Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

domenica 19 febbraio 2012

SIRIA: E’ GUERRA CIVILE

Ronald Leon  Lega Internazionale dei Lavoratori - Quarta Internazionale
Traduzione: Fabiana Stefanoni


E’ un dato di fatto. La lotta di classe in Siria, come parte dell’impressionante processo rivoluzionario che scuote Nord Africa e Medio Oriente, è arrivata alla sua massima espressione: la guerra civile. Siamo arrivati a un momento decisivo, storico.
Come scriveva Trotsky nel 1924: “(...) la guerra civile costituisce una tappa determinata della lotta di classe, quando questa, rompendo i limiti della legalità, viene a collocarsi sul piano dello scontro aperto e in certa misura fisico tra le forze contrapposte. Concepita in questo senso, la guerra civile include le insurrezioni spontanee e parziali, la repressione sanguinaria da parte delle orde controrivoluzionarie, lo sciopero generale rivoluzionario, l’insurrezione per la presa del potere e il periodo in cui vanno contrastati i tentavi di sollevazione controrivoluzionaria. L’espressione guerra civile include tutto questo: è qualcosa di più ampio dell’insurrezione e, allo stesso tempo, di infinitamente più definito dell’espressione lotta di classe che attraversa tutta la storia dell’umanità (...) la guerra civile non è altro che il prolungamento violento della lotta di classe” (1).
La sollevazione popolare contro la dittatura di Bachar El Assad – che da dodici anni detiene in forma assoluta il potere in un regime che dura da più di quarant’anni – ha avuto inizio nel marzo 2011 in una regione remota chiamata Deraa, al confine con la Giordania. Da allora si è estesa a tutto il Paese.
Durante tutti questi mesi, le mobilitazioni popolari che chiedono la cacciata del dittatore e che rivendicano libertà democratiche sono state represse in modo spietato e brutale. Fino al mese di dicembre dello scorso anno, gli organismi dell’Onu, così come altri organismi “a difesa dei diritti umani”, registravano circa 5500 morti. I comitati locali denunciano più di 7100 morti, tra i quali 2500 si sono registrati nella sola città di Homs dall’inizio dei conflitto (El País, 1/2/2012). Dall’altro lato, il governo di Assad ha recentemente dovuto ammettere che, nella repressione delle proteste, sono morti anche almeno 2000 soldati e agenti di polizia. Assistiamo a un vero e proprio bagno di sangue.
Si rafforza l’Esercito della Siria Libera 
La forza crescente delle mobilitazioni popolari e l’impulso che le vittorie conseguite negli altri Paesi della regione – come la vittoria in Libia contro il dittatore Gheddafi – hanno dato al processo nel suo insieme, hanno finito per generare una profonda crisi e migliaia di diserzioni nell’esercito regolare siriano. E’ sorto così, alla fine del 2011, quello che è stato nominato Esercito della Siria Libera (Esl), costituito da soldati disertori e civili armati.
Nelle sue prime incursioni, questa forza ribelle ha attaccato alcune postazioni militari e della polizia, facendo appelli espliciti alla lotta armata e alla defezione degli ufficiali e dei soldati rimasti fedeli ad Assad. Sono arrivati ad attaccare perfino lo stesso centro dell’intelligence dell’esercito siriano, a Harasta, oltre a molte sedi locali del partito Baath, inclusa quella di Damasco. La sua forza è andata crescendo di pari passo con il radicalizzarsi delle proteste popolari, fino a diventare una forza combattente di grande peso.
Uno dei capi militari dell’esercito ribelle, il colonnello Riad Al-Asaad, ha recentemente dichiarato che il dittatore non controlla “più del 50% del territorio” siriano. Nonostante ciò, ha chiarito che non sono necessariamente le forze ribelli a controllare quelle regioni.
Contro un esercito regolare che mantiene ancora la superiorità numerica, l’Esl si avvale di tattiche militari simili a quelle della guerra di guerriglia. In effetti, il suddetto ufficiale ha confermato che l’Esl conta più di 40 mila combattenti e che “le operazioni realizzate dall’Esl sono caratterizzate da rapidi attacchi contro le posizioni pro-Assad, seguite da rapide ritirate verso zone più sicure”. Il colonnello dissidente ha poi affermato che “il popolo resisterà, l’Esl resisterà, continuando con la rivoluzione. Il regime deve cadere a breve” (France Presse).
L’esercito regolare siriano, che è costituito per metà dalla minoranza alaui, quella a cui appartiene la famiglia El Assad (si stima che l’80% degli alti ufficiali appartengono a questo settore della popolazione), comincia a dare segnali di affaticamento dopo mesi di ininterrotto impiego. Quanti più carri armati e mezzi di artiglieria pesanti utilizza l’esercito nelle zone urbane, tanto più si accentuano le proteste e l’utilizzo di armi da parte delle masse popolari.
Assad ha un enorme problema nella composizione delle sue forze armate. Anche se sono numerose, la schiacciante maggioranza dei 300 mila soldati effettivi sono reclute sunnite, ai quali, dubitando della loro fedeltà, non assegna di solito incarichi nella repressione. Proprio da queste forze proviene il maggior numero di diserzioni. Per questo motivo, nella repressione vengono impiegate, di solito, la Guardia Repubblicana, che conta circa 10 mila effettivi, e la Quarta Divisione Meccanizzata, che nelle sue file contra altri 20 mila effettivi. Entrambe le forze sono formate esclusivamente di soldati alaui e sono dirette da uno squallido personaggio: Maher Assad, fratello minore del presidente.
Dal punto di vista militare, Assad è in un momento di difficoltà. Il sollevamento popolare lo sta schiacciando. Si dà il caso, per esempio, che per impiegare circa 2 mila soldati e una cinquantina di carri armati nei sobborghi di Damasco, Sakba, Hamouriya e Kfar Batna, il dittatore si è visto costretto a ridurre gli effettivi in altri posti. E per questo che, nonostante la superiorità numerica dei suoi armamenti, l’esercito del regime fino ad ora non è riuscito a schiacciare la sollevazione armata delle masse popolari: mentre una città viene rasa al suolo per soffocare nel sangue la protesta, i soldati di Maher El Assad devono abbandonarla per assaltarne un’altra e poi un’altra ancora. Allora i ribelli riprendono le armi... e così ininterrottamente.
In questo modo, si lotta violentemente a Homs, Hama, Deraa e perfino nella culla della famiglia Assad, la città costiera di Latakia. Le ultime settimane si sono caratterizzate per un’acutizzazione del conflitto. Damasco, che fino a poco tempo fa era rimasta immune dallo scontro aperto tra settori armati, ha visto scontri feroci nei suoi dintorni. E’ così che il centro della guerra civile ora si trova a soli tre kilometri dalla capitale e il regime trema di fronte agli occhi attenti di tutto il mondo. Nel solo giorno del 31 gennaio sono stati denunciati più di cento morti dall’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani con sede a Londra. Martedì 31 ci sono state altre 22 morti violente registrate in scontri armati tra le “shabiha” ("fantasmi", ndt) – le milizie leali al regime – e i ribelli armati.
La situazione è drammatica per le masse popolari: assassinii, sequestri, stupri, torture e ogni tipo di calpestamento dei diritti umani da parte del clan di Assad sono all’ordine del giorno in Siria. Più il regime vede vacillare il proprio potere, più reprime. Di fronte alla sollevazione armata, Assad si guarda allo specchio e, non senza sentire qualche goccia di sudore freddo scendere sulla fronte, vede l’immagine di Muammar Gheddafi. Per questo si aggrappa al potere, si rifiuta di negoziare, inasprisce la repressione e dichiara al mondo intero che continuerà ad usare il “pugno di ferro” e che “sarà irremovibile nell’affrontare i suoi nemici”, di fronte a quella che sarebbe una “cospirazione straniera”.
Mentre scriviamo, le truppe leali al dittatore hanno da poco bombardato Homs e attaccano con tutta la loro forza di fuoco i ribelli posizionati nella periferia di Damasco. I combattimenti arrivano fino alla città di Zabadani, vicino alla frontiera con il Libano.
Ciò che è sicuro è che il regime è appeso a un filo, tanto a livello politico che militare. Tenuto sotto scacco dalle mobilitazioni popolari e dalle azioni armate dell’Esl, deve affrontare un’altra dura realtà: l’imperialismo, che, dopo essergli stato tanto fedele, ora prende sempre più le distanze.
La nave della dittatura siriana affonda e i topi cominciano ad abbandonarla. Per l’imperialismo statunitense ed europeo Assad è diventato inutile al fine di garantire la stabilità del suo Paese e di una regione così in fermento; questa cosa lo trasforma in una pedina di cui l’imperialismo può fare a meno, proprio come è successo con Gheddafi.
La politica dell’imperialismo
L’imperialismo (statunitense ed europeo) e le borghesie arabe, che inizialmente lo hanno appoggiato totalmente, da alcuni mesi hanno cominciato a prendere distanza da Assad. Prima gli hanno lanciato degli avvertimenti, facendogli pressioni per cercare di trovare un’uscita negoziata. Assad si aggrappava al potere. Successivamente gli hanno imposto delle sanzioni economiche, di nuovo senza risultato. Alzando il tono della voce, la Lega Araba, che è un docile strumento nelle mani delle potenze imperialiste e che per mesi ha cercato in tutti i modi di trattare con Assad, ha deciso di sospenderlo come Paese membro.
Nessuna pressione è bastata. Assad non accetta di aprire nessuna valvola di sfogo per decomprimere un po’ una situazione che comincia a riscaldarsi un po’ troppo. In questo susseguirsi di cose, la Lega Araba, che recentemente ha ritirato la sua missione di osservatori in Siria a causa della recrudescenza della guerra civile, seguendo la linea dei suoi mandanti imperialisti, è passata da una linea vacillante alla richiesta diretta dell’abdicazione di Assad come requisito senza il quale non può esserci alcuna uscita dalla crisi.
La sua proposta “di pacificazione” implica la rinuncia di Assad (trasferendo il potere al vicepresidente) e la formazione di un “governo di unità” nell’ambito di un “potere condiviso” in Sira. Per questo, la Lega Araba è stata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e ha richiesto una risoluzione di condanna del regime. In realtà, anche l’attuale segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha chiesto pubblicamente ad Assad di “smettere di ammazzare la sua gente” e lo ha classificato come una “minaccia globale”.
Un altro vecchio alleato che ora volta la schiena ad Assad è l’emiro del Qatar, lo sceicco Hamad bin Jalifa al Zani. Quest’ultimo lo scorso 16 gennaio si è persino dichiarato a favore della richiesta che le truppe arabe mettano fine allo “spargimento di sangue” in Siria. Questa stessa linea è stata sostenuta, durante la recente riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dal primo ministro del Qatar, Hamad Bin Jassim Al Thani, che ha aperto la sessione difendendo una linea di maggior rigore nei confronti di Assad, qualificato come “macchina assassina”. La Lega Araba e il Qatar: due duri colpi per Assad nel quadro dei Paesi della regione.
Tuttavia, il principale problema per l’attuale regime siriano, sul terreno della politica internazionale, è rappresentato dalla posizione della Francia, della Gran Bretagna e degli Usa. Tutti questi Paesi “si uniscono” alla richiesta della Lega Araba all’Onu (in realtà sono i veri ideatori di quella proposta di risoluzione), nel senso che ritengono urgente l’uscita di scena di Assad e l’avvio di una “transizione politica” verso un “sistema democratico e plurale”.
In questo quadro, il ministro francese delle relazioni estere, Alain Juppé, nel Consiglio di Sicurezza ha condannato quello che ha tacciato come “scandaloso silenzio” da parte dell’Onu in merito alla violenza in Siria. Il primo ministro britannico, David Cameron, il 31 gennaio ha sollecitato il Consiglio di Sicurezza a “non proteggere” il presidente siriano: “Bisogna fermare gli assassinii e il presidente Assad deve andarsene”, ha detto il premier britannico.
Da parte sua, l’imperialismo nordamericano sta facendo pressioni sul regime di Assad affinché questo rinunci finché la situazione gli permette di rinunciare. Susan Rice, ambasciatrice degli Stati Uniti all’Onu, ha presentato una relazione dove assicura che il numero dei morti non solo non è diminuito, ma è “più alto di prima”, con 40 morti in più al giorno, per un totale di 400 vittime da quando la sua missione ha avuto inizio.
Il direttore nazionale dell’intelligence nordamericana, James Clapper, ha dichiarato che la caduta del regime di Assad è “solo una questione di tempo”. Ha proseguito dicendo: “Io non vedo come egli potrà mantenere il controllo sul Paese”. Questa posizione di Clapper è condivisa dal direttore della Cia, l’ex generale David Petraeus (France Presse, 31/1/2012). Il governo Usa ha mandato la Segretaria di Stato, Hillary Clinton, a proporre le sue deliberazioni nella riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu del primo febbraio. La Clinton ha accusato Assad di avere instaurato un “regno del terrore”.
Perché questi rappresentanti dell’imperialismo statunitense, europeo e delle borghesie arabe emettono ora dichiarazioni contro Assad?
I veri motivi sono ben lontani da un presunto e improvviso sentimento umanitario nei confronti del popolo siriano che viene massacrato, o da una reale difesa delle libertà democratiche in quel Paese. Quelle potenze sono le stesse che hanno sempre sostenuto la dinastia degli Assad, la quale a sua volta fu sempre fedele nella consegna del petrolio, nell’applicazione delle ricette neoliberiste dell’Fmi e nel garantire le frontiere di Israele. Quello che sta dietro questa retorica “umanitaria” è la necessità vitale che ha l’imperialismo di sconfiggere il processo rivoluzionario in Siria e in tutta la regione; un processo che diventa più acuto con il permanere di Assad al potere. Il dittatore siriano si è trasformato in una pedina che non si può più sostenere. El Assad è attualmente un elemento di destabilizzazione, che non fa dormire sonni tranquilli all’imperialismo. Questo emerge nel progetto di risoluzione arabo-europeo sulla Siria dell’Onu, dove si sostiene che “la stabilità in Siria è un elemento chiave per la pace e la stabilità della regione (El País, 31/1/12). L’imperialismo, oltre che ipocrita, è pragmatico. Sa distinguere molto bene la tattica dalla strategia e, in questo senso, mantenere o meno questo o quel lacchè è per esso una questione meramente tattica. La linea è chiara: eliminare Assas per salvare l’essenziale del regime. Fare un passo indietro per farne poi due avanti.
Il castro-chavismo continua ad appoggiare dittatori assassini 
La verità è che a El Assad restano pochi alleati nello scenario internazionale. Li possiamo contare sulle dita di una mano e sono: Russia, Cina, Iran, Cuba, Venezuela e Nicaragua. La Russia, che è membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ha annunciato che porrà il veto su qualunque risoluzione che pretenda la deposizione di Assad. Il governo russo ha un interesse particolare nel mantenere El Assad al governo, perché il porto siriano di Tartus è l’unica base navale che la sua flotta ha a disposizione nel mediterraneo.
Da parte sua, Hugo Chávez ha emesso un comunicato tramite la sua Cancelleria con il quale “esprime il suo più fermo appoggio” al governo siriano “e riconosce l’ingente sforzo realizzato dal presidente Bashar Al Assad per favorire una soluzione politica alla complessa congiuntura che sta attraversando il Paese”. In questo modo, la corrente castro-chavista mantiene la propria posizione di appoggio ai dittatori sanguinari e pro-imperialisti contro la lotta delle masse di quei Paesi. Si collocano al fianco di quelle dittature e contro le masse, che vengono da loro accusate di commettere “atti terroristici”. Il tutto condito con la ben nota cantilena dell’“assedio imperialista” a un presunto leader antimperialista che rischierebbe di essere rovesciato “da forze straniere”, come si dice nel comunicato ufficiale.
L’appoggio a questi dittatori, oltre ad essere ripugnante, fortifica la posizione degli imperialisti, perché li rafforza nel loro tentativo di apparire come “i difensori della democrazia e dei diritti umani”. Tutto questo senza contare che la solidarietà castro-chavista ai tiranni del mondo arabo indebolisce la solidarietà che la giusta lotta delle masse popolari della Siria, e degli altri Paesi, necessitano con tanta urgenza.
Il problema dei problemi 
In Siria si sta sviluppando un processo abbastanza simile a quello a cui abbiamo assistito in Libia. Da un lato, ci sono le masse popolari che sono stanche delle imposizioni di una dittatura pro-imperialista, oltre che affamate, e che lottano con coraggio riuscendo a spezzare l’esercito ufficiale e ad armarsi contro il regime. Dall’altro lato, vediamo che quelle azioni delle masse sono dirette da una direzione borghese, in questo caso il cosiddetto Consiglio Nazionale Siriano (Cns), sorto negli ultimi mesi. Il Cns è composto da 190 membri, dei quali il 60% sono in Siria mentre gli altri sono in Turchia. Ne fanno parte i Fratelli Musulmani, i liberali, le varie fazioni curde, apparentemente i comitati di coordinamento locale.
Questo organismo, composto da esuli siriani, si presenta come un governo alternativo a El Assad. E’ già stato riconosciuto come governo ufficiale della Siria dal Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt) libico e la cosa più probabile è che facciano lo stesso l’Arabia Saudita e altri alleati. Il Cns appoggia le azioni armate dell’Esl ma, contemporaneamente, chiede un intervento imperialista, fa appello ad un’“azione rapida” da parte della comunità internazionale per proteggere i civili “con tutti i mezzi necessari”.
Al contrario, un’altra piattaforma contrapposta, quella del Corpo Nazionale di Coordinamento, respinge ogni intervento straniereo. Secondo quanto riferiscono gli organi di stampa, sembra che la maggioranza degli attivisti siriani che organizzano le proteste popolari appoggino il Corpo Nazionale di Coordinamento e non vogliono saperne di soldati stranieri nel loro Paese. I sondaggi indicano che la gran maggioranza della popolazione siriana, nell’ambito della quale c’è una buona percentuale di oppositori, è contraria a qualsiasi tipo di invasione militare patrocinata dall’Onu.
Tuttavia, un grave problema sta nel fatto che il Corpo Nazionale di Coordinamento fa pressioni sull’Esl affinché si limiti a difendere le manifestazioni “pacifiche” rinunciando a offensive militari e alla conquista di territori. Questo è un grave errore che rischia di condurre la lotta in un vicolo cieco. La realtà dei fatti sta dimostrando a migliaia di giovani e lavoratori che da quasi un anno si scontrano nelle strade contro la dittatura sanguinaria di El Assad che non è solo imprescindibile organizzare l’autodifesa, ma che è urgente intensificare l’armamento generale delle masse popolari per intensificare e accelerare il processo di crisi all’interno dell’esercito regolare.
Dall’altra parte c’è Hamas, che aveva la sua sede a Damasco, dove viveva sotto la protezione di Assad. Jaled Meshalk, il massimo dirigente politico di questa organizzazione islamista palestinese, ha abbandonato la sede di Damasco e non si sa se è fuggito nel Qatar o in Egitto. Tuttavia, il grosso dell’apparato di Hamas è stato trasferito al Cairo. Hamas, lungi dall’intenzione di dirigere la giusta lotta delle masse popolari siriane contro Assad, si è limitato a una posizione di estraneità, che favorisce il dittatore.
Come Lit sosteniamo che il problema dei problemi, tanto in Siria come negli altri Paesi della regione che sono attraversati dall’ondata rivoluzionaria, è la questione della direzione rivoluzionaria. In questo senso, diciamo alle masse popolari siriane e ai combattenti e alle combattenti più coscienti di confidare solo nelle loro forze rivoluzionarie e di non nutrire nessuna aspettativa di né nell’imperialismo né nelle correnti politiche borghesi e arabo-islamiste.
E’ una questione di vita o di morte: nel vivo della lotta contro il regime di Assad, sia le masse popolari sia la classe operaia siriana devono auto-organizzarsi e autodeterminare i destini della loro lotta. Dirigenti come quelli attuali, tanto quelli del Cns che quelli dell’Esl, se momentaneamente possono collocarsi nello stesso campo militare delle masse popolari povere contro Assad, per la loro collocazione di classe prima o poi finiranno col tradire le reali aspirazioni delle masse popolari, non solo quelle economiche, ma anche quelle relative alle rivendicazioni democratiche.
L’unica via d’uscita, per una vittoria strategica, è costruire una direzione rivoluzionaria e internazionalista che prenda nelle proprie mani le redini della rivoluzione.
Pieno appoggio alla lotta delle masse siriane fino alla caduta del regime assassino di Assad! 
E’ necessario unificare le mobilitazioni in tutto il Paese e intensificare la lotta armata fino alla caduta del regime. E’ necessario approfondire la divisione delle forze armate del regime e che le masse rafforzino la loro organizzazione nella forma dei consigli popolari con funzionamento democratico; che questi, a loro volta, organizzino milizie armate, le cui azioni devono essere subordinate all’interesse generale della lotta.
In questo senso, come Lit respingiamo categoricamente – e chiediamo che venga respinto – qualunque tipo di intervento imperialista in Siria. Sono le masse popolari siriane, e solo loro, che devono decidere del loro destino. Non si può sperare che venga nulla di buono dalle potenze imperialiste né dai loro burattini, che hanno come unico obiettivo il saccheggio e lo sfruttamento dei Paesi subordinati.
Allo stesso modo, facciamo un appello a tutto il movimento sociale e alle organizzazioni politiche che si rivendicano di sinistra o che dicono di difendere i diritti umani a portare solidarietà attiva alla lotta delle masse siriane. Tramite le nostre organizzazioni dobbiamo rivendicare la rottura con il governo Assad: questa rivendicazione vale ovviamente anche nei confronti dei governi guidati da Chavez e dai Castro, fedeli difensori di questo regime, e nei confronti del governo Dilma in Brasile che, benché in forma più dissimulata, ha parimenti espresso appoggio politico ad Assad.
La lotta è per la caduta immediata di Assad e per l’instaurazione di un governo delle classi sfruttate siriane. Solo un governo operaio e popolare potrà convocare e garantire la realizzazione di un’assemblea costituente libera, democratica e sovrana per conquistare le libertà democratiche e liberare il Paese dall’imperialismo. Solo un governo operaio e popolare potrà mettere in atto uno scontro reale con lo stato nazi-sionista di Israele, enclave politico-militare dell’imperialismo nella regione, a partire dalla riappropriazione del territorio siriano corrispondente all’Alto Golan, occupato dai sionisti dal 1967.
Questo governo, fondato sulle organizzazioni e sulle milizie proletarie, dovrà inoltre processare e punire tutti i crimini di Assad e della sua cricca dittatoriale; confiscare i suoi beni e porli sotto il controllo popolare e al servizio delle masse affamate; annullare tutti i contratti relativi allo sfruttamento del petrolio e gli altri contratti stipulai da Assad che subordinano il Paese all’imperialismo; nazionalizzare subito il petrolio e tutte le risorse del Paese sotto il controllo del proletariato e al fine di mettere in atto un piano di emergenza che risponda ai bisogni più urgenti delle masse lavoratrici siriane, avanzando verso la prospettiva di una Federazione delle Repubbliche Socialiste Arabe. 

1) Lev Trotsky, I problemi della guerra civile. Trascrizione di un discorso di Trotsky alla Conferenza della Società di scienze militari di Mosca, nel luglio 1924. Prima pubblicazione sulla Pravda, 6 settembre 1924. Inedito in italiano. (Ndt)

Nessun commento:

Posta un commento