I paesi dell’Europa vivono una doppia crisi, quella generale del capitalismo cominciata nel 2007, tra le più gravi della sua storia, e quella propria del continente (accentuata ed accelerata dalla prima), espressione delle contraddizioni profonde delle strutture economiche ed istituzionali su cui è stata costruita l’Unione europea dalle classi dominanti.
Queste modalità di “costruzione dell’Europa” operate dalla borghesia europea e funzionali a questa fase di accumulazione capitalista con i suoi effetti devastanti di povertà e disoccupazione, hanno infangato l’idea stessa dell’unità europea e spingono settori della popolazione ad essere, non solo, come è giusto, contro “questa Europa”, ma contro l’idea stessa di Europa tout court, ripiegando su posizioni nazionaliste ed alimentando sempre più gli spazi delle destre fasciste e nazionaliste.
Le due fasi della costruzione europea
Dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, espressione della divisione del continente in tanti stati nazionali e della concorrenza dei principali paesi capitalisti, le borghesie nazionali (a partire da quelle tedesca, francese ed italiana) decisero di costruire strutture politiche/economiche di collaborazione che disciplinassero la concorrenza capitalista e fossero funzionali ad estendere i mercati, garantendo una nuova fase di sviluppo del sistema. Per questo nacquero, prima la Comunità Economica Europea, poi la Comunità Europea ed infine l’Unione Europea. L’evoluzione di questa struttura continentale, si produsse nel quadro della fase espansiva del capitalismo, indirizzata da scelte economiche sia nazionali che europee di tipo keynesiano e sotto la spinta della mobilitazione operaia e della forza delle organizzazioni sindacali riformiste. Questo processo tendeva a far convergere le economie europee, pur con molti limiti e ancora con profonde differenze. Ma a partire da metà degli anni ’80, finita l’età dell’oro e sotto la spinta neoconservatrice e neoliberista degli USA e dell’Inghilterra le scelte di politica economica delle classi dominanti mutano profondamente. La borghesia europea, sempre con meno incertezze e grazie a una serie di sconfitte inflitte al movimento dei lavoratori, persegue la scelta dell’unità europea dentro un quadro rigorosamente neoliberista con la totale liberalizzazione dei processi economici, della finanziarizzazione e della concorrenza a tutti i livelli. Si sostiene che l’omogeneità e gli equilibri economici saranno prodotti dal libero mercato e non da una politica finanziaria e tributaria rivolta a gestire progetti economici e sociali che riducano le differenze esistenti tra i diversi paesi. L’introduzione della moneta unica deve servire a favorire ulteriormente gli scambi economici, ma anche ad imporre una disciplina di bilancio a tutti i paesi spingendoli a svalutare i salari, non potendo più esercitare la concorrenza tramite la svalutazione della moneta nazionale.
E infatti le differenze salariali che già erano molto alte si sono ancora rafforzate: il salario minimo dei paesi più deboli arriva ad essere di 8/9 volte inferiore a quello della Francia o dell’Olanda, ma anche le disparità interne a ciascun paese sono alte; si pensi alla Germania dove 7,5 milioni di lavoratori hanno un salario mensile di 400 euro mentre di norma il salario minimo supera i 1.200 euro. E così a tutti i livelli le disparità si sono aggravate e i paesi del Sud che in una prima fase dell’Euro avevano conosciuto un parziale recupero grazie al super indebitamento non hanno resistito all’arrivo della crisi. Quest’ultima ha rivelato il “peccato originale” della zona euro che aggrega paesi dalle caratteristiche strutturali molto differenti senza prevedere nulla per sanarle e neppure per garantire convergenze reali.
La scelta feroce delle borghesie europee
La verità è che c’è la scelta feroce e comune di tutto il padronato europeo nelle sue diverse articolazioni e governi nazionali, gestita dalla Commissione, dalla Banca europea e dalla Troika: ridisegnare il corso della storia, infliggere una sconfitta epocale alla classe lavoratrice, diminuire mediamente del 25 % i salari, disporre di un esercito industriale di riserva di decine di milioni di disoccupati e distruggere i diritti e la protezione sociale conquistati nel secondo dopoguerra. Questa politica e le scelte neoliberiste non sono della sola borghesia tedesca con la Merkel, come molti credono o cercano di far credere, ma sono condivise dalle altre borghesie europee, che ne hanno un proprio tornaconto (compresa quella greca) anche se, come in ogni banda a delinquere, ognuno cerca di accaparrarsi una parte più consistente del bottino e fa pesare la propria forza e gli interessi specifici. Inoltre esiste un processo, se pure ancora parziale, di formazione di una vera e propria borghesia europea in quanto tale rintracciabile in primo luogo nei settori capitalisti più dinamici e integrati.
La crisi del debito è stata l’occasione e il pretesto per infliggere alle classi lavoratrici dosi massicce di austerità e per ristabilire la redditività del capitale.
Per questo si sono inventati il six pack, il fiscal compact e il two paks, cioè leggi e misure finanziarie al servizio delle banche e delle grandi aziende private che hanno la funzione di garantire l’aumento dello sfruttamento e il mantenimento delle rendite finanziare e dei profitti: una vera guerra sociale che governi e borghesie hanno scatenato contro il mondo del lavoro.
Inoltre le politiche della grande borghesia e delle banche per ramazzare nuove risorse per difendere rendite e profitti stanno determinando anche l’impoverimento di vasti settori di piccola borghesia, di commercianti e di lavoratori indipendenti, che perdono la loro condizione di stabilità e sono sprofondati verso il basso: una parte di questi sono settori sociali consolidati e moderati che da sempre hanno disposto di una certa agiatezza, ma molti di questi sono anche ex lavoratori che dopo aver perso il posto di lavoro hanno aperto una piccola attività commerciale che ben presto arriva al capolinea.
Queste scelte economiche, che provocano drastiche riduzioni dei consumi, disoccupazione di massa e povertà, cioè un processo recessivo che alimenta ancor più la crisigenerale, possono sembrare assurde, irrazionali e fallimentari se viste in astratto (e sono naturalmente irrazionali, violente ed inaccettabili dal punto di vista degli interessi della collettività); sono però del tutto “razionali e necessarie” nell’ottica delle classi dominanti e dell’acuta concorrenza con cui queste ultime sono confrontate con gli altri poli capitalistici, garantendo a loro il potere e i privilegi. Nello stesso tempo aprono un periodo storico di grande crisi sociale, politica e culturale in cui si confronteranno sul campo le classi sociali e le forze politiche alla ricerca della loro egemonia e del loro sbocco politico ed economico; in questo quadro il pericolo della destra e della destra estrema, come già una serie di vicende illustrano ampiamente, è ben presente e deve essere assunto nell’orientamento politico e nella attività delle forze anticapitaliste.
NO a Scilla e a Cariddi
Se l’attuale costruzione dell’Europa capitalista, per altro vacillante e contradditoria, è inaccettabile perché corrisponde a un progetto di società reazionaria e violenta di dominazione di classe, anche il ripiegamento sugli stati nazionali non sarebbe meno reazionario e violento ed avverrebbe portando al potere esponenti della borghesia non meno feroci e disposti a tutto pur di garantirsi il potere e lo sfruttamento della classe lavoratrice.
Solo le forze anticapitaliste e rivoluzionarie possono proporre ciò che è necessario in questa fase storica: l’alternativa di un’altra Europa, in totale rottura con i trattati e le attuali istituzioni, fondata sulla democrazia, la collaborazione e la solidarietà tra i popoli, l’armonizzazione sociale verso l’alto, lo sviluppo dei servizi pubblici comuni, cioè un progetto e un percorso, di certo lungo e complesso, per l’Europa socialista come era negli auspici dei fondatori del movimento operaio. Non a caso a metà degli anni ’30 Trotsky scriveva: «I lavoratori non hanno il minimo interesse a difendere le frontiere attuali, soprattutto in Europa, sia agli ordini della loro borghesia sia nella insurrezione contro di essa… Il compito del proletariato europeo non è di rendere eterne le frontiere, ma di sopprimerle in modo rivoluzionario. Statu quo? No! Stati uniti d’Europa!»
Per l’unità delle classi lavoratrici del continente
La campagna che la nostra organizzazione sta facendo per l’unità del movimento delle lavoratrici e dei lavoratori per la difesa del reddito e dell’occupazione è quindi strettamente collegata al rifiuto e al rigetto dei trattati europei.
Affrontiamo la “questione europea” a partire dall’unità delle classi proletarie, dalla necessità della costruzione di un movimento su scala internazionale contro le politiche della Troika, che porti la lotta delle donne e degli uomini sfruttate/i e oppresse/i a respingere il ricatto del debito e tutti gli strumenti padronali neoliberisti messi in piedi dalle istituzioni al servizio delle imprese private dei padroni e delle banche: il Fiscal compact, il two packs, il pareggio di bilancio. Occorre contrapporre un programma fondato sulla risoluzione dell’emergenza sociale, sulla distribuzione del lavoro esistente, il recupero salariale e la nazionalizzazione delle banche e delle imprese strategiche.
Il nostro asse politico è il rigetto delle politiche di austerità nella loro valenza europea e nazionale dei singoli stati, il rifiuto di pagare il debito, l’unità dei lavoratori su scala nazionale ed europea contro ogni ripiegamento nazionalista e di contrapposizione soggettiva ma anche obiettiva con la classe operaia di altri paesi.
Consideriamo nello stesso tempo del tutto utopistiche e sbagliate le posizioni di quelle forze di sinistra che accettano il quadro economico ed istituzionale dell’UE (un falso europeismo) e pensano di democratizzarla e di renderla “sociale” evocando qualche modesta misura riformista e keynesiana. Queste forze finiscono regolarmente per essere alleate e subalterne dei partiti socialliberisti, cioè a coloro che gestiscono insieme ai conservatori le politiche liberiste dell’Unione, cioè l’austerità.
La costruzione di un progetto e di una meta
Non partiamo dalla semplicistica proposta di uscita dall’euro, che molti sostengono pensando di aver trovato la parola d’ordine grimaldello e di massa per aprire la porta ad una risposta nazionale (ma per molti è anche una risposta nazionalista apertamente o potenzialmente di destra) alla politica delle istituzioni europee.
Qualsiasi idea di una soluzione nazionale dentro un quadro capitalista, variamente colorata dalla speranza di un ritorno ai vecchi tempi del keynesismo, un amarcord dei tempi “felici” dell’età dell’oro del dopoguerra, è del tutto utopica perché non corrisponde a questa fase dell’economia mondiale della globalizzazione. Non è un caso che chi sostiene questa posizione non precisa mai quale classe e quale governo dovrebbe portare avanti questa politica. Non sarebbe un’idea geniale, né interesse della classe lavoratrice, chiedere alla borghesia di tornare alla moneta nazionale, restando all’interno delle attuali politiche liberiste.
L’idea che l’austerità si possa sconfiggere con la svalutazione e il ritorno alle monete nazionali è infatti un’illusione, come è stato dimostrato dalla svalutazione della lira nel 1992 e dall’austerità economica senza precedenti con cui quella politica è stata accompagnata. Siamo stati contrari all’entrata dell’Italia nell’Euro con il trattato di Maastricht perché quel trattato prevedeva l’austerità economica, ma non è automaticamente con l’uscita da quel quadro che possiamo mettere fine a quelle stesse politiche.
Neanche possono convincere quelle posizioni che propongono la formazione di una moneta euromediterranea e di una zona economica (il riferimento è all’ALBA latino americana) dei paesi del Sud del continente. Va da se che occorre lavorare perché ogni forma di resistenza che si esprime in questi paesi, trovi i canali della convergenza e della unità. Per altro nell’unica occasione – l’ottobre del 2012 – in cui c’è stato un appello per una mobilitazione unitaria continentale, la rispondenza è stata positiva, mostrando le potenzialità di una lotta europea dei lavoratori e dei movimenti sociali, che deve essere perseguita più che mai.
Non convince nella proposta “euromediterranea” ancora una volta l’illusione della svalutazione della nuova moneta per reggere la concorrenza come momento salvifico, e soprattutto l’indefinitezza su quale classe, di quali governi dovrebbero essere i protagonisti, di questo distacco del Sud dell’Europa; posizione che, per altro, lascia spazio a possibili illusioni su settori “nazionali” della borghesia interessati al progetto e a “possibili compromessi” con queste forze del padronato. Non a caso al di là della presunta “concretezza” della nuova moneta tutto il progetto è avvolto da una grande nebbia certo non risolta dal generico riferimento al socialismo del XXI secolo.
Nello stesso tempo è chiaro e molto probabile che nelle resistenze sociali in corso in Europa la rottura sociale si porrà prima in un paese piuttosto che in un altro; se una rottura sociale e politica portasse, come è nei nostri obiettivi, a un governo di sinistra dei lavoratori, basato sulla mobilitazione popolare, quest’ultimo dovrebbe prendere tutte le misure di emergenza necessarie per difendere gli interessi della classe lavoratrice di fronte all’aggressione padronale e delle istituzioni europee, compreso se necessario, l’uscita dell’Euro, come misura di ultima istanza, avendo la capacità di usare questa minaccia, come elemento di condizionamento e di prova di forza con il padronato e l’Unione europea. Questi potrebbero anche assumersi la responsabilità di decretare l’uscita dall’euro di quello stato che pratica politiche alternative, ma i rischi sociali ed economici per gli altri stati, soprattutto se si stesse parlando anche solo di Italia o Spagna, non sarebbero irrilevanti.
Il nostro approccio strategico si basa dunque su cinque pilastri:
- una impostazione internazionalista e di unità dei lavoratori a livello europeo;
- il rigetto delle politiche di austerità e dei suoi strumenti;
- l’uscita dall’euro non è esclusa a priori, ma può in determinati casi essere utilizzata come arma dissuasiva da un governo di vera sinistra;
- la rottura con l’attuale Unione europea capitalista deve essere accompagnata da un progetto di rifondazione democratica, cooperativistica e socialista dell’Europa;
- la rottura con le politiche liberiste europee deve accompagnarsi con la piena rottura di ogni politica liberista nel paese dato.
Solo in questo modo è possibile contrastare la pericolosa crescita dei sentimenti nazionalisti e xenofobi e dell’estrema destra La costruzione della solidarietà e delle resistenze sociali a livello europeo è un compito non rinviabile. Soltanto una profonda e prolungata mobilitazione popolare in diversi paesi e su scala internazionale potrà sconfiggere le classi padronali dell’Europa e i loro progetti reazionari. Una crisi così violenta del capitalismo richiede soluzioni radicali, cioè l’uscita dal capitalismo; il cammino è lungo e difficile, si parte dalle resistenze e dalle lotte concrete, ma la meta dev’essere ben chiara.
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