Quando il trombettista Dizzy Gillespie salì sul palco del Monterey Jazz
Festival per comunicare al mondo la sua intenzione di candidarsi alle elezioni
presidenziali statunitensi, Mitt Romney era un adolescente sedicenne: e
certamente seguiva gli sviluppi della situazione dal momento che il padre
George, all’epoca governatore del Michigan, era uno dei candidati alle primarie
del partito Repubblicano. Barack Houssein Obama, invece, aveva da poco compiuto
due anni.
Era il 21 settembre 1963, e mentre pensava a chi piazzare nei punti
nevralgici del potere e nel futuro gabinetto della Casa Bianca (ribattezzata per
l’occasione Casa del Blues) Gillespie non era mai stato così serio in vita sua:
Miles Davis capo della CIA, Duke Ellington ministro dello Stato, Max Roach
ministro della Difesa, Charles Mingus ministro della Pace, Louis Armstrong
all’Agricoltura, Malcolm X alla Giustizia ed Ella Fitzgerald alle Politiche
Sociali.
L’annuncio fu fatto nel suo tipico stile, a metà tra umorismo graffiante e
musica spericolata. «Voglio diventare Presidente degli Stati Uniti – urlò al
microfono davanti a trentamila spettatori entusiasti – perché ce ne serve uno!».
Questa frase diventò immediatamente lo slogan della campagna elettorale. Ma per
inseguire un improbabile successo, Gillespie sapeva di aver bisogno di un inno.
Il cantante Jon Hendricks, eminenza poetica dell’entourage gillespiano, quella
sera si unì alla band: molto solennemente spiegò che il brano che stavano per
eseguire avrebbe fatto da colonna sonora alla corsa presidenziale di
Gillespie.
Si intitolava Vote for Dizzy: la musica era quella di Salt
Peanuts, un vecchio classico del bebop; il testo, invece, l’aveva scritto
lo stesso Hendricks sulle note della melodia, e diceva cose così: “Vote Dizzy!
Vote Dizzy! You want a good president who’s willing to run / You wanna make
government a barrel of fun”, “Votate per Dizzy! Volete un bravo presidente che
si dia da fare / Volete un bel governo che vi faccia sganasciare”; o ancora:
“Your political leaders spout a lot of hot air / But Dizzy blows trumpet so you
really don’t care”, “Gli altri politici quanto fiato san sprecare / Ma Dizzy se
non altro lo usa per suonare” (la traduzione è di Dario Matrone).
L’annuncio lanciato dal palco di Monterey veniva in realtà da lontano. La
società statunitense si avvicinava pigramente all’elezione presidenziale del
novembre 1964, preparando il secondo, scontato, mandato per John Fitzgerald
Kennedy. Per sfruttare il clima propagandistico la ABC, l’agenzia che si
occupava del management di Gillespie, all’inizio del 1963 aveva prodotto una
serie di spillette con la scritta “Dizzy for President”. Avrebbe dovuto essere
semplice materiale promozionale, ma gli avvenimenti presero una piega diversa.
In quell’anno, infatti, accaddero fatti ai quali un tipo da sempre a fianco dei
neri e dei più deboli (categorie che troppo spesso coincidevano negli Stati
Uniti, e delle quali Gillespie si era trovato a far parte) non poteva assistere
passivamente.
Il 12 giugno, all’indomani del celebre discorso in cui Kennedy illustrava
agli americani il suo disegno di legge contro la segregazione razziale nelle
scuole e nei luoghi pubblici, l’attivista afroamericano Medgar Evers fu freddato
con una fucilata alla schiena mentre entrava nella sua casa a Mound Bayou, nel
Mississippi. Dell’omicidio fu accusato Byron De La Beckwith, un militante del
White Citizen’s Council, formazione assimilabile al Ku Klux Klan; questi, grazie
a una vergognosa manipolazione dei giurati (tutti bianchi), evitò il carcere per
oltre trent’anni fino a quando, nel 1994, il caso fu riaperto e lui finalmente
condannato.
La storia alimentò l’immaginario riformista del tempo: Bob Dylan e Nina
Simone incisero canzoni sull’accaduto, scrittori e commediografi lo misero al
centro di romanzi e lavori teatrali, fino al film del 1996 Ghost of
Mississippi (uscito in Italia l’anno dopo col titolo di
L’agguato), nel quale Rob Reiner ricostruiva la riapertura del processo
e la condanna di De La Bleckwith, interpretato da James Woods.
Due mesi e mezzo più tardi, oltre trecentomila afroamericani (per le autorità
molti meno) marciarono su Washington in difesa dei loro diritti. Reclamavano
pari opportunità di lavoro, invocando misure più ficcanti e determinate rispetto
a quelle indicate da Kennedy nel suo discorso. Sul palco si alternarono i
rappresentanti delle sei categorie religiose e politiche afroamericane più
importanti; tra questi, Martin
Luther King pronunciò il suo celebre discorso I Have a Dream.
Joséphine Baker fu l’unica donna a prendere ufficialmente la parola. E tra le
decine di migliaia di manifestanti, una coppia esibiva con fierezza la spilletta
“Dizzy for President”: fu quella la molla che trasformò un’idea forse bislacca
in una faccenda più seria.
A settembre, la piccola e sgangherata macchina elettorale che avrebbe
sostenuto Gillespie era stata messa in piedi grazie all’intervento di Ralph
Gleason e sua moglie Jeannie. Gleason era un noto critico jazz, e aveva
iniziato, in articoli pubblicati su quotidiani nazionali e riviste
specializzate, a diffondere la notizia di una eventuale candidatura da parte di
Gillespie. Il quale, invece, non aveva ancora sciolto la riserva: inserirsi nel
complicatissimo meccanismo elettorale americano non era affatto facile.
Gillespie decise di provarci quando, il 15 settembre, un vile attentato
dinamitardo alla Sixteenth Street Baptist Church di Birmingham, Alabama, provocò
la morte di quattro ragazzine afroamericane. La strage, evidentemente, puntava a
fermare il processo di integrazione razziale avviato negli Stati del sud, un
processo contro il quale il governatore dell’Alabama – George Wallace, populista
e segregazionista, che si sarebbe candidato alle primarie del partito
Democratico – si opponeva da sempre. Come nel caso Evers, il colpevole, Robert
Chambliss, appartenente a una cellula del Ku Klux Klan, fu subito individuato,
ma grazie a protezioni e connivenze riuscì a evitare il carcere a vita, a cui fu
poi condannato nel 1977, quando il caso venne riaperto.
Cinque giorni dopo la strage razzista di Birmingham, Dizzy Gillespie annunciò
a Monterey la sua volontà di candidarsi alla più alta carica degli Stati Uniti.
Dalle gradinate un gruppo di fans provenienti da San Francisco espose un
lenzuolo che inneggiava a Dizzy for President.
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