Michele
Prospero (articolo scritto per “Rassegna sindacale")
Gasato
per l’inno di giubilo cantato dai media unificati, che attribuiscono alla cura
Renzi la miracolosa ripresa dell’economia (in realtà un modesto più 0,3 per
cento trimestrale, la metà della Francia e solo un terzo della Spagna), il
presidente del consiglio sale in cattedra per piegare la resistenza dei
cocciuti professori. Traviati dai gufi e dai loro
“slogan ideologici”, i docenti non hanno ancora compreso la bellezza della
buona scuola, che trasformerà l’Italia in una “superpotenza culturale”.
Con
gesso e lavagna Renzi si propone come il professore d’Italia che spiega la
bella legge e corregge i “difetti di comunicazione” del governo. Lontani sono i
giorni in cui la polizia accarezzava la testa degli “squadristi” che lo
contestavano all’ingresso della Festa dell’Unità di Bologna. Ora il presidente
del consiglio vuole il dialogo, e sceglie la strada di un lungo monologo per
entrare nella testa dei contestatori, senza quei perturbatori della quiete che
sono i sindacati.
Con
messaggi ammiccanti (“la buona scuola c’è già. Siete voi”), il premier cerca di
sedurre i professori deviati dai cattivi agitatori: un governo celere, non
necessariamente è il governo della celere. Con simboli di un vecchio mondo
antico (“la maestra, il prete e il maresciallo”), e fughe in inglesismi
ipermoderni (“skills professionali”, “pensare multitasking”), Renzi cerca di
pacificare il mondo per lui ingrato della scuola.
E’
vero che i professori sanno “allargare il cuore con una poesia”, ma Renzi è un
tipo prosaico e mette loro in bella mostra la vile grana: “più soldi agli
insegnanti”. Si tratta, in verità, di una mancia di almeno 14 euro al mese,
condizionata però ad una valutazione. Ciascun professore è esaminato da una
commissione (preside, qualche genitore e alcuni studenti) che decide se il
candidato merita o no uno scatto stipendiale.
Quella
che si chiama meritocrazia (“il merito non è una parolaccia”). E che non può
che prevedere meccanismi di valutazione selettiva dei docenti (Renzi lo dice a
ritmo pop: “no al nessuno mi può giudicare”) per scatenare una sana
competizione tra i professori, esortati a coltivare “la rabbia contro i
colleghi” pelandroni.
E’
sempre in ragione di sua maestà il merito , che il sindaco-preside assume
poteri di assunzione dei docenti da un albo provinciale. Gli esclusi restano a
disposizione e, se per tre anni nessuno si ricorda di loro per una cattedra o
una supplenza, devono semplicemente cambiare aria. Confusi da “polemiche e
boicottaggi”, le teste dure dei docenti non capiscono quanto oro sta per
affluire nelle loro tasche e in quelle di tutte le scuole italiche.
Nell’età
dell’oro ormai alle porte, ogni scuola (dice Renzi da Milano centro a Scampia)
deve “aprirsi al territorio”. E pazienza se le opportunità offerte dai luoghi
siano alquanto diverse. Ma il governo rimedia alle asperità dei territori con
la possibilità delle famiglie di finanziare le ristrutturazioni (con grandi
agevolazioni fiscali) e di destinare il loro 5 per mille ad uno specifico
istituto. Che importa se una scuola è frequentata da lavoratori e incapienti
che il 5 per mille neppure devono destinarlo e l’altra dai figli dei ricchi che
hanno rinunciato alle scuole paritarie, coperte di sgravi e detrazioni fiscali?
Agli
studenti Renzi suggerisce di aderire alla sua proposta di eguaglianza nelle
opportunità (ciascuno “abbia le possibilità di giocarsi le proprie carte”).
Siamo alla retorica antica, la più triviale e falsa, quella delle iniziative
“affinché siano messi tutti nella stessa posizione di partenza”. E quindi soldi
alle scuole dei ricchi, e abbandono per quelle dei poveri.
Fa
cilecca il ridente statista di Rignano quando tratta gli insegnanti come dei
somari che, per capire il loro destino, pendono dalla bocca rischiaratrice del
professore dei professori e considera gli studenti come degli sprovveduti
pronti a cedere dinanzi alle sue chiacchiere insipide sul merito, sulla
“centralità nel futuro”.
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