L’art.18 è un totem, è una norma obsoleta, è
un vecchio simulacro di una sinistra che non esiste più, è “come un rullino per una fotocamera nell’era
delle macchinette digitali”, per usare una definizione di Renzi. Bene.
Allora cerchiamo di ragionare liberandoci da deteriorati e stantii pregiudizi e
guardiamo la faccenda in un ottica più generale.
Secondo Renzi è
necessario accrescere il grado di
flessibilità in uscita. “Un imprenditore
avrà pure il diritto di disfarsi di collaboratori che in quel momento non gli
sono necessari senza passare per la sentenza di un giudice” così si
esprimeva il Presidente del consiglio nella trasmissione “Che tempo che fa”. La
concessione di questo diritto aprirebbe la strada ad investimenti da parte
delle grandi imprese con conseguente creazione di posti di lavoro. Il
ragionamento potrebbe filare, ma non è né rivoluzionario, come vorrebbe far
credere Renzi, né efficace come dimostra quanto è avvenuto da 30 anni a questa
parte.
E’ dal 1984 infatti che si provvede ad assicurare i diritti degli
imprenditori sopra citati. Si comincia con l’introduzione del part-time, e dei
contratti di solidarietà (1984, protocollo Scotti), si prosegue con
l’estensione dei contratti a termine in tutti i settori (legge 56 del1987) . Nel 1990 si limita il diritto di
sciopero e la legge 236 del 1994,aggiunge la possibilità di assumere lavoratori
con contratto di stage in apprendistato. Nel 1996 si estende l’uso dei
contratti di solidarietà ( i lavoratori si fanno in parte carico delle
eventuali difficoltà economiche dell’imprenditore diminuendosi lo stipendio).
Nel 1997 il pacchetto Treu è oro per i diritti dell’imprenditore. Si introduce
il lavoro interinale, si estende ulteriormente l’uso dei contratti a termine e
a tempo parziale. Secondo l’allora ministro del lavoro del governo Prodi
(centro sinistra, allora è vizio.) la flessibilizzazione del
lavoro, avrebbe prodotto maggiore occupazione. In realtà si determinò un
processo di sostituzione del lavoro a tempo determinato con quello precario. Ed
è ciò che sta avvenendo oggi con il
decreto Poletti. (Quello che allunga a 36 mesi la durata dei contratti a tempo
determinato, senza causale, con la possibilità di reiterarli per 5 volte).
Nel
2001 irrompe il libro bianco del lavoro del ministro Sacconi e del
giuslavorista Marco Biagi. La legge 30 del 14 febbraio 2003 ne recepisce
le direttive. Cioè: flessibilità in
uscita tramite revisione dell’art.18, privatizzazione degli uffici di collocamento,
liberalizzazione delle agenzie interinali, ammissibilità della somministrazione
di mano d’opera. Ovvero la possibilità per
le aziende con più di 15 dipendenti di costituire nuove società più
piccole, in modo da vanificare gli effetti dell’art.18.
Arriviamo a tempi più
recenti. 2011 L’art.11 della legge 138 (Decreto Sacconi, ancora lui) introduce
forme di contrattazione in deroga al contratto nazionale del lavoro inerenti a
materie come, modalità di assunzione, disciplina del rapporto di lavoro ,
licenziamenti. Infine la legge Fornero, che introduce il lavoro a tempo
determinato senza causale, limitandolo però a 12 mesi e senza possibilità di
reiterazione, e il recente, già citato, decreto Poletti, primo
danno fatto dalla reggenza Renzi, che peggiora la norma della Fornero.
In
questi 30 anni di devastazione dei diritti dei lavoratori non un solo posto di
lavoro in più è stato ottenuto. Al massimo si è assistito alla sostituzione di
contratti a tempo indeterminato con contratti precari. Ma forse questo è un principio che va nella direzione, voluta da Renzi: ridurre cioè la differenza fra lavoratori
tutelati e quelli non tutelati. Nel senso però di togliere diritti a chi ce li ha
per renderli pari a chi non li ha.
Dunque, come ci insegna il passato, la nuova stagione di
flessibilizzazione imposta dal Presidente del consiglio non produrrà l’aumento
dell’occupazione, anzi renderà i lavoratori ancora più deboli nella
contrattazione, costretti a subire la probabile compressione dei salari. Un
fenomeno che non aiuterà certo la crescita.
E veniamo al secondo obbiettivo del
Jobs Act. Se da un lato si tutela il diritto a licenziare dell’imprenditore,
dall’altro ci pensa lo Stato a far campare decentemente i licenziati. Come? Con
un programma di reintroduzione al lavoro dei disoccupati, attraverso un centri per l’impiego efficienti e con l’erogazione di sussidi di disoccupazione per
tutti coloro a cui un lavoro non è stato ancora trovato. Interessante, ma praticamente come
funzionerebbe?
Dovrebbe trattarsi, di
reddito minimo, cioè legato alla perdita del lavoro. Presumo inoltre che
sarebbe necessario ricostituire un vero
centro per l’impiego pubblico. La miriade di agenzie per il lavoro private sono
inefficaci per lo scopo indicato da Renzi,
chiunque ne abbia avuto esperienza lo può confermare. Ipotizziamo delle cifre. Considerando un reddito minimo di
500 euro mensili, per una popolazione di 6 milioni di soggetti ,fra disoccupati
e inattivi, (fonte Istat) sarebbero necessari 36 miliardi lordi, considerando
il risparmio che si otterrebbe dall’eliminazione degli attuali ammortizzatori
(13 miliardi) si determinerebbe una
spesa di 23 miliardi oltre agli oneri di
riorganizzazione del centro per l’impiego . Dove li prendono tutti stì soldi?
Esiste ad esempio l’ipotesi di trasferire gran parte della spesa
sociale dalla fiscalità del lavoro, alla fiscalità generale? Non si sa, è tutto
affidato al governo attraverso la legge delega. Considerato i danni già fatti dall’esecutivo non solo nel campo del lavoro, con il decreto Poletti, ma anche con il pasticcio della riforma del Senato, con il
decreto Sblocca Italia ancora privo delle coperture e neanche arrivato sulla
scrivania del Capo dello Stato per la firma, la cosa non lascia tranquilli. Anzi
fa presagire il peggio. Siamo in balia di una masnada di incompetenti e presuntuosi, ottusi, ma utili ed efficienti esecutori dei voleri del capitale finanziario. Andrebbero fermati in tempo.
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