Non poteva mancare la voce grossa del padrone che
getta il suo pesante pullover blu sulla bilancia del referendum. «Marchionne è
per il sì, personalmente» dice, parlando di sé, il manager di Detroit. Le
truppe schierate per il governo sono molteplici, e impressionano per la loro
potenza di fuoco: influenti giornali economici internazionali, grandi
banchieri, spericolati finanzieri, Confindustria, cooperative arcobaleno. I
poteri forti sono tutti in riga al presentat arm, altro che rottamazione
strappata da un manipolo di ragazzi incontaminati.
Per garantire il controllo totale dell’informazione,
già da un pezzo omologata alla narrazione del governo, è stata rimossa
Berlinguer dalla tv pubblica e persino il battitore libero Belpietro è stato
detronizzato dalla carta stampata privata. Oltre alle parabole immateriali
dell’immaginario che si sintonizzano sulle frequenze dei media amici, il
governo si avvale anche delle truppe di terra. La Coldiretti è stata arruolata
per aggiungere un tocco di Vandea bianca, proprio della vecchia bonomiana, in
una competizione che altrimenti avrebbe consegnato la difesa del governo
soltanto ai signori della finanza e alle sentinelle del rigore. Quando il conflitto si fa aspro, i poteri forti entrano in scena, senza
troppi infingimenti. E le antiche cariche istituzionali, che negli ultimi anni si sono mosse in maniera
creativa, fuori le righe dello stanco diritto formale, sono richiamate in
servizio effettivo e offrono munizioni di guerra per l’ultimo sacrificio alla
nobil causa: non turbare la sovranità dei mercati legibus solutus. Chi vota no
è dipinto come un pericoloso destabilizzatore, che lascia precipitare il bel
paese nel caos più cupo. Si fa sempre più trasparente così il
quadro della contesa, la fisionomia dei suoi protagonisti principali, la
portata effettiva dello scontro. Il teatro di guerra, che
ospita il fronte d’autunno, è sin troppo nitido: tutti i santi poteri del
denaro sono intenti a scagliarsi contro il popolo irrazionale che rischia, con
il suo ostinato no, di travolgere la sacra stabilità. Il merito delle riforme
non conta nulla. La guerra è dichiarata per proteggere i simboli minacciati. E
tutti i rappresentanti di accanite agenzie mondiali del denaro accorrono a
difesa del simbolo diventato per loro più sacro di tutti: il potere in ultima
istanza di sua maestà il mercato.
La portata della battaglia è, dal loro punto di vista,
palese nella sua drammaticità: il pericoloso risveglio di una sovranità dei
cittadini contro la bella dittatura del denaro che neanche la grande
contrazione economica è riuscita a scalfire imputandole i suoi disastri. Nel
tramonto dei ceti politici europei, ridotti a maschere che giocano battaglie
surreali (il costume da bagno sulle spiagge) e non osano ribellarsi agli ordini
impartiti dal capitale per la potatura dei diritti di cittadinanza, il
referendum è una delle ultime eccentricità, una dismisura, un intoppo che
allarma non poco. La volontà di sorveglianza e di
normalizzazione sprigionata da un ceto economico dominante che ha ottenuto a
tempo record la disintermediazione (che
miopia politica, e che sordità sociale, quella del sindacato che non si schiera
in una contesa cruciale, di cittadinanza ma anche di classe!), il jobs act, le
decontribuzioni, lo sblocca Italia, la buona scuola, oggi fa da guardiano al
governo, perché il padronato sente che quello col marchio gigliato è davvero il
suo governo. La velocità non è in politica una
grandezza indifferente e il tempo non è una misura neutra. Per tamponare i
guasti che hanno rovinato la vita degli esodati, ancora si devono prendere le misure finanziarie necessarie e chiudere così,
in percorsi dalla biblica durata, la vergogna di aver lasciato lavoratori privi
di ogni reddito. Per varare una legge sulla tortura occorrono tempi illimitati,
come per riaprire i contratti pubblici e privati. Per chi non ha tutele, o è
privo di rappresentanza, o vive ai margini, guadagnare tempo, rispetto
all’arbitrio del potere, non è un male. La velocità è un vero incubo se a
dettare l’agenda della legislazione è il governo-azienda che impone le sue metafore
in tutto ciò che è pubblico (scuola, dirigenti, sanità) e trasferisce le misure
della sovranità in tutto ciò che è privato (comando assoluto nell’impresa,
abolizione del diritto del lavoro).
Qualcuno, per incutere timore agli elettori, dice che
il referendum di novembre è ancora più importante di quello inglese per le sue
implicazioni su scala continentale. Può essere, ma non perché il voto a
sostegno della Carta evochi un salto nel buio. I cittadini, rigettando la
negazione del principio della sovranità popolare nella designazione di un
organo di rappresentanza, hanno la possibilità di rimediare al fallimento dei
ceti politici europei che hanno strappato ogni apertura sociale e quindi
lanciano il populismo delle destre come risorsa plausibile per i marginali, i
perdenti, gli esclusi. A destabilizzare l’Europa sono i poteri
forti e i ceti politici deboli che, con il loro ottuso credo mercatista
recitato anche su una portaerei a Ventotene, rendono lo Stato una residuale
zona piegata all’interesse privato.
Il no è una risposta democratica alla sciagura delle élite politiche europee
che non organizzano il conflitto sociale della spenta postmodernità e rischiano
di essere spazzate tutte via dal disagio che trova rifugio nei miti
irrazionali. Più i signori della finanza alzano la voce, per orientare il voto
di novembre a favore del loro governo dei sogni, e più cresce la rilevanza
liberatoria del no, come riscoperta con movimenti dal basso dell’autonomia
della politica dal denaro, dal nichilismo del capitale vestito di blu.
Michele Prospero (dal Manifesto del 30/08/2016)
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