Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

giovedì 18 giugno 2015

La corsa di Israele alla bancarotta economica (e morale)

Jonathan Cook  fonte:Zetanetitaly

Due recenti rapporti suggeriscono che Israele potrebbe rischiare conseguenze catastrofiche se non porrà fine ai maltrattamenti dei palestinesi sotto il suo dominio, nei territori occupati o nello stesso Israele.
La ricerca della Rand Corporation mostra che Israele potrebbe perdere 250 miliardi di dollari nel prossimo decennio se non concluderà la pace con i palestinesi e si intensificherà la violenza. Por fine all’occupazione, d’altro canto, potrebbe portare un dividendo di più di 120 miliardi di dollari nelle casse della nazione.
Contemporaneamente il ministro israeliano delle finanze prevede un futuro ancor più fosco a meno che Israele non si reinventi. E’ probabile che finisca in bancarotta nel giro di pochi decenni, dice il rapporto del ministro delle finanze, a causa della rapida crescita di due gruppi che non sono produttivi.
Entro il 2059 metà della popolazione sarà costituita o da ebrei ultraortodossi, che preferiscono la preghiera al lavoro, o da membri della minoranza palestinese di Israele, la maggior parte della quale è danneggiata dal proprio sistema separato d’istruzione e poi esclusa da gran parte dell’economia.
Entrambi i rapporti dovrebbero suscitare una marea di preoccupazione in Israele, ma a malapena hanno causato qualche piccola onda. Lo status quo – dell’occupazione e del razzismo endemico – sembra tuttora preferibile alla maggior parte degli israeliani.
La spiegazione richiede un’analisi molto più profonda di cui non appaiono capaci né la Rand Corporation né il ministero delle finanze israeliano.
Il rapporto del ministero delle finanze segnala che con una popolazione crescente non preparata a un’economia globale moderna l’onere della fiscalità ricade sempre più pesantemente su una classe media in assottigliamento.
Il timore è che ciò creerà rapidamente un circolo vizioso. Gli israeliani più ricchi tendono ad avere due passaporti. Schiacciati dalla necessità di far fronte al deficit di entrate, espatrieranno, precipitando Israele in un debito irreversibile.
Nonostante questo scenario da giorno del giudizio Israele sembra lungi dall’essere pronto a intraprendere l’urgente ristrutturazione necessaria per salvare la propria economia. Il sionismo, l’ideologia ufficiale di Israele, è basato su principi centrali di separazione etnica, giudaizzazione del territorio e lavoro ebreo. E’ sempre dipeso dall’emarginazione, al meglio, e dall’esclusione, al peggio, dei non ebrei.
Ogni tentativo di smantellare l’impalcatura di uno stato ebraico determinerebbe una crisi politica. Le riforme possono aver luogo, ma probabilmente avranno luogo troppo lentamente e gradualmente per fare una gran differenza.
Il rapporto Rand lancia anche l’allarme. Segnala che entrambi i popoli si avvantaggerebbero dalla pace, anche se l’incentivo è più forte per i palestinesi. L’integrazione nel Medio Oriente vedrebbe crescere i salari medi di solo il 5 per cento per gli israeliani, in confronto con il 36 per cento per i palestinesi.
Ma mentre i suoi economisti possono aver trovato facile quantificare i benefici di por fine all’occupazione, è molto più difficile valutare i costi in sheqel e dollari.
Nel corso dei sei ultimi decenni è emersa in Israele una élite economica il cui prestigio, potere e ricchezza dipendono dall’occupazione. Ufficiali di carriera dell’esercito guadagnano ricchi stipendi e si ritirano sulla quarantina con generose pensioni. Oggi molti di questi ufficiali vivono negli insediamenti.
I pezzi grossi dell’esercito sono il gruppo più elevato di pressione e non molleranno la loro presa sui territori occupati senza lottare, e si tratterà di una lotta per la quale sono in posizione vincente.
A sostenerli ci saranno quelli del settore dell’alta tecnologia che è divenuta il motore dell’economia israeliana. Molti sono ex militari che si sono resi conto che i territori occupati erano il laboratorio ideale per sviluppare e verificare software e hardware militari.
L’eccellenza israeliana negli armamenti, sistemi di sorveglianza, strategie di contenimento, raccolta di dati biometrici, controllo delle masse e guerra psicologica ha un mercato. Il know-how israeliano è divenuto indispensabile per l’appetito globale riguardo alla “sicurezza interna”.
Tale competenza è stata in mostra questo mese all’esposizione degli armamenti di Tel Aviv che ha attirato migliaia di dirigenti della sicurezza di tutto il mondo, attratti dall’argomento forte di vendita che i sistemi in offerta erano “verificati in combattimento”.
Por fine all’occupazione significherebbe sacrificare tutto ciò e recedere allo status quo di un minuscolo stato anonimo senza risorse o esportazioni degne di nota.
E, infine, i coloni sono uno dei settori più ideologicamente impegnati e favoriti della popolazione d’Israele. Se fossero trasferiti riporterebbero in Israele la loro coesione di gruppo e i loro profondi risentimenti.
Nessun leader israeliano vuole scatenare una guerra civile che potrebbe fare a pezzi il già fragile senso di unità della popolazione ebrea.
La realtà è che la percezione della maggior parte degli israeliani circa i loro interessi nazionali, sia come stato ebraico sia come superpotenza militare, è intimamente legata a un’occupazione permanente e all’esclusione della minoranza palestinese di Israele dalla reale cittadinanza.
Se c’è una conclusione da ricavare da questi due rapporti può essere una conclusione pessimistica.
L’economia interna di Israele probabilmente crescerà più debole, con la manodopera ultraortodossa e palestinese sottoutilizzata. In conseguenza è probabile che il centro degli interessi e dell’attività economica di Israele si dirigeranno sempre più verso i territori occupati.
Lungi da un ripensamento degli israeliani circa le loro politiche oppressive nei confronti dei palestinesi, i paraocchi ideologici imposti dal sionismo potrebbero spingerli a perseguire ancor più aggressivamente i vantaggi dell’occupazione.
Se il mondo che osserva vuole davvero la pace, non saranno sufficienti le pie illusioni. L’ora delle carote è semplicemente passata. Sono necessari anche i bastoni.
Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale Martha Gellhorn per il Giornalismo. I suoi libri più recenti sono “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per rifare il Medio Oriente] (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [Palestina che scompare: gli esperimenti di Israele con la disperazione umana] (Zed Books). Il suo sito web è www.jonathan-cook.net.
Una versione di questo articolo è apparsa in origine su The National, Abu Dhabi.

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