"Bisogna preparare della gente che non dedichi alla rivoluzione solo le serate libere, ma tutta la sua vita (...)."
V.I. Lenin, "I compiti urgenti del nostro movimento" (Iskra n. 1, dicembre 1900).
V.I. Lenin, "I compiti urgenti del nostro movimento" (Iskra n. 1, dicembre 1900).
di Francesco Ricci
Pubblichiamo la versione in italiano di un articolo pubblicato la settimana scorsa sul sito del Pstu brasiliano e nei giorni seguenti sui siti in varie lingue della Lit-Quarta Internazionale. L'articolo è stato "condiviso" su facebook da migliaia di persone e sta suscitando molte polemiche sui social network.
Sta facendo molto discutere un articolo di Alvaro Bianchi, dal titolo "Crítica ao militantismo", pubblicato sul sito brasiliano blogjunho.com.br.
Su facebook sono decine i post di critica ma sono anche molti coloro che apprezzano l'articolo, elogiandolo e indicandolo come un punto di riferimento per quanto riguarda il tema affrontato: la questione della militanza.
Le pene della militanza... e le gioie dei post-attivisti
Nell'articolo Alvaro Bianchi inizia costruendo un obiettivo per la sua polemica: quello che chiama il "militantismo", cioè una forma caricaturale della militanza rivoluzionaria. Parla di "feticismo dell'azione, la convinzione che l'attività permanente e diretta condurrà inevitabilmente a una vittoria decisiva. Dal volantinaggio al picchetto, dal picchetto all'assemblea, dall'assemblea alla riunione, per poi ricominciare il ciclo." Parla di militanti che si emozionano solo "con le vite esemplari dedicate alla causa, con il sacrificio". Di sciocchi, ostinati e maniacali, animati da una fede cieca; di "capi che pensano e subalterni che eseguono".
La caricatura e il disprezzo che Bianchi rivela per la militanza vanno incontro a un senso comune diffuso. La degenerazione stalinista e quella della socialdemocrazia, la corruzione dilagante dei partiti riformisti inseriti negli apparati dello Stato borghese hanno gettato un forte discredito sulla militanza e sui partiti in generale. Un discredito di cui cercano di approfittarsi le formazioni populiste e reazionarie come il Movimento di Grillo in Italia, o le formazioni neoriformiste, come Podemos in Spagna, che hanno come base non la militanza ma gli elettori. Tutto il neoriformismo vanta come propria caratteristica il suo essere "anti-partito" o post-partito; elogia il superamento delle "tradizioni terzinternazionaliste", includendo in questo termine tanto il Comintern rivoluzionario di Lenin e Trotsky come la sua negazione burocratica e controrivoluzionaria.
Già più di dieci anni fa, Impero, delirante manifesto della "biopolitica postmoderna" che hanno scritto Toni Negri e Michael Hardt e a cui si ispirano (più o meno consapevolmente) tanti accademici criticava il militante "triste ascetico agente della Terza Internazionale" che "agisce per disciplina" e proponeva una nuova militanza, diversa, che "resiste nei contropoteri e si ribella proiettandosi in un progetto d'amore", ispirandosi invece che a Lenin a San Francesco perché il santo, a differenza del capo bolscevico, contrapponeva "la gioia di essere alla miseria del potere."
Nell'articolo Alvaro Bianchi inizia costruendo un obiettivo per la sua polemica: quello che chiama il "militantismo", cioè una forma caricaturale della militanza rivoluzionaria. Parla di "feticismo dell'azione, la convinzione che l'attività permanente e diretta condurrà inevitabilmente a una vittoria decisiva. Dal volantinaggio al picchetto, dal picchetto all'assemblea, dall'assemblea alla riunione, per poi ricominciare il ciclo." Parla di militanti che si emozionano solo "con le vite esemplari dedicate alla causa, con il sacrificio". Di sciocchi, ostinati e maniacali, animati da una fede cieca; di "capi che pensano e subalterni che eseguono".
La caricatura e il disprezzo che Bianchi rivela per la militanza vanno incontro a un senso comune diffuso. La degenerazione stalinista e quella della socialdemocrazia, la corruzione dilagante dei partiti riformisti inseriti negli apparati dello Stato borghese hanno gettato un forte discredito sulla militanza e sui partiti in generale. Un discredito di cui cercano di approfittarsi le formazioni populiste e reazionarie come il Movimento di Grillo in Italia, o le formazioni neoriformiste, come Podemos in Spagna, che hanno come base non la militanza ma gli elettori. Tutto il neoriformismo vanta come propria caratteristica il suo essere "anti-partito" o post-partito; elogia il superamento delle "tradizioni terzinternazionaliste", includendo in questo termine tanto il Comintern rivoluzionario di Lenin e Trotsky come la sua negazione burocratica e controrivoluzionaria.
Già più di dieci anni fa, Impero, delirante manifesto della "biopolitica postmoderna" che hanno scritto Toni Negri e Michael Hardt e a cui si ispirano (più o meno consapevolmente) tanti accademici criticava il militante "triste ascetico agente della Terza Internazionale" che "agisce per disciplina" e proponeva una nuova militanza, diversa, che "resiste nei contropoteri e si ribella proiettandosi in un progetto d'amore", ispirandosi invece che a Lenin a San Francesco perché il santo, a differenza del capo bolscevico, contrapponeva "la gioia di essere alla miseria del potere."
Il disprezzo per la militanza
Non avvenendo nel vuoto ma nel contesto politico che abbiamo sopra descritto, è chiaro quindi che la critica di Bianchi al "militantismo", nascondendosi dietro la critica a una caricatura di militanza che non esiste, è in realtà una critica indiretta a quei settori nel mondo che attuano una militanza rivoluzionaria. Come, ad esempio, la Lit e le sue sezioni, e in Brasile il Pstu.
Con il tono di uno che dice cose controcorrente, Alvaro Bianchi non fa altro che riprendere tutti i luoghi comuni oggi in voga nel neoriformismo, negli ambienti accademici che civettano con il post-modernismo, nei siti web e nei blog animati da ex militanti che cercano di espiare i loro peccati di gioventù, nei gruppi politici che in qualche modo cercano di presentarsi come un "nuovo" modo di fare politica in contrapposizione appunto al "militantismo" (espressione usata, come abbiamo visto, per riferirsi alla militanza rivoluzionaria e di partito).
Alvaro Bianchi non dice nulla di nuovo né di controverso: gli va riconosciuto però il merito di essere riuscito in un articolo breve a condensare tutti i luoghi comuni preferiti dal neoriformismo e dal centrismo, che si possono riassumere in definitiva in una frase: la militanza vecchia maniera (o "militantismo") è una cosa sciocca, pesante, fatta di volantinaggi davanti alle fabbriche, di autofinanziamento che richiede sacrifici, basata su inutili "certezze" e triste; invece, le nuove forme di attivismo "orizzontalista" possono essere intelligenti e leggere, basate sull'elogio permanente del "dubbio", sullo scetticismo, sulla "disobbedienza" e il rifiuto della disciplina e soprattutto possono garantire l'allegria.
E' comprensibile che molti militanti siano rimasti infastiditi per l'articolo di Bianchi: nessuno obbliga Bianchi o altri a fare militanza, ma non si capisce con che diritto debba offendere chi la fa e intere generazioni che hanno sacrificato tempo, energie e anche la propria vita per quello che Bianchi definisce con disprezzo "militantismo".
Non avvenendo nel vuoto ma nel contesto politico che abbiamo sopra descritto, è chiaro quindi che la critica di Bianchi al "militantismo", nascondendosi dietro la critica a una caricatura di militanza che non esiste, è in realtà una critica indiretta a quei settori nel mondo che attuano una militanza rivoluzionaria. Come, ad esempio, la Lit e le sue sezioni, e in Brasile il Pstu.
Con il tono di uno che dice cose controcorrente, Alvaro Bianchi non fa altro che riprendere tutti i luoghi comuni oggi in voga nel neoriformismo, negli ambienti accademici che civettano con il post-modernismo, nei siti web e nei blog animati da ex militanti che cercano di espiare i loro peccati di gioventù, nei gruppi politici che in qualche modo cercano di presentarsi come un "nuovo" modo di fare politica in contrapposizione appunto al "militantismo" (espressione usata, come abbiamo visto, per riferirsi alla militanza rivoluzionaria e di partito).
Alvaro Bianchi non dice nulla di nuovo né di controverso: gli va riconosciuto però il merito di essere riuscito in un articolo breve a condensare tutti i luoghi comuni preferiti dal neoriformismo e dal centrismo, che si possono riassumere in definitiva in una frase: la militanza vecchia maniera (o "militantismo") è una cosa sciocca, pesante, fatta di volantinaggi davanti alle fabbriche, di autofinanziamento che richiede sacrifici, basata su inutili "certezze" e triste; invece, le nuove forme di attivismo "orizzontalista" possono essere intelligenti e leggere, basate sull'elogio permanente del "dubbio", sullo scetticismo, sulla "disobbedienza" e il rifiuto della disciplina e soprattutto possono garantire l'allegria.
E' comprensibile che molti militanti siano rimasti infastiditi per l'articolo di Bianchi: nessuno obbliga Bianchi o altri a fare militanza, ma non si capisce con che diritto debba offendere chi la fa e intere generazioni che hanno sacrificato tempo, energie e anche la propria vita per quello che Bianchi definisce con disprezzo "militantismo".
L'ottimismo della volontà
Vale la pena di soffermarsi sulla citazione che Bianchi, gramsciano e gramsciologo, pone all'inizio del suo articolo: "il pessimismo della ragione, l'ottimismo della volontà" parafrasandola così: "Senza il controllo continuo del pessimismo dell'intelletto l'ottimismo della volontà facilmente si converte in puro militantismo."
La frase che Bianchi sta parafrasando è da molti attribuita a Gramsci, che a sua volta la attribuiva a Romain Rolland. Come è stato poi dimostrato da alcuni filologi, però, lo scrittore francese la riprendeva da Jacob Burckhardt, maestro e amico del filosofo nichilista Nietzsche. In ogni caso, chiunque sia l'autore di questo motto, Gramsci lo usava in senso differente tanto da Romain Rolland come da Bianchi. Bianchi pone l'accento sul "pessimismo" dell'intelligenza, che alimenta il suo scetticismo sulla possibilità di cambiare il mondo e quindi il suo sottile disprezzo per chi fa "militantismo" e si impegna "ciecamente" (e scioccamente) convinto che il mondo possa essere cambiato. Invece Gramsci usava la frase in senso esattamente opposto: la razionalità dimostra come sia difficile cambiare il mondo, tuttavia la storia (come ci ha insegnato Marx) non è il prodotto di "forze cieche" ma è fatta dagli uomini (anche se in circostanze che non si sono scelti) che possono, con la "praxis rivoluzionaria", cambiarla. E' interessante notare che Gramsci usa questa frase per la prima volta nel 1920 (poi la riprenderà varie volte: nei Quaderni, nelle Lettere) e in un articolo sull'Ordine Nuovo di quello stesso anno la utilizza proprio per elogiare la militanza e "gli sforzi e i sacrifici che sono domandati a chi volontariamente si è assunto un posto di militante nelle file della classe operaia."
Ci sono in Gramsci, a mio giudizio, molte deviazioni centriste che spiegano perché gli intellettuali riformisti e centristi cercano spesso in Gramsci un riferimento. Non è però il tema di questo articolo . Ma qualsiasi sia il giudizio su Gramsci, è certo che egli, che come Trotsky aveva appreso il materialismo studiando i testi di Labriola, non aveva una concezione determinista in senso stretto del materialismo: comprendeva quella dialettica tra oggetto e soggetto, tra circostanze e azione rivoluzionaria dell'uomo che può cambiare il mondo. E' quella "praxis rivoluzionaria" che secondo Marx e Lenin si esprime nell'organizzazione, nel partito della classe operaia e dunque, per riprendere le parole di Gramsci, nella militanza "nelle file della classe operaia". Gramsci (come scrive in una lettera dal carcere del dicembre 1929 al fratello Carlo) vede in questo motto un "superamento di quegli stati d'animo volgari e banali che si chiamano pessimismo e ottimismo". Per Gramsci l'impegno attivo, cioè la militanza organizzata in un partito rivoluzionario, possono cambiare il mondo, a differenza di quanto credono quegli intellettuali tradizionali, non "organici" alla classe operaia, per i quali esprimeva il suo più profondo disprezzo.
Dunque Gramsci usa la citazione ripresa da Bianchi ma lo fa per esaltare la militanza rivoluzionaria. Se dunque Bianchi vuole attaccare la militanza (fingendo di attaccare il "militantismo") dovrebbe cercare altre figure di riferimento. Con tutti i suoi limiti, con le sue deviazioni centriste, Gramsci fu per tutta la vita un militante di partito e morì nelle carceri fasciste esattamente per questo: se si fosse limitato a fare l'accademico e lo scettico, a scrivere su qualche rivista (o blog, come si direbbe oggi), Mussolini non lo avrebbe individuato come un pericoloso nemico da eliminare.
Vale la pena di soffermarsi sulla citazione che Bianchi, gramsciano e gramsciologo, pone all'inizio del suo articolo: "il pessimismo della ragione, l'ottimismo della volontà" parafrasandola così: "Senza il controllo continuo del pessimismo dell'intelletto l'ottimismo della volontà facilmente si converte in puro militantismo."
La frase che Bianchi sta parafrasando è da molti attribuita a Gramsci, che a sua volta la attribuiva a Romain Rolland. Come è stato poi dimostrato da alcuni filologi, però, lo scrittore francese la riprendeva da Jacob Burckhardt, maestro e amico del filosofo nichilista Nietzsche. In ogni caso, chiunque sia l'autore di questo motto, Gramsci lo usava in senso differente tanto da Romain Rolland come da Bianchi. Bianchi pone l'accento sul "pessimismo" dell'intelligenza, che alimenta il suo scetticismo sulla possibilità di cambiare il mondo e quindi il suo sottile disprezzo per chi fa "militantismo" e si impegna "ciecamente" (e scioccamente) convinto che il mondo possa essere cambiato. Invece Gramsci usava la frase in senso esattamente opposto: la razionalità dimostra come sia difficile cambiare il mondo, tuttavia la storia (come ci ha insegnato Marx) non è il prodotto di "forze cieche" ma è fatta dagli uomini (anche se in circostanze che non si sono scelti) che possono, con la "praxis rivoluzionaria", cambiarla. E' interessante notare che Gramsci usa questa frase per la prima volta nel 1920 (poi la riprenderà varie volte: nei Quaderni, nelle Lettere) e in un articolo sull'Ordine Nuovo di quello stesso anno la utilizza proprio per elogiare la militanza e "gli sforzi e i sacrifici che sono domandati a chi volontariamente si è assunto un posto di militante nelle file della classe operaia."
Ci sono in Gramsci, a mio giudizio, molte deviazioni centriste che spiegano perché gli intellettuali riformisti e centristi cercano spesso in Gramsci un riferimento. Non è però il tema di questo articolo . Ma qualsiasi sia il giudizio su Gramsci, è certo che egli, che come Trotsky aveva appreso il materialismo studiando i testi di Labriola, non aveva una concezione determinista in senso stretto del materialismo: comprendeva quella dialettica tra oggetto e soggetto, tra circostanze e azione rivoluzionaria dell'uomo che può cambiare il mondo. E' quella "praxis rivoluzionaria" che secondo Marx e Lenin si esprime nell'organizzazione, nel partito della classe operaia e dunque, per riprendere le parole di Gramsci, nella militanza "nelle file della classe operaia". Gramsci (come scrive in una lettera dal carcere del dicembre 1929 al fratello Carlo) vede in questo motto un "superamento di quegli stati d'animo volgari e banali che si chiamano pessimismo e ottimismo". Per Gramsci l'impegno attivo, cioè la militanza organizzata in un partito rivoluzionario, possono cambiare il mondo, a differenza di quanto credono quegli intellettuali tradizionali, non "organici" alla classe operaia, per i quali esprimeva il suo più profondo disprezzo.
Dunque Gramsci usa la citazione ripresa da Bianchi ma lo fa per esaltare la militanza rivoluzionaria. Se dunque Bianchi vuole attaccare la militanza (fingendo di attaccare il "militantismo") dovrebbe cercare altre figure di riferimento. Con tutti i suoi limiti, con le sue deviazioni centriste, Gramsci fu per tutta la vita un militante di partito e morì nelle carceri fasciste esattamente per questo: se si fosse limitato a fare l'accademico e lo scettico, a scrivere su qualche rivista (o blog, come si direbbe oggi), Mussolini non lo avrebbe individuato come un pericoloso nemico da eliminare.
Un dizionario dei luoghi comuni
Sarebbe ingiusto, però, limitarsi a liquidare l'articolo di Bianchi come una banale celebrazione dello scetticismo piccolo-borghese. E' vero: l'articolo di Bianchi trasuda scetticismo e raccoglie con metodo contro la militanza un vero e proprio catalogo dei luoghi comuni piccolo-borghesi, tanto da risultare quasi un "dizionario dei luoghi comuni" come lo avrebbe concepito (forse con più senso dell'umorismo) il romanziere francese Gustave Flaubert.
Non sappiamo cosa volesse affermare Bianchi con questo articolo: la cosa più probabile è che si tratti di uno scritto estemporaneo, anche se fatto con lo scopo di "reinventare la sinistra e riorganizzarla", visto che questo è non solo il titolo di un altro recente articolo dell'autore ma anche lo scopo del blog su cui scrivono lui, Henrique Carneiro, Ruy Braga e altri intellettuali con le stesse posizioni.
In ogni caso, questo articolo contiene implicazioni importanti, politiche, che se anche sono state introdotte da Bianchi inconsapevolmente, sono state subito colte da alcuni suoi estimatori impegnati in politica. Per indicare queste implicazioni dobbiamo però fare prima un passo indietro di cento anni.
Sarebbe ingiusto, però, limitarsi a liquidare l'articolo di Bianchi come una banale celebrazione dello scetticismo piccolo-borghese. E' vero: l'articolo di Bianchi trasuda scetticismo e raccoglie con metodo contro la militanza un vero e proprio catalogo dei luoghi comuni piccolo-borghesi, tanto da risultare quasi un "dizionario dei luoghi comuni" come lo avrebbe concepito (forse con più senso dell'umorismo) il romanziere francese Gustave Flaubert.
Non sappiamo cosa volesse affermare Bianchi con questo articolo: la cosa più probabile è che si tratti di uno scritto estemporaneo, anche se fatto con lo scopo di "reinventare la sinistra e riorganizzarla", visto che questo è non solo il titolo di un altro recente articolo dell'autore ma anche lo scopo del blog su cui scrivono lui, Henrique Carneiro, Ruy Braga e altri intellettuali con le stesse posizioni.
In ogni caso, questo articolo contiene implicazioni importanti, politiche, che se anche sono state introdotte da Bianchi inconsapevolmente, sono state subito colte da alcuni suoi estimatori impegnati in politica. Per indicare queste implicazioni dobbiamo però fare prima un passo indietro di cento anni.
Nuove teorie... di cento anni fa
Una caratteristica tipica del riformismo e del centrismo di ogni epoca è sempre stata quella di presentare periodicamente come "nuove" delle teorie che sono in realtà molto vecchie. Questo si deve al fatto che, essendo il riformismo una pratica molto antica nel movimento operaio, è difficile per i suoi teorici odierni produrre qualcosa di nuovo, che non ripeta cose già dette e fatte. Ma la pretesa di essere originali è dovuta spesso anche al fatto che questi teorici "post" (post-marxisti, post-bolscevichi, post-trotskisti, ecc.) vivono in genere nella ignoranza dei dibattiti e dell'esperienza pratica che il movimento operaio ha prodotto in quasi due secoli di vita. L'ignoranza non è una virtù per dei rivoluzionari, ricordava Marx. Ma, potremmo aggiungere noi, è di certo una virtù per riformisti e centristi: perché la teoria rivoluzionaria è un implacabile avversario della loro politica opportunista; dunque per loro è meglio coltivare l'ignoranza. Questo accade spesso anche con gli accademici: in questo caso si aggiunge anche un altro elemento: l'arroganza di chi crede di parlare dalla sua cattedra a militanti ignoranti, a operai rozzi. Per questo, quando scrivono i loro articoli e presentano le loro "nuove" teorie, questo tipo di intellettuali non si preoccupa nemmeno di approfondire, di studiare i dibattiti precedenti.
Ad esempio, nel caso che stiamo discutendo, le teorie di Bianchi contro il "militantismo" sono già state scritte e ripetute nella socialdemocrazia russa agli inizi del secolo XX. Non solo: sono state il tema dello scontro e della rottura dell'ala rivoluzionaria (Lenin e i bolscevichi) con l'ala opportunista (Martov e i menscevichi). Una buona parte del libro di Lenin intitolato Un passo avanti e due indietro (1904) è dedicato a polemizzare contro chi criticava i bolscevichi per una presunta "disciplina da caserma", per la "militanza cieca", perché i militanti sarebbero stati privati della loro libertà individuale e ridotti a "rotelle e rotelline" di un ingranaggio .
Alvaro Bianchi non inventa nulla di nuovo quando parla di militanti privati della "immaginazione creatrice", sciocchi per i quali "pensare è un'attività controrivoluzionaria", settari che desiderano "distruggere" gli oppositori, partiti che vorrebbero "sostituire l'avanguardia alle masse", eccetera. E anche quando propone, in sostituzione di tutto questo, "nuove pratiche emancipatrici" sta camminando su sentieri che già altri hanno percorso molto prima di lui.
La "nuova" Iskra, cioè l'Iskra da cui era uscito Lenin e che, dal novembre 1903 all'ottobre 1905, era diventato l'organo dei menscevichi, pubblicò una gran quantità di articoli appunto per polemizzare contro la concezione "rigida" e "militante" che Lenin e i bolscevichi sostenevano.
Come si capirà in seguito, non si trattava di un dibattito su questioni puramente "organizzative" o sullo Statuto (anche se era nato a partire dalla definizione di militante nello Statuto): era un dibattito strategico perché la definizione del partito centralizzato di militanti, basato su una "disciplina di ferro" (cioè quel modello di partito e di militanza contro cui scrive Alvaro Bianchi) implicava la relazione tra il partito e la classe. Nella concezione dei menscevichi doveva essere un partito di tutta la classe, che non distingueva attivisti e militanti (non "militantista", direbbe Bianchi). Nella concezione dei bolscevichi, invece, doveva essere un partito d'avanguardia, al contempo separato e integrato nella classe. A sua volta, la relazione tra il partito e la classe operaia definiva anche la relazione con la borghesia e il suo Stato. Per questo il vero epilogo di questo dibattito sulla "militanza" sarà nel 1917, quando i menscevichi faranno parte di un governo borghese che sarà rovesciato dalla rivoluzione d'Ottobre. Cioè il graffio dei menscevichi nel 1903 introdotto col dibattito sulla "militanza" si trasformerà nella cancrena del 1917.
Se Alvaro Bianchi - e i suoi estimatori - avranno il tempo e la pazienza di approfondire lo studio, scopriranno che tutti gli argomenti contro il "militantismo" sono già stati espressi più di cento anni fa. Con l'unica differenza che forse il livello della polemica era un po' più elevato: anche perché a condurla si impegnarono teste come quella di Akselrod e di Plechanov, che seppero offrire all'opportunismo articoli, spero di non essere offensivo, più brillanti di quello di Alvaro Bianchi .
Una caratteristica tipica del riformismo e del centrismo di ogni epoca è sempre stata quella di presentare periodicamente come "nuove" delle teorie che sono in realtà molto vecchie. Questo si deve al fatto che, essendo il riformismo una pratica molto antica nel movimento operaio, è difficile per i suoi teorici odierni produrre qualcosa di nuovo, che non ripeta cose già dette e fatte. Ma la pretesa di essere originali è dovuta spesso anche al fatto che questi teorici "post" (post-marxisti, post-bolscevichi, post-trotskisti, ecc.) vivono in genere nella ignoranza dei dibattiti e dell'esperienza pratica che il movimento operaio ha prodotto in quasi due secoli di vita. L'ignoranza non è una virtù per dei rivoluzionari, ricordava Marx. Ma, potremmo aggiungere noi, è di certo una virtù per riformisti e centristi: perché la teoria rivoluzionaria è un implacabile avversario della loro politica opportunista; dunque per loro è meglio coltivare l'ignoranza. Questo accade spesso anche con gli accademici: in questo caso si aggiunge anche un altro elemento: l'arroganza di chi crede di parlare dalla sua cattedra a militanti ignoranti, a operai rozzi. Per questo, quando scrivono i loro articoli e presentano le loro "nuove" teorie, questo tipo di intellettuali non si preoccupa nemmeno di approfondire, di studiare i dibattiti precedenti.
Ad esempio, nel caso che stiamo discutendo, le teorie di Bianchi contro il "militantismo" sono già state scritte e ripetute nella socialdemocrazia russa agli inizi del secolo XX. Non solo: sono state il tema dello scontro e della rottura dell'ala rivoluzionaria (Lenin e i bolscevichi) con l'ala opportunista (Martov e i menscevichi). Una buona parte del libro di Lenin intitolato Un passo avanti e due indietro (1904) è dedicato a polemizzare contro chi criticava i bolscevichi per una presunta "disciplina da caserma", per la "militanza cieca", perché i militanti sarebbero stati privati della loro libertà individuale e ridotti a "rotelle e rotelline" di un ingranaggio .
Alvaro Bianchi non inventa nulla di nuovo quando parla di militanti privati della "immaginazione creatrice", sciocchi per i quali "pensare è un'attività controrivoluzionaria", settari che desiderano "distruggere" gli oppositori, partiti che vorrebbero "sostituire l'avanguardia alle masse", eccetera. E anche quando propone, in sostituzione di tutto questo, "nuove pratiche emancipatrici" sta camminando su sentieri che già altri hanno percorso molto prima di lui.
La "nuova" Iskra, cioè l'Iskra da cui era uscito Lenin e che, dal novembre 1903 all'ottobre 1905, era diventato l'organo dei menscevichi, pubblicò una gran quantità di articoli appunto per polemizzare contro la concezione "rigida" e "militante" che Lenin e i bolscevichi sostenevano.
Come si capirà in seguito, non si trattava di un dibattito su questioni puramente "organizzative" o sullo Statuto (anche se era nato a partire dalla definizione di militante nello Statuto): era un dibattito strategico perché la definizione del partito centralizzato di militanti, basato su una "disciplina di ferro" (cioè quel modello di partito e di militanza contro cui scrive Alvaro Bianchi) implicava la relazione tra il partito e la classe. Nella concezione dei menscevichi doveva essere un partito di tutta la classe, che non distingueva attivisti e militanti (non "militantista", direbbe Bianchi). Nella concezione dei bolscevichi, invece, doveva essere un partito d'avanguardia, al contempo separato e integrato nella classe. A sua volta, la relazione tra il partito e la classe operaia definiva anche la relazione con la borghesia e il suo Stato. Per questo il vero epilogo di questo dibattito sulla "militanza" sarà nel 1917, quando i menscevichi faranno parte di un governo borghese che sarà rovesciato dalla rivoluzione d'Ottobre. Cioè il graffio dei menscevichi nel 1903 introdotto col dibattito sulla "militanza" si trasformerà nella cancrena del 1917.
Se Alvaro Bianchi - e i suoi estimatori - avranno il tempo e la pazienza di approfondire lo studio, scopriranno che tutti gli argomenti contro il "militantismo" sono già stati espressi più di cento anni fa. Con l'unica differenza che forse il livello della polemica era un po' più elevato: anche perché a condurla si impegnarono teste come quella di Akselrod e di Plechanov, che seppero offrire all'opportunismo articoli, spero di non essere offensivo, più brillanti di quello di Alvaro Bianchi .
I filosofi hanno finora interpretato il mondo...
Come si capisce, la vera posta in gioco quando si discute della militanza è lo scopo per cui si costruisce (o ci si rifiuta di costruire) un autentico partito rivoluzionario: è la questione del potere della classe operaia e di quella rivoluzione che è necessaria per arrivare al potere e che è impossibile fare senza un partito di militanti, o con un surrogato di un partito di tipo bolscevico. Non stiamo cioè discutendo di interpretazioni del mondo: se si trattasse solo di questo, come già segnalava il Marx delle Tesi suFeuerbach, sarebbero sufficienti i filosofi. Ma si tratta di cambiare il mondo con una rivoluzione operaia e socialista: e questa è una questione che possono affrontare con serietà solo i militanti rivoluzionari, i tribuni del popolo, gli operai con le loro mani callose. Agli accademici, agli scettici e a coloro che disprezzano la militanza disciplinata in un partito centralizzato, lasciamo volentieri la loro accademia, i loro blog, i loro luoghi comuni piccolo-borghesi e - se questo può dare loro allegria così come ci assicura il post-moderno Toni Negri - anche gli uccellini di San Francesco.
Come si capisce, la vera posta in gioco quando si discute della militanza è lo scopo per cui si costruisce (o ci si rifiuta di costruire) un autentico partito rivoluzionario: è la questione del potere della classe operaia e di quella rivoluzione che è necessaria per arrivare al potere e che è impossibile fare senza un partito di militanti, o con un surrogato di un partito di tipo bolscevico. Non stiamo cioè discutendo di interpretazioni del mondo: se si trattasse solo di questo, come già segnalava il Marx delle Tesi suFeuerbach, sarebbero sufficienti i filosofi. Ma si tratta di cambiare il mondo con una rivoluzione operaia e socialista: e questa è una questione che possono affrontare con serietà solo i militanti rivoluzionari, i tribuni del popolo, gli operai con le loro mani callose. Agli accademici, agli scettici e a coloro che disprezzano la militanza disciplinata in un partito centralizzato, lasciamo volentieri la loro accademia, i loro blog, i loro luoghi comuni piccolo-borghesi e - se questo può dare loro allegria così come ci assicura il post-moderno Toni Negri - anche gli uccellini di San Francesco.
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