, o  diventare oggetto di attenzione da parte del musical business. Ci riferiamo al free jazz. Qui la rivoluzione nera  si espresse, non con l’adozione di ritmi martellanti e voci urlanti, ma con la destrutturazione sistematica degli elementi musicali: melodia, armonia, tonalità. Un’operazione  di abbattimento degli steccati sonori,  possibile solo attraverso   lo studio approfondito della musica, che riverberandosi nella società, acquisiva il significato di abbattimento della segregazione, dell’ingiustizia sociale, dell’arroganza imperialista, veri e propri steccati al dispiegamento di una  vita dignitosa e libera. Free appunto. Lo straordinario disco del sassofonista  Ornette Coleman, icona del nuovo linguaggio, si intitolava semplicemente “free jazz” e sulla copertina era ben descritto cosa si sarebbe ascoltato “A collective impovvisation by the Ornette Coleman double quartet” Un’improvvisazione collettiva dunque, senza leader e  tracce guida. Cosa fu e cosa volle essere il free jazz è  Archie Shepp, uno  dei maggiori esponenti della New Thing, a  descriverlo” E’ finita per i figli dei bianchi: non balleranno più con la musica  del pagliaccio nero. E’ finita con i battelli del Mississippi  e le sale da ballo di Chicago o di Manhattan, con lo sfruttamento, con l’alcool, con la fame, con la morte. E’ durato cinquant’anni il viaggio del nero verso il Nord. I figli del battelliere  e dell’emigrante hanno valicato i confini folkloristici dl jazz”  E’ utile ricordare comunque che notevoli esponenti del free furono anche musicisti bianchi, i quali attraverso la completa libertà esecutiva ed improvvisativa esprimevano il rifiuto della società borghese e  dell’imperialismo americano. Nonostante  il  free rappresenti nella storia del jazz uno dei capitoli più carichi di significato, in virtù degli avvenimenti che, nel periodo in cui si sviluppò,  segnarono la storia, non solo degli Stati Uniti, ma di tutto il mondo, questo movimento subì un notevole riflusso, soprattutto nella terra dove era nato.Qui il rifiuto del pubblico fu eclatante, per cui molti musicisti , furono costretti o a cercare fortuna in Europa o, addirittura, ad abbandonare l’attività musicale per dedicarsi ad altre professioni. Una musica così smaccatamente “contro” negli Stati Uniti  naturalmente venne  cancellata  dai circuiti musicali, costringendo i suoi interpreti a trasferirsi in Europa. Qui a differenza degli Stati Uniti il movimento giovanile studentesco del ’68, in particolare in Francia, si riconosceva pienamente negli stilemi anticonformisti e dissacratori del free. Non solo in Francia il nuovo jazz trovò diritto di cittadinanza. In Danimarca il Jazhus Montmatre di Copenaghen sarebbe diventato un punto nevralgico per la diffusione della musica d’avanguardia. Stesso successo si ebbe in Germania dove l’etichetta discografica ECM, si incaricò di  dare spazio in sala d’incisione, a tanti  freeman. Anche in Italia la nuova musica trovò molti adepti ed eccellenti esecutori. Gli anni ’70, con l’avvento del jazz-rock, l’ennesima  trovata  di Miles Davis, portarono verso il dissolvimento di un confine ben definito fra stili  invisi  al mercato e musica commerciale. E’ indubbio che il jazz-rock fu musica commerciale, ma è sufficiente ascoltare Bitches Brew di Miles Davis per capire come la qualità rimanesse sempre molto elevata. Oggi il jazz basato sul blues è un linguaggio entrato nella storia della musica. L’evoluzione post moderna identifica un espressione improvvisata colta che spazia in altre aree oltre il blues. Sperimenta forme  tonali ancora più rivoluzionarie  senza però addentrarsi in messaggi politici. Rimane comunque un espressione di nicchia. Ciò che resta, è comunque preda del mercato, del profitto, anche se fenomeni come il progressive rock  hanno regalato  pagine di grande musica. Possiamo dunque affermare che questa storia degli espropri musicali finisce con il finire degli anni ’70. Da qui  in poi sarà sempre il mercato a decidere, anche sulle sorti di nuove espressione nere come l’hip hop o il rap.





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