Matteo Bavassano
Mentre ormai tutto il resto d’Europa è scossa dalle lotte dei lavoratori e da crisi politiche (con l’eccezione, ad oggi, solo della Germania e quella, parziale, del Regno unito), in Italia vi è una calma piatta sul fronte delle lotte, aggravata nell’ultimo periodo dalle ulteriori divisioni del sindacalismo cosiddetto «di base», e tutta la discussione politica nel Paese da anni si risolve nelle dispute inter-borghesi su come meglio uscire definitivamente dalla recessione economica. Tutto il dibattito verte su come far pagare meglio ai lavoratori e ai settori più sfruttati delle masse popolari l’uscita dalla crisi: la cosa è talmente manifesta che praticamente non vengono espresse nemmeno posizioni socialdemocratiche in questo dibattito.
I nodi vengono al pettine: le contraddizioni storiche del sistema economico e politico italiano
La riforma costituzionale che verrà sottoposta all’approvazione del referendum è legata alle contraddizioni del sistema politico ed economico italiano così come si è configurato dal secondo dopoguerra, contraddizioni che si sono sommate via via negli anni e che, precedentemente, non erano state risolte a causa delle lotte operaie e dell’instabilità del sistema politico e partitico italiano: dalla fine della Seconda guerra mondiale il regime borghese italiano non era mai stato in pericolo grazie all’aiuto attivo della socialdemocrazia (specialmente del Pci), ma la borghesia non era mai stata in grado di imporre una riforma nel senso di una democrazia borghese più snella e di uno Stato più forte e decisionista, sul modello della V repubblica francese con il suo regime gollista. Piani in questo senso erano stati preparati da settori minoritari della borghesia e da frange degli apparati (spesso indicati come «deviati»), ma il settore maggioritario della borghesia italiana ha puntato abbastanza stabilmente sulla soluzione frontista, ossia sull’appoggio del Pci, fosse questo diretto, indiretto o nascosto dalla demagogia anticapitalista con cui i leader socialdemocratici nascondevano il loro opportunismo riformista.
All’inizio degli anni ’90, durante la crisi politica seguita all’uscita dallo Sme e allo scandalo di Tangentopoli, la borghesia cambiò la legge elettorale nel quadro di un cambio di orientamento politico-partitico, senza tuttavia cambiare sensibilmente l’assetto istituzionale dello Stato borghese: in questi anni infatti la grande borghesia, che verso la fine degli anni ’80 aveva sempre più intensificato i legami con la vecchia burocrazia di partito del Pci, spesso per tramite delle amministrazioni locali e regionali gestite daicomunisti (significativo che il responsabile delle organizzazioni locali del Pci fosse Cossutta, considerato irriducibile «filosovietico»), si orientò per un governo a guida Pds (come si era rinominato il vecchio Pci). Uno degli obiettivi che la borghesia si poneva in quel frangente era limitare i costi del sistema partitico italiano: questi costi erano dovuti alla necessità di mantenere la stabilità del regime borghese di uno Stato imperialista in cui permanevano grossi problemi di sviluppo economico, soprattutto nelle regioni del meridione, servivano cioè ad allargare la base di sostegno del regime borghese italiano. Le cose però non andarono esattamente come previsto dalla grande borghesia finanziaria a causa della «discesa in campo» di Berlusconi, su cui un settore della grande distribuzione, sfruttando l’impero mediatico Fininvest e facendo leva su settori di media e piccola borghesia, puntò per contrastare il campo dei «progressisti». Da allora continuò l’alternanza centrodestra-centrosinistra fino allo scoppio della crisi economica del 2007-08, quando fu chiaro che, per uscire dalla crisi, serviva un assetto istituzionale che garantisse una maggiore governabilità e stabilità politica, ma negli anni i costi della partitocrazia e della corruzione non solo non si sono attenuati, bensì sono lievitati.
La riforma costituzionale che verrà sottoposta all’approvazione del referendum è legata alle contraddizioni del sistema politico ed economico italiano così come si è configurato dal secondo dopoguerra, contraddizioni che si sono sommate via via negli anni e che, precedentemente, non erano state risolte a causa delle lotte operaie e dell’instabilità del sistema politico e partitico italiano: dalla fine della Seconda guerra mondiale il regime borghese italiano non era mai stato in pericolo grazie all’aiuto attivo della socialdemocrazia (specialmente del Pci), ma la borghesia non era mai stata in grado di imporre una riforma nel senso di una democrazia borghese più snella e di uno Stato più forte e decisionista, sul modello della V repubblica francese con il suo regime gollista. Piani in questo senso erano stati preparati da settori minoritari della borghesia e da frange degli apparati (spesso indicati come «deviati»), ma il settore maggioritario della borghesia italiana ha puntato abbastanza stabilmente sulla soluzione frontista, ossia sull’appoggio del Pci, fosse questo diretto, indiretto o nascosto dalla demagogia anticapitalista con cui i leader socialdemocratici nascondevano il loro opportunismo riformista.
All’inizio degli anni ’90, durante la crisi politica seguita all’uscita dallo Sme e allo scandalo di Tangentopoli, la borghesia cambiò la legge elettorale nel quadro di un cambio di orientamento politico-partitico, senza tuttavia cambiare sensibilmente l’assetto istituzionale dello Stato borghese: in questi anni infatti la grande borghesia, che verso la fine degli anni ’80 aveva sempre più intensificato i legami con la vecchia burocrazia di partito del Pci, spesso per tramite delle amministrazioni locali e regionali gestite daicomunisti (significativo che il responsabile delle organizzazioni locali del Pci fosse Cossutta, considerato irriducibile «filosovietico»), si orientò per un governo a guida Pds (come si era rinominato il vecchio Pci). Uno degli obiettivi che la borghesia si poneva in quel frangente era limitare i costi del sistema partitico italiano: questi costi erano dovuti alla necessità di mantenere la stabilità del regime borghese di uno Stato imperialista in cui permanevano grossi problemi di sviluppo economico, soprattutto nelle regioni del meridione, servivano cioè ad allargare la base di sostegno del regime borghese italiano. Le cose però non andarono esattamente come previsto dalla grande borghesia finanziaria a causa della «discesa in campo» di Berlusconi, su cui un settore della grande distribuzione, sfruttando l’impero mediatico Fininvest e facendo leva su settori di media e piccola borghesia, puntò per contrastare il campo dei «progressisti». Da allora continuò l’alternanza centrodestra-centrosinistra fino allo scoppio della crisi economica del 2007-08, quando fu chiaro che, per uscire dalla crisi, serviva un assetto istituzionale che garantisse una maggiore governabilità e stabilità politica, ma negli anni i costi della partitocrazia e della corruzione non solo non si sono attenuati, bensì sono lievitati.
Dalla crisi economica al referendum costituzionale: gli attacchi della borghesia ai lavoratori
Negli anni in cui è esplosa la crisi economica in Italia, il governo Berlusconi, nonostante l’ampia maggioranza parlamentare di cui disponeva, non era in grado di trovare una soluzione adeguata ai problemi posti dalla crisi e dalla recessione economica: il debito continuava a salire e il pil a decrescere, anche se, grazie alla struttura produttiva più solida di quella di Paesi come Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo, la crisi non ha avuto una dimensione così esplosiva come accaduto in quei Paesi. Tuttavia, l’inefficacia del governo di centrodestra a trovare una soluzione, e probabilmente la minaccia di opposizione sociale ad eventuali misure anti-operaie, le uniche che avrebbero potuto garantire una ripresa dei margini di profitto della grande borghesia finanziaria, spinsero la borghesia, tramite Napolitano, a destituire il governo Berlusconi e a creare un governo tecnico, quello di Monti, che, visto come governo di emergenza e con l’appoggio del Pd, incontrò meno resistenza nei suoi primi attacchi contro i lavoratori; in particolar modo, ricordiamo la riforma Fornero delle pensioni. Le successive elezioni politiche non diedero una chiara maggioranza e ne uscì un governo di unità nazionale, il governo Letta, a guida Pd, che però, reggendosi su sottili equilibri parlamentari, non era abbastanza forte per applicare delle serie misure anti-operaie. In questo quadro, all’interno del Pd, cominciò a prendere sempre più piede la leadership di Renzi non solo come guida di un partito, se possibile, ancora più legato che in precedenza alla grande borghesia, ma anche come guida di un nuovo governo di unità nazionale; un governo, a differenza di quello di Letta, fortemente caratterizzato dalla figura del premier come perno di stabilità dell'esecutivo e come uomo delle decisioni forti.
All’inizio, il governo Renzi non era molto più stabile del governo Letta: era l’ennesimo governo «non eletto» che, peraltro, non godeva nemmeno dell’appoggio unanime della base del Pd, in quanto molti non vedevano di buon occhio l’«infedeltà» dell’ex-sindaco di Firenze al vecchio governo. Per dirla in breve, nella fase iniziale di attività del governo Renzi l’incipiente crisi di regime che si affacciava sullo scenario politico in Italia non accennava a diminuire, ma anzi sembrava aumentare. Tuttavia, misure come la Buona scuola e il Jobs act, passate senza alcun tipo di opposizione sociale né sindacale significativa (con la Cgil che faceva una finta opposizione a voce senza praticamente proclamare scioperi, e con il sindacalismo «di base» troppo diviso per organizzare una vera opposizione), hanno permesso a Renzi, con relativa rapidità, di ricompattare la maggior parte della borghesia italiana nel sostegno al suo progetto politico presidenzialista, ponendo così un freno all’incipiente crisi di regime che minacciava l’Italia: nonostante il M5s continui a mantenere un alto sostegno elettorale ed abbia conquistato amministrazioni importanti come quelle di Roma e Torino, ad oggi Renzi è il perno sul quale poggiano i progetti della borghesia per uscire dalla crisi scaricando tutti i costi sui lavoratori e gli sfruttati. Fermo restando che anche i 5 stelle non farebbero che applicare le stesse politiche anti-operaie, sia pur magari con modalità differenti.
Negli anni in cui è esplosa la crisi economica in Italia, il governo Berlusconi, nonostante l’ampia maggioranza parlamentare di cui disponeva, non era in grado di trovare una soluzione adeguata ai problemi posti dalla crisi e dalla recessione economica: il debito continuava a salire e il pil a decrescere, anche se, grazie alla struttura produttiva più solida di quella di Paesi come Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo, la crisi non ha avuto una dimensione così esplosiva come accaduto in quei Paesi. Tuttavia, l’inefficacia del governo di centrodestra a trovare una soluzione, e probabilmente la minaccia di opposizione sociale ad eventuali misure anti-operaie, le uniche che avrebbero potuto garantire una ripresa dei margini di profitto della grande borghesia finanziaria, spinsero la borghesia, tramite Napolitano, a destituire il governo Berlusconi e a creare un governo tecnico, quello di Monti, che, visto come governo di emergenza e con l’appoggio del Pd, incontrò meno resistenza nei suoi primi attacchi contro i lavoratori; in particolar modo, ricordiamo la riforma Fornero delle pensioni. Le successive elezioni politiche non diedero una chiara maggioranza e ne uscì un governo di unità nazionale, il governo Letta, a guida Pd, che però, reggendosi su sottili equilibri parlamentari, non era abbastanza forte per applicare delle serie misure anti-operaie. In questo quadro, all’interno del Pd, cominciò a prendere sempre più piede la leadership di Renzi non solo come guida di un partito, se possibile, ancora più legato che in precedenza alla grande borghesia, ma anche come guida di un nuovo governo di unità nazionale; un governo, a differenza di quello di Letta, fortemente caratterizzato dalla figura del premier come perno di stabilità dell'esecutivo e come uomo delle decisioni forti.
All’inizio, il governo Renzi non era molto più stabile del governo Letta: era l’ennesimo governo «non eletto» che, peraltro, non godeva nemmeno dell’appoggio unanime della base del Pd, in quanto molti non vedevano di buon occhio l’«infedeltà» dell’ex-sindaco di Firenze al vecchio governo. Per dirla in breve, nella fase iniziale di attività del governo Renzi l’incipiente crisi di regime che si affacciava sullo scenario politico in Italia non accennava a diminuire, ma anzi sembrava aumentare. Tuttavia, misure come la Buona scuola e il Jobs act, passate senza alcun tipo di opposizione sociale né sindacale significativa (con la Cgil che faceva una finta opposizione a voce senza praticamente proclamare scioperi, e con il sindacalismo «di base» troppo diviso per organizzare una vera opposizione), hanno permesso a Renzi, con relativa rapidità, di ricompattare la maggior parte della borghesia italiana nel sostegno al suo progetto politico presidenzialista, ponendo così un freno all’incipiente crisi di regime che minacciava l’Italia: nonostante il M5s continui a mantenere un alto sostegno elettorale ed abbia conquistato amministrazioni importanti come quelle di Roma e Torino, ad oggi Renzi è il perno sul quale poggiano i progetti della borghesia per uscire dalla crisi scaricando tutti i costi sui lavoratori e gli sfruttati. Fermo restando che anche i 5 stelle non farebbero che applicare le stesse politiche anti-operaie, sia pur magari con modalità differenti.
Gli interessi dei lavoratori e la lotta contro austerità, borghesia e governo
L’interesse principale dei lavoratori e delle masse popolari sfruttate è quello di mantenere la loro indipendenza dai progetti politici della borghesia. Non vi è una differenza di classe tra i progetti dei partiti borghesi favorevoli alla riforma costituzionale e quelli delle forze della borghesia orientate per il no: entrambi mirano a far pagare al proletariato e agli sfruttati i costi dell’uscita dalla crisi, i costi per permettere alla borghesia di recuperare il suo margine di profitto, e quindi i lavoratori non devono appoggiare organicamente nessuno dei due progetti borghesi contrapposti. Ma è innegabile che la vittoria del Sì al referendum sarebbe una vittoria importante per Renzi e il suo governo, nonché per la stabilità del regime politico italiano in generale, mentre l’interesse dei rivoluzionari e del proletariato è che il regime borghese vacilli e cada, per essere sostituito da uno Stato nuovo basato sui consigli operai, sulla democrazia sovietica. Nonostante questa sostituzione in Italia oggi non sia certo all’ordine del giorno, non vi è alcuna ragione per cui i lavoratori, con la loro inazione, dovrebbero permettere alla borghesia di cambiare un assetto istituzionale che vuole eliminare da circa 40 anni, cambiamento che rafforzerebbe sicuramente il regime politico borghese, mettendo la classe dominante in condizione migliore per colpire i lavoratori, oltre a portare a una restrizione degli spazi democratici di cui godono oggi i lavoratori e le loro organizzazioni. Non bisogna poi tralasciare il fatto che moltissimi lavoratori, e tra loro anche diverse avanguardie di lotta, vedono il governo Renzi come il loro principale nemico, e vedono nel referendum uno strumento di lotta efficace contro il governo e i padroni, nonostante questa sia un'illusione pericolosa, alimentata dalla borghesia per depotenziare le lotte dei lavoratori.
In questo quadro, il compito dei comunisti è quello di sfruttare le energie che i lavoratori metteranno nella loro opposizione alla riforma costituzionale, sostenendoli nella loro mobilitazione per la vittoria del No, ma spiegando loro pazientemente perché devono diffidare delle forze borghesi e riformiste che dirigono i comitati per il No al referendum. La prima illusione che dobbiamo combattere è quella per cui la vittoria del No sarebbe un’importante vittoria contro Renzi: sarebbe tuttalpiù una vittoria parziale, secondaria, che comunque non avrebbe significato senza un’adeguata lotta dei lavoratori, senza che i lavoratori si organizzino dal basso per lanciare uno sciopero generale fino alla caduta del governo e al ritiro di tutte le misure anti-operaie degli ultimi anni, dalla legge Fornero alla Buona scuola al Jobs act. Bisogna da subito lanciare in tutte le assemblee contro la riforma la parola d’ordine dello sciopero generale con questi obiettivi, e spiegare ai lavoratori che questo è indispensabile perché, quand’anche il No dovesse vincere e il governo Renzi cadere, il nuovo governo, sia esso di unità nazionale o a guida M5s, continuerà ad applicare le stesse misure anti-operaie, anche se sarà politicamente più debole e precario.
I partiti borghesi e riformisti, che ad oggi egemonizzano la mobilitazione per il No, non permetterebbero mai a una tale prospettiva di prendere piede tra i lavoratori: ecco perché i marxisti rivoluzionari devono smascherarli impietosamente e implacabilmente come traditori della lotta contro Renzi, che si rifiutano di portare fino alle sue logiche conseguenze. Parallelamente, bisogna spiegare ai lavoratori che una consultazione referendaria non è uno strumento di lotta proprio dei lavoratori, ma della borghesia, uno strumento su cui non si può fare affidamento e il cui risultato è profondamente distorto, non solo dalla propaganda della borghesia con le sue possibilità economiche, ma anche dal fatto che la forza lavoro immigrata, molto rilevante nel nostro Paese, non potrà partecipare al referendum, ma potrà invece farsi sfruttare dai padroni e reprimere dal governo. In terzo luogo, i rivoluzionari devono mettere in chiaro che non difendono assolutamente la Costituzione borghese, che sancisce l’inviolabilità della proprietà privata, cioè la legittimità dello sfruttamento dei lavoratori: dobbiamo far cadere questo tabù, spiegare ai lavoratori che l’attuale Costituzione è un inganno con cui la borghesia si è ripresa il potere dopo l’insurrezione che cacciò i nazifascisti dall’Italia.
I comunisti rivoluzionari devono fare ampia propaganda in ogni assemblea delle seguenti parole d’ordine: 1- votare No al referendum come forma di lotta ausiliaria contro il governo Renzi; 2- organizzare fin da ora, partendo dai lavoratori impegnati nei comitati per il No, dei comitati per convocare dal basso uno sciopero generale prolungato fino alla caduta del governo e al ritiro di tutte le misure anti-operaie. Solo con una lotta dura e condotta con i metodi propri dei lavoratori possiamo tentare di tramutare un fatto politico contingente in una vittoria che apra la strada ad una riscossa dei lavoratori anche in Italia.
L’interesse principale dei lavoratori e delle masse popolari sfruttate è quello di mantenere la loro indipendenza dai progetti politici della borghesia. Non vi è una differenza di classe tra i progetti dei partiti borghesi favorevoli alla riforma costituzionale e quelli delle forze della borghesia orientate per il no: entrambi mirano a far pagare al proletariato e agli sfruttati i costi dell’uscita dalla crisi, i costi per permettere alla borghesia di recuperare il suo margine di profitto, e quindi i lavoratori non devono appoggiare organicamente nessuno dei due progetti borghesi contrapposti. Ma è innegabile che la vittoria del Sì al referendum sarebbe una vittoria importante per Renzi e il suo governo, nonché per la stabilità del regime politico italiano in generale, mentre l’interesse dei rivoluzionari e del proletariato è che il regime borghese vacilli e cada, per essere sostituito da uno Stato nuovo basato sui consigli operai, sulla democrazia sovietica. Nonostante questa sostituzione in Italia oggi non sia certo all’ordine del giorno, non vi è alcuna ragione per cui i lavoratori, con la loro inazione, dovrebbero permettere alla borghesia di cambiare un assetto istituzionale che vuole eliminare da circa 40 anni, cambiamento che rafforzerebbe sicuramente il regime politico borghese, mettendo la classe dominante in condizione migliore per colpire i lavoratori, oltre a portare a una restrizione degli spazi democratici di cui godono oggi i lavoratori e le loro organizzazioni. Non bisogna poi tralasciare il fatto che moltissimi lavoratori, e tra loro anche diverse avanguardie di lotta, vedono il governo Renzi come il loro principale nemico, e vedono nel referendum uno strumento di lotta efficace contro il governo e i padroni, nonostante questa sia un'illusione pericolosa, alimentata dalla borghesia per depotenziare le lotte dei lavoratori.
In questo quadro, il compito dei comunisti è quello di sfruttare le energie che i lavoratori metteranno nella loro opposizione alla riforma costituzionale, sostenendoli nella loro mobilitazione per la vittoria del No, ma spiegando loro pazientemente perché devono diffidare delle forze borghesi e riformiste che dirigono i comitati per il No al referendum. La prima illusione che dobbiamo combattere è quella per cui la vittoria del No sarebbe un’importante vittoria contro Renzi: sarebbe tuttalpiù una vittoria parziale, secondaria, che comunque non avrebbe significato senza un’adeguata lotta dei lavoratori, senza che i lavoratori si organizzino dal basso per lanciare uno sciopero generale fino alla caduta del governo e al ritiro di tutte le misure anti-operaie degli ultimi anni, dalla legge Fornero alla Buona scuola al Jobs act. Bisogna da subito lanciare in tutte le assemblee contro la riforma la parola d’ordine dello sciopero generale con questi obiettivi, e spiegare ai lavoratori che questo è indispensabile perché, quand’anche il No dovesse vincere e il governo Renzi cadere, il nuovo governo, sia esso di unità nazionale o a guida M5s, continuerà ad applicare le stesse misure anti-operaie, anche se sarà politicamente più debole e precario.
I partiti borghesi e riformisti, che ad oggi egemonizzano la mobilitazione per il No, non permetterebbero mai a una tale prospettiva di prendere piede tra i lavoratori: ecco perché i marxisti rivoluzionari devono smascherarli impietosamente e implacabilmente come traditori della lotta contro Renzi, che si rifiutano di portare fino alle sue logiche conseguenze. Parallelamente, bisogna spiegare ai lavoratori che una consultazione referendaria non è uno strumento di lotta proprio dei lavoratori, ma della borghesia, uno strumento su cui non si può fare affidamento e il cui risultato è profondamente distorto, non solo dalla propaganda della borghesia con le sue possibilità economiche, ma anche dal fatto che la forza lavoro immigrata, molto rilevante nel nostro Paese, non potrà partecipare al referendum, ma potrà invece farsi sfruttare dai padroni e reprimere dal governo. In terzo luogo, i rivoluzionari devono mettere in chiaro che non difendono assolutamente la Costituzione borghese, che sancisce l’inviolabilità della proprietà privata, cioè la legittimità dello sfruttamento dei lavoratori: dobbiamo far cadere questo tabù, spiegare ai lavoratori che l’attuale Costituzione è un inganno con cui la borghesia si è ripresa il potere dopo l’insurrezione che cacciò i nazifascisti dall’Italia.
I comunisti rivoluzionari devono fare ampia propaganda in ogni assemblea delle seguenti parole d’ordine: 1- votare No al referendum come forma di lotta ausiliaria contro il governo Renzi; 2- organizzare fin da ora, partendo dai lavoratori impegnati nei comitati per il No, dei comitati per convocare dal basso uno sciopero generale prolungato fino alla caduta del governo e al ritiro di tutte le misure anti-operaie. Solo con una lotta dura e condotta con i metodi propri dei lavoratori possiamo tentare di tramutare un fatto politico contingente in una vittoria che apra la strada ad una riscossa dei lavoratori anche in Italia.
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