Nonostante
l'abbassamento del quorum, Romano Prodi non ce la fa. Ha avuto 395 voti, circa
100 in meno di quelli di cui teoricamente dovrebbe disporre. Pdl e Lega non
hanno partecipato alla votazione. La candidata di Lista Civica Cancellieri ha
avuto 78 voti. Rodotà a quota 213, più di quelli corrispondenti al numero degli
elettori del M5S. 15 voti per il non-candidato D'Alema. Domani alle 10 quinto
tentativo
Non c'è dubbio alcuno che il miglior Presidente della Repubblica che sia
fra noi è Stefano Rodotà. Alto profilo intellettuale; personaggio
rappresentativo della miglior società civile italiana, e tuttavia dotato al
tempo stesso di un'ampia esperienza politica e parlamentare; contraddistinto, e
non solo nel suo settore disciplinare, di una vasta fama internazionale.
Aggiungo in forma di corollario (ma non tanto) che una disposizione
etico-psicologica personale, fortemente radicata, lo tiene permanentemente in
un atteggiamento di vigile discrezione e di assoluto rifiuto di ogni forma di
esibizionismo.
Per quanto indiscutibilmente connotato in senso liberaldemocratico (cioè, dico
io, di sinistra) sarebbe difficile immaginare uno più di lui disposto a
svolgere un ruolo equilibrato e super partes, d'inflessibile custode (e innanzi
tutto, il che non guasta di questi tempi, di straordinario conoscitore) della
nostra Costituzione. Le scelte compiute negli ultimi anni con la Commissione
che da lui prende il nome hanno ulteriormente ribadito e perfezionato questo
profilo: la teoria, da lui formulata, desidero precisarlo, in forma tutt'altro
che estremistica, dei «beni comuni», va nella direzione d'innovare l'impianto
giuridico, - e, perché no, anche politico, - italiano, senza scambiare, come
capita ad altri, lucciole per lanterne, anzi rimanendo come e più di prima
ancorati saldamente alla Costituzione italiana.
Scrive queste cose uno che, fino all'altro ieri, ha pensato e, a dir la verità
disperatamente continua a pensare, che senza un Pd il più possibile forte e
coeso, e di governo, andiamo tutti allo sfascio. Così come si va allo sfascio
se si torna ora, con colpevole disinvoltura, alle urne.
E allora? Allora, se il quadro è questo, non c'è che da manovrare al suo interno.
L'errore commesso, e cioè quello di tentare di eluderlo, è grave ma forse è
rimediabile.
Il povero Marini non c'entra per niente. Qualsiasi altro nome di quella
«specie» avrebbe prodotto, e sarebbe nei prossimi giorni destinato a produrre,
il medesimo disastro. Qualsiasi soluzione contrattata con l'indegno, indecente,
intollerabile rappresentante attuale del centro-destra avrebbe prodotto, e
produrrebbe in un qualsiasi futuro, il medesimo disastro. La dissoluzione della
seconda Repubblica (ammesso che vent'anni fa ne sia nata una dalla prima, e che
noi invece non siamo ancora conficcati nella lunga, estenuante, angosciosa
dissoluzione di quella) non consente più espedienti di tale natura. L'unica
soluzione possibile è uscire - cominciare a uscire, - da quella logica.
Per cominciare a uscirne, nelle condizioni date dell'ultimo risultato
elettorale, - un centro-sinistra e un centro-destra drammaticamente
contrappositivi e reciprocamente escludentisi, e un terzo del Parlamento nelle
mani di una forza, il Movimento 5 Stelle, che per ora si rifiuta di
pronunciarsi a favore di una qualsiasi scelta di linea (il voto di fiducia), -
non si può che procedere passo dopo passo.
Le strategie complessive, che mettono insieme troppe cose, non funzionano.
Anzi, quando ne siano state poste le condizioni apparentemente autosufficienti,
esse si rivelano alla prova dei fatti ancor più catastrofiche delle mancanze
cui vorrebbero sopperire.
Oggi bisogna eleggere (bene) il Presidente della Repubblica, non designare il
Presidente del Consiglio. Un buon esempio era stato dato con l'elezione dei
Presidenti delle due Camere, Boldrini e Grasso. Si è tornati indietro da quel
traguardo: ed è stato il caos.
Bisogna mettere qui un punto fermo e riprendere dall'inizio. Bisogna evitare di
pensare al ritorno al voto anche semplicemente come estrema risorsa mentale.
Bisogna invece tornare a studiare il voto presidenziale con le idee chiare e
con la determinazione coraggiosa d'innovare radicalmente le condizioni della
scelta.
L'antipolitica, per passato, esperienze e convinzioni, mi è estranea più di
qualsiasi altro atteggiamento. Ma la condizione storica che stiamo vivendo
esige che si esca dalla cerchia dei «soliti noti», per quanto, in non pochi
casi, dotati di attributi etici e politici assolutamente fuori discussione.
Per giunta, come argomentavo all'inizio, il candidato inequivocabilmente c'è.
La partita ora ritorna tutta nelle mani del Pd. Se il Pd ritrovasse la sua
unità intorno a quel nome, - che non mette in gioco né contrappone fra loro
correnti, mira più in alto della solita diatriba quotidiana e si riallaccia a
una corrente forte e viva dell'opinione pubblica italiana, - non solo nulla
sarebbe perduto, ma si ripartirebbe col piede giusto: a malo bonum, come in
quello sventurato paese che è l'Italia, il più delle volte, storicamente, ci è
accaduto di dover auspicare e praticare.
E il governo? Qui ci vorrebbe più fantasia di quanto la politica sia disposta
di solito a praticare. Proviamo a immaginare cosa accadrebbe in Parlamento, a
condizioni date, se il problema della Presidenza della Repubblica fosse
impostato e risolto come io dico. Avremmo a disposizione una immensa carica
d'entusiasmo da riversare in tutte le direzioni, a cominciare dal paese. E'
così che si gioca la partita, non imboccando la strada che, se riporta al voto
una volta fallita una trattativa in ogni senso sbagliata, comporta il disastro
finale del Pasok e il nuovo, ormai consolidato trionfo delle destre. L'Europa
deve accettare questa volta che si faccia a modo nostro. E il modo nostro,
questa volta, consiste nel non aggirare per l'ennesima volta l'ostacolo,
sperando che dal compromesso nasca un compromesso che produca un compromesso...
ma affrontandolo in pieno e rimuovendolo ab origine. Ci vuole un Presidente
della Repubblica nuovo. E' ciò di cui abbiamo bisogno.
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