Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

mercoledì 17 luglio 2013

Foglio volante estemporaneo supplemento a Giornal'immaginario

Oreste Scalzone


A caldo, fuori-programma, per intanto qui, ora, qualche sommessa riflessione, come ''tra sé e sé''... 

Certo che... strada lunga, accidentata, quella – per cominciare – delle « rivoluzioni arabe », e anche di altri processi e fenomeni, insorgenze che ad esse vengono accostate, a volte prendendo quelle come stimolo – colpo d'avvio, scintilla con effetto majeutico –, come acceleratore e in parte, paradigma possibile, sommerso o evidente.
Certo, la sommossa è la forma principe, se non l'unica, che si presenta sulla scena. Forma, anche, di sbocco di quella che all'occorrenza si chiama indignazione, capace sia di evitarne l' installarsi nel risentimento, l'attorcigliarsi e il marcire in una sorta di querimonia permanente, di propaganda rivolta non si sa bene a chi e per quali esiti a breve ; sia di scivolare inesorabilmente nella deriva della « denuncia », che già nel nome rinvia ad un orizzonte penale, per prima cosa autofagico, divoratore di ogni capacità di responsabilità anche personale di azione comune e 'in comune', di prassi diretta, autonoma. 
Altrettanto evidente è, che la piazza ribelle (''il popolo' che si solleva''...), è schiacciata nelle tenaglie terribili che si contendono – e ''oggettivamente'' in solido confiscano – gli esiti del liberatorio movimento di sollevazione, di eruzione. 
L'aria manca, nella morsa del dilemma (che è « pseudo problema » perché non ammette soluzione, non prevede un « meglio » e neanche un « meno peggio » tra 'padella e brace', 'Scilla e Cariddi', 'peste' o 'colera'), tra golpe militare e regime delle gerarchie della Sharia ; tra una piramide reticolare di ''teocrati'' – comunque anche vassalli delle logiche dell'economia globale, del disordine/ordine della macchinerìa-Mondo, e generali che tra l'altro incarnano anche direttamente l'oligarchia economico-finanziaria del Paese, e che sono sperimentata struttura di regime servo/padronale (servo verso l'esterno, vertici imperiali o 'globali', e dispotico 'in verticale', nella ''eterna'' guerra interna dall'alto, condotta dai 'vertici' contro quello che variamente è chiamato società, proletariato, masse, o moltitudini, fatte oggetto di feroci logiche d'utilitarismo, comando, sopraffazione). Tenaglie da incubo, come quelle delle guerre civili e geo-politiche (con le relative sovradeterminazioni) di Siria o – ieri – di Libia. Inscritto anche se in modo per ora più attutito in questo scenario, anche il teatro tunisino. 
Dal canto suo, quello turco si presenta in certo senso come a mezza strada rispetto ad altri 'spazî' d' altrove. L'immensa sommossa brasiliana, le varie ''Occupy'', pongono immani e sottili problemi, a cominciare da una comprensione critica. Certo, hanno variamente e in comune il segno di una presa della strada – la piazza, la parola... ; ma metterle nel 'frullatore' per farne uscire una specie di euforico trionfalismo che finisce per essere estetico, è dannoso come lo erano le letture giornalistiche del '68 che con una sorta di ineffabilismo, cogliendo la fenomenologia dell'onda lunga a/traverso il mondo, mettevano assieme le rivolte della West coast americana e le guardie rosse maoiste ; lo Zenga Kuren in Giappone e le rivolte inizialmente studentesche nelle metropoli del « primo mondo », da Berlino-ovest a Torino, Roma, Parigi, & così via ; e ancora, affastellando « Viet-Cong vince perché spara », la vicenda del castrismo e del guevarismo, rivolte e guerriglie e movimenti anticoloniali, ant'imperiali, nazionalitarî, irredentistici, secessionisti,''terzo-'' e ''quartomondiste'' come il Black-Panther Party... Certo, si scorgeva in questa simultaneità un 'qualcosa', un quid, così come la si poteva cogliere in area europea nel 1848. 
[ Crediamo però che si possa dire che lì, in quel « 1848, mille volte maledetto dai borghesi », in quel caso (ad onta di tutte le considerazioni che, 'in parallelo', si possono fare sulla ''ricchezza del 'mentale' dei soggetti sociali planetarî, delle – diciamo – immense moltitudini planetarie alla altezza attuale dei tempi ) i rischi di ambiguità ed autocontraddizione erano minori. Non c'erano di mezzo commistioni e colossali malintesi tra etica e Ratio geo-politica : « la Santa Alleanza degli Stati » e il prevalere in ultima analisi (così come avviene che in ultima istanza « la concorrenza tra tutti i venditori da un lato, e tutti i compratori dall'altro » fa aggio rispetto alle concorrenze interne a ciascuno dei due campi), era un'evidenza che, anche nelle forme più elementari, saltava agli occhi delle 'genti', né eventuali ''giochi di sponda'' e carambole delle élites erano lontanamente in grado di cancellarla. (Talché, ancora nella 'Grande guerra' 1914-18 la fraternizzazione come inter-, o piuttosto trans-nazionalismo dei proletarî mandati a « scannarsi tra loro senza conoscersi ed aver motivi di odio, in nome e per conto di gente che si conosceva benissimo e si preparava a sedersi al tavolo della pace », era possibile ; e « internazionalismo rivoluzionario » significava riconoscere come corrispettivo del proprio ''sparare sul proprio quartier generale'' – « il nemico che marcia... », più che «... alla nostra testa », ...in alto dietro le nostre retrovie, mandandoci avanti – lo ''sparare sul proprio Quartier generale'' di quelli che hano « la divisa d'un altro colore », come nella Canzone di Piero di De Andrè. E dunque, pacifismo, antimilitarismo – armati di questa cognizione del riflessivo, del rispettivo, del reciproco –, erano radicalmente indipendenti ; non potevano né essere, né esser scambiati, per posture strumentali, con
''doppio-pesismi'' da 'Quinte colonne' e costitutiva subalternità omologica, con espressioni di « concorrenze mimetiche » tanto manichée quanto complementari, facce di medesima medaglia, figure di propaganda del'una o l'altra fazione, sezione di una stessa forma generale, di una medesima natura capitalistico-statale, tecno-economico-politica, e, diremmo, antropologica.
Certo, elemento decisivo è stata l' ''immunodepressione'' indotta, rispetto all'opera di produzione di sfacelo mentale, di trasformazione antropologica in senso di quella che potremmo chiamare una ''servopadronalità di massa'', bio-politicamente, psicosomaticamente indotta con un impressionante crescendo dal ''tardocapitalismo'' attuale, dal « sistema integrato capitalistico-statale » nell'epoca della metastatica 'riproducibilità tecnica' delle sue forme replicantesi ad intensità ed accelerazione crescenti : questa risultante di immunodepressione che (certo, accanto ad altri aspetti in controtendenza) si è prodotta, nasce dalla tragedia immane di un virus mutante-mutageno 
all'opera (diciamo, in breve, la contraffazione/snaturamento in senso statalista-governante-'lavorista'-tecnoscientista-elitista/rappresentativo /partitocratico-penale-ideologistico...&tcetera), che ha prodotto processi di ''controrivoluzionarizzazione delle rivoluzioni''] 
Quest'aria da Quarantotto ci pare sia stata però colta e argomentata in modo superficialmente descrittivo e ineffabilistico, spesso connotato da un difetto di critica e di punto di vista indipendente, autonomo : in effetti, « L'ora del fucile » può essere una bella poesia, ma non può sostituirsi a sforzo di teoria critica, e di pratiche corrispondenti.
Una cosa peraltro è certa : che sembri pure mero volontarismo, non si può mai dire che sarebbe meglio la passività, il subire, lo « scendere nel gorgo muti », l'ignavia che si fa connivenza, il non provarci nemmeno, il non cominciare nemmeno. 
La facoltà della rivolta come forma d'espressione di potenza, potenza « di persistere », va vista come capitale, indipendente, e da fini e dagli stessi esiti. Altrettanto importante, è, al contempo,evitare sicumère, dentro le quali finisce a fermentare la cosa più suicidaria : sulla base delle ragioni più varie – compreso il non poter ''far guerre su due e più fronti'' –, finir per ragionare nei termini de « il nemico del mio nemico è il mio amico ». Che poi finisce ad andare ben al di là del « meno peggio » eventuale ; e da « amico » nel senso della coppia schmittiana, finisce per divenir supposto sodale, compagno, con cui si empatizza, e/o idolo, ''Champ'', campione...
Ora, applicare questo cogente riduttore – che può essere regola strettamente militare nel momento della battaglia – anche alla critica (che può attaccare su tutti i fronti che vuole), e addirittura alle passioni e agli affetti'', finisce per far ''perdere l'anima'' – che, nei nostri codici, vuol dire autocontraddire e smarrire 'le ragioni per cui'...
Paris 16 luglio 2013

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