Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

venerdì 5 settembre 2014

La capitale su schermo piatto

Sandro Medici. fonte http://ilmanifesto.info/




A Roma siamo ormai in guerra. Nella grande scac­chiera metro­po­li­tana, con un furore siste­ma­tico, l’esercito del nulla sta espu­gnando le case­matte dell’allegria. Una dopo l’altra. Sgom­be­rate, chiuse, spente, ammaz­zate. Ieri mat­tina è stata schiac­ciata l’occupazione del Cinema Ame­rica, che nei suoi due anni di atti­vità aveva ria­ni­mato le piazze e i vicoli di Tra­ste­vere, pre­sto rive­lan­dosi una felice ecce­zione cul­tu­rale in quell’antico adden­sato urbano che da anni si tra­scina in una deriva mer­can­tile e degra­data. Solo un mese fa è stato chiuso il Tea­tro Valle; poco prima era stato sgombe­rato il Cinema Vol­turno; l’estate scorsa era toc­cato all’Angelo Mai. In una pioggia di denunce, inchie­ste giu­di­zia­rie, incri­mi­na­zioni e deten­zioni. Due espo­nenti del movi­mento delle occu­pa­zioni sono da mesi agli arre­sti domi­ci­liari. E pre­sto si avvieranno pro­cessi su processi.
È in corso un’aggressione mili­ta­re­sca con­tro le pra­ti­che sociali di riap­pro­pria­zione dei beni comuni. Quei beni comuni, pub­blici o pri­vati che siano, che le ammi­ni­stra­zioni con­se­gnano alla ren­dita e alla spe­cu­la­zione. Patri­mo­nio edi­li­zio, ma anche quota societa­rie, ser­vizi sociali, infra­strut­ture. Ed è per con­tra­stare que­sta spo­lia­zione che si va esten­dendo un movi­mento di resi­stenza che attra­versa città e ter­ri­tori, da Roma a Pisa, da Napoli a Milano, dalle valli alpine alle sponde adria­ti­che. Con­flitti e ver­tenze che riman­dano a uno scon­tro di civiltà: tra un modello eco­no­mico che tutto riduce a merce, com­presa l’acqua che beviamo e l’aria che respi­riamo, e un’insorgenza sociale che cerca di sal­va­guar­dare la natura, la cul­tura, l’architettura per resti­tuirle ai legittimi pro­prie­tari, cioè noi tutti, noi tutte.
E in que­sto scon­tro ormai lo stato, che sia diret­ta­mente il governo o gli enti locali o la stessa magi­stra­tura, non svolge una fun­zione terza, di media­zione tra inte­ressi e bisogni. Non garan­ti­sce più quella cit­ta­di­nanza che in teo­ria dovrebbe rap­pre­sen­tare e tute­lare: al con­tra­rio, la espro­pria di ciò che le appar­tiene, per con­se­gnare il mal­tolto alle signo­rie della plu­sva­lenza, alle cen­trali dell’accumulazione finan­zia­ria, alle agen­zie della spe­cu­la­zione parassitaria.
Da qui, da que­sta man­che­vo­lezza pub­blica, da que­sta oscena com­pli­cità, nasce l’esigenza di reim­pos­ses­sarsi di ciò che è desti­nato alla requi­si­zione affa­ri­stica.
Se a Pisa i gio­vani occu­pano prima un colo­ri­fi­cio abban­do­nato e poi un distretto militare in disuso, lo fanno per impe­dire che ven­gano tra­sfor­mati in appar­ta­menti privati , alber­ghi, super­mer­cati. E lo stesso suc­cede a Napoli quando si entra in un vec­chio asilo, o a Palermo in un tea­tro in disuso, o a Trie­ste in un ex caserma. Decine di espe­rienze che diven­tano imme­dia­ta­mente luo­ghi d’incontro e socia­lità, occa­sioni cul­tu­rali, offerte di ser­vi­zio, pos­si­bi­lità di lavoro. Case­matte popo­lari che, spe­cie se in quar­tieri dif­fi­cili, si tra­sfor­mano in un’opportunità di ria­ni­ma­zione sociale, in con­te­sti dove a stento ci si saluta e a volte si ha per­fino paura.

Aleg­giano sen­ti­menti posi­tivi, si risol­vono pro­blemi e si col­ti­vano pia­ceri: ci si guarda, ci si annusa e si fanno cose insieme: cose grandi, impe­gnate, pro­dut­tive, ma anche cose pic­cole, una festa per i bam­bini, un mer­ca­tino, una pasta­sciutta col­let­tiva. Se non rischias­simo di diven­tare reto­rici, si potrebbe soste­nere che pro­prio que­sto ritro­vato desi­de­rio comu­ni­ta­rio, que­sta spinta alla coe­sione sociale, è diven­tato il prin­ci­pale nemico di chi, al con­tra­rio, ci vuole ato­miz­zati, com­pe­ti­tivi e anta­go­ni­sti, l’un con­tro l’altro, rele­gati cia­scuno nel pro­prio ango­letto, refrat­tari a qual­siasi forma di partecipazione.
E sarebbe bastato guar­dare le facce intri­stite dei tra­ste­ve­rini che ieri mat­tina hanno assi­stito muti e incol­le­riti allo sgom­bero del Cinema Ame­rica, per ren­dersi conto di quanto rap­pre­sen­tasse quell’occupazione per i tan­tis­simi che l’avevano fre­quen­tata. Per la viva­cità che aveva rega­lato, per le tante atti­vità che si svol­ge­vano, per il sem­plice fatto che lì, in quella pla­tea un po’ sgan­ghe­rata, c’era sem­pre qual­cuno, c’era sem­pre qual­cosa da fare, c’era sem­pre la pos­si­bi­lità di scam­biarsi una chiac­chiera, un sorriso.
Negli ultimi tempi, guar­darsi la par­tita della Roma sul grande schermo era diven­tato un evento cit­ta­dino: biso­gnava arri­vare pre­sto e spesso non si tro­va­vano più nean­che i posti in piedi per quella cele­bra­zione di feli­cità popo­la­re­sca.
Nell’ultimo scor­cio anche il mini­stro dei beni cul­tu­rali, Enrico Fran­ce­schini, era andato a tro­vare i ragazzi del Cinema Ame­rica. E lì, in quella sala, guar­dando le volte e i mosaici, aveva assi­cu­rato che quell’edificio sarebbe stato vin­co­lato per sal­va­guar­darne la fun­zione cul­tu­rale. In aperto con­tra­sto con quanto sta­bi­lito in una deli­bera comu­nale che, al con­tra­rio, con­sente ai pro­prie­tari di ricon­ver­tire l’edificio a uso resi­den­ziale, tanti appar­ta­men­tini, man­sar­dine, cuci­nine, bagnetti. Que­gli stessi pro­prie­tari che, forti di una sen­tenza del giu­dice delle inda­gini pre­li­mi­nari, hanno finito per denun­ciare il pre­fetto per­ché non si deci­deva a ese­guire lo sgombero.

Ieri mat­tina il con­ten­zioso isti­tu­zio­nale si è sciolto, con le truppe pre­fet­ti­zie in assetto anti-sommossa e i ragazzi a por­tar via cine­teca e biblio­teca. «La cul­tura ormai non conta più nulla», ha detto scon­so­lato uno di loro. Il mini­stro Fran­ce­schini, nel frattempo, tace: scon­fes­sato e ridi­co­liz­zato. Così come tace il sin­daco Marino. Ancora una volta sca­val­cato (e forse nean­che infor­mato) dalle deci­sioni di pre­fetto e que­store. Chiuso nel suo per­be­ni­smo lega­li­ta­rio, stuc­che­vol­mente algido, con­ti­nua a non capire che le ner­va­ture vitali di que­sta città non sie­dono nei con­si­gli d’amministrazione ma si dira­mano altrove, dove pul­sano le con­trad­di­zioni, dove sgor­gano fiato e sudore, dove bril­lano le idee.

O, come ieri mat­tina al Cinema Ame­rica, dove le idee ven­gono stroz­zate. La domanda, a que­sto punto, sorge spon­ta­nea: dob­biamo con­ti­nuare a subire o a Roma è arri­vato il tempo di rea­gire? Non sarebbe il caso di ritro­varsi tutti in piazza (tutti, ma pro­prio tutti) per fer­mare quest’onda repres­siva e regressiva.

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