Pubblichiamo qui di seguito la riflessione scritta da Carlo Formenti, docente di scienze della comunicazione all’Università di Lecce. Il docente, relatore al dibattito “Social media battleground” durante la quattro giorni universitaria organizzata al campeggio di lotta di Chiomonte, regala ai suoi lettori una prima impressione del suo soggiorno valsusino…a presto professore!
Butto giù questa breve nota sull’onda delle emozioni che mi hanno suscitato i due giorni che ho avuto modo di trascorrere al campeggio No Tav di Chiomonte. Voglio ringraziare prima di tutto i ragazzi che mi hanno invitato a parlare su lotte, democrazia e rete in uno dei loro workshop.
Era la prima volta che andavo in Val Susa e si è trattato di un’esperienza straordinaria. Credo che tutti coloro che, pur e considerandosi di sinistra, nutrissero il minimo dubbio sulla giustezza e sull’importanza politica della battaglia che da quasi vent’anni si combatte lassù o, peggio, fossero tentati di prendere per buone le motivazioni con cui i media e la maggioranza dei partiti appioppano ai No Tav l’etichetta di estremisti (se non di terroristi), nonché di nemici del progresso economico e della democrazia, dovrebbero andare di persona a vedere che cosa succede da quelle parti e, soprattutto, dovrebbero andare a parlare con i valsusini, oltre che con le forze “esterne” che ne appoggiano in vari modi la lotta. Le virgolette sono d’obbligo perché i militanti di diversa estrazione ideologica che non solo dal Piemonte ma da ogni parte d’Italia salgono in Val Susa per fiancheggiare l’azione dei comitati spontanei creati dalla popolazione, non sono in alcun modo esterni agli obiettivi e ai metodi di lotta scelti dalla gente del posto.
Obiettivi e metodi legittimati dalla volontà di resistere a quella che si presenta come una delle più brutali azioni di stupro ai danni di un ambiente e dei suoi abitanti che i governi (al plurale perché si sono passati il testimone in questa nobile impresa) di questo Paese abbiano mai perpetrato. Uno stupro motivato dagli interessi di un pugno di speculatori e che oggi, mentre sono ormai smascherate le ragioni economiche, politiche e “scientifiche” con cui si è inutilmente cercato di legittimarlo, viene tenuto in piedi al solo scopo di dimostrare l’impossibilità che l’autonoma volontà democratica di una popolazione locale possa prevalere sul potere dello Stato e dei suoi organi di repressione.
È probabile che la “grande impresa” della Tav sia destinata a fare la fine della megabufala del ponte sullo stretto di Messina, con la quale condivide lo stesso infame mix di irrazionalità tecnoeconomica, dannosità ambientale e rapacità speculativo mafiosa, a meno che lo Stato non voglia prima celebrare una “vittoria” che testimoni la sua schiacciante superiorità militare su poche decine di migliaia di persone (è il dubbio che sorge guardando lo spettacolo desolante di un cantiere armato fino ai denti, nel quale si lavora per distruggere e non per costruire).
In ogni caso, se e quando ciò dovesse avvenire, la storia della No Tav resterà nella memoria di chi appartiene alla sinistra, nei fatti e non solo nelle parole, come un formidabile esempio di autogoverno democratico e di integrazione positiva fra i soggetti locali di tale autogoverno e le forze politiche accorse a sostenerlo con la loro azione e le loro idee. Fra queste forze politiche latitano, ma questo è ormai scontato, quelle che, se non altro per tradizione e bandiera, avrebbero dovuto essere in prima fila nel difendere le ragioni della popolazione valsusina, mentre hanno preferito unirsi al coro degli anatemi contro i “violenti” (chiudendo gli occhi su qual era la parte in campo che stava effettivamente esercitando violenza) e gli “antipolitici”, insulto che i veri democratici di questo Paese dovrebbe ormai accogliere come il miglior complimento.
di Carlo Formenti, da Blog-Micromega
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