Alessandro Pace
Una premessa è d’obbligo. La legge costituzionale
Renzi-Boschi (di seguito, legge Boschi) è stata approvata dalle Camere
nonostante la Corte costituzionale, con la sentenza n. 1 del 2014, avesse
dichiarato l’incostituzionalità della legge elettorale (c.d. Porcellum) sulla cui base era stata
eletta la XVII legislatura. Il che solleva dei gravissimi dubbi sulla legittimità
costituzionale di tale legge, avendo il Governo e il Parlamento consapevolmente
violato un giudicato costituzionale.
La Corte
costituzionale aveva infatti bensì ammesso che le Camere avrebbero potuto
continuare ad operare, non però indefinitamente, ma solo per alcuni mesi e al
fine di sostituire il Porcellum con
altra legge elettorale rispettosa della Costituzione.
Il risultato di questo azzardo, portato avanti dall’ex
Presidente Napolitano e dal Presidente del Consiglio Renzi, è una riforma
costituzionale consentanea all’indirizzo politico del governo, irrispettosa
delle opposizioni parlamentari, preoccupata da un lato di eliminare possibili
contropoteri nei confronti del governo e, dall’altro, di ridimensionare le
Regioni nei confronti dello Stato.
Passo alle critiche di dettaglio. La legge Boschi è
una legge di riforma dal contenuto disomogeneo che conseguentemente coercisce
la libertà di voto degli elettori che hanno a disposizione un solo voto mentre
i quesiti, nella specie, sarebbero almeno tre. Privilegia, grazie alla nuova
legge elettorale (c.d. Italicum) -
sotto questo profilo, identica al Porcellum
-, la governabilità sulla rappresentatività prevedendo di fatto un “premierato
assoluto”. Contraddice la sovranità popolare - di cui «la volontà dei
cittadini, espressa attraverso il voto, costituisce il principale strumento»
(Corte cost., sent. n. 1 del 2014) - attribuendo ai consigli regionali, e non
ai cittadini, il diritto di eleggere il Senato. Ribadisce la spettanza al
Senato della funzione legislativa e di quella di revisione costituzionale
ancorché esso sia privo di legittimazione democratica. Prevede che i senatori
esercitino anche le funzioni di consigliere regionale e di sindaco, senza
considerare che la duplicità delle funzioni impedirebbe il puntuale adempimento
delle importanti e onerose funzioni sia legislative sia di controllo connesse
alla carica senatoriale. Amplia il potere d’iniziativa legislativa del Governo
mediante disegni di legge attuativi del programma di governo da approvare entro
70 giorni dalla deliberazione d’urgenza dell’assemblea, restringendo
ulteriormente gli spazi per l’iniziativa legislativa parlamentare.
Sottodimensiona irrazionalmente la composizione del Senato (100 senatori)
rispetto alla composizione della Camera dei deputati (630 deputati) rendendo
irrilevante il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta
comune. Prevede almeno otto tipi diversi di approvazione delle leggi ordinarie,
in luogo degli attuali due, con pregiudizio per la funzionalità della Camera dei
deputati e il rischio di vizi di costituzionalità. Elimina il Senato come
contro-potere politico esterno della Camera dei deputati, senza compensarne
l’eliminazione con la previsione di contropoteri interni, quale il diritto
delle minoranze qualificate di istituire inchieste parlamentari; anzi rinvia ai
regolamenti parlamentari - per la cui approvazione è necessaria la maggioranza
assoluta (sic!) - lo “Statuto delle
opposizioni” e la previsione dei “Diritti delle minoranze”. Qualifica il Senato
“rappresentante delle istituzioni territoriali”, ancorché le sue funzioni restino
quelle tipiche di un organo dello Stato. Elimina, nei rapporti dello Stato con
le Regioni, la potestà legislativa concorrente senza prevedere una potestà
d’attuazione nelle materie nelle quali lo Stato si limiterebbe a dettare
«disposizioni generali e comuni». Attribuisce allo Stato la competenza
legislativa esclusiva in materie quali le politiche sociali, la tutela della
salute, il governo del territorio, l’ambiente e il turismo che costituiscono il
cuore dell’autonomia legislativa regionale. Dimentica di attribuire a
chicchessia (Stato o Regioni) la competenza legislativa esclusiva in materia di
circolazione stradale, di lavori pubblici, di industria, agricoltura,
artigianato, attività mineraria, cave, caccia e pesca, con la conseguenza di
non attenuare e tanto meno risolvere il problema del contenzioso costituzionale Stato-Regioni. Introduce
una clausola di supremazia statale, grazie alla quale una legge dello Stato,
senza alcun limite di materia, potrebbe intervenire in materie di competenza
delle Regioni «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica
della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale». In definitiva lo
Stato “regionale” viene degradato ad un livello «prevalentemente
amministrativo».
Sia
dall’ex Presidente Napolitano sia dalla Ministra Boschi si è però pubblicamente
ammesso che questa riforma richiederebbe
degli “aggiustamenti” necessari. Senza evidentemente rendersi conto che le loro
affermazioni pongono in dubbio la stessa superiorità formale e sostanziale
delle modifiche costituzionali da loro caldeggiate. Una costituzione è infatti
rigida perché è intrinsecamente superiore a tutti gli atti normativi che
compongono l’ordinamento, non già per il fatto che sarebbe modificabile secondo
il procedimento speciale previsto dall’art. 138 (il che è una conseguenza di
quella superiorità). Del resto, quand’anche si fosse trattato di una
costituzione ottocentesca, modificabile dallo stesso legislatore, mai e poi mai
si sarebbe pensato, dagli studiosi dell’epoca, di sottoporla ad aggiustamenti
il giorno dopo della sua approvazione, perché ciò ne avrebbe destituito
l’intrinseca superiorità.
Il vero è che
l’ex Presidente della Repubblica e la Ministra delle Riforme così dicendo
confermano, volenti o nolenti, il diffuso giudizio che si tratta di una riforma
“sgangherata”, che non merita di essere confermata dal popolo italiano nel
referendum del prossimo ottobre.
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