Tratto dal libro: A Viso Aperto, di Renato Curcio e Mario
Scialoja. Pubblicato nel 1993 per Monadori
La cascina Spiotta
Renato Curicio, intervistato da Mario Scialoja, ripercorre le
drammatiche fasi dell’omicidio della moglie Margherita (Mara) Cagol.
Margherita Cagol è
morta il 5 giugno 1975 alla cascina Spiotta,dove teneva prigioniero l’industriale
Vallarino Gancia. Nella sparatoria fu ucciso anche il carabiniere Giovanni D’Alfonso. Perché avete deciso quel
sequestro?
Si è trattato del nostro primo sequestro a scopo di
finanziamento. Fino a quel momento i soldi ce li eravamo procurati con le
rapine alle banche ….. Ma con l’andare del tempo l’organizzazione era diventata
sempre più grossa e le esigenze della clandestinità ancora più complesse e
onerose….Gli attacchi alle banche spesso
fruttavano solo piccole somme. Nell’aprile del ’75 ci riunimmo, Margherita,
Moretti ed io, in una casa del piacentino per discutere il da farsi:
pensammo che era venuto il momento di seguire l’esempio dei guerriglieri
latino-americani che già da tempo sequestravano gli industriali per finanziarsi.
Come mai avete scelto
proprio Villarino Gancia?
Puntammo su Gancia perché con lui potevamo agire in una zona
che conoscevamo bene, perché l’operazione non comportava troppe difficoltà, perché
era molto ricco e perché ci risultava che avesse finanziato delle organizzazioni fasciste. Volevamo
chiedere un riscatto di circa un miliardo, ma, soprattutto, miravamo ad un
sequestro rapido, semplice e il meno rischioso possibile.
Tu hai partecipato all’azione
?
Non facevo parte del gruppo operativo perché ero super ricercato,
la polizia aveva le mie foto, non mi potevo spostare con facilità. Avevamo
studiato i movimenti di Gancia e stabilito che lo avremmo preso in una strada
di campagna che percorreva abitualmente per andare alla “Camillina”, la sua
villa-castello di Canelli, vicino ad Asti.
L’azione si svolse il 4 giugno e sis volse senza intoppi. Appena
prelevato l’industriale venne caricato su un furgone e portato alla cascina
Spiotta, sulle colline di Acqui Terme.
Cosa era la cascina
Spiotta?
Un nostro rifugio segreto, molto tranquillo e ben situato: a
circa un’ora di macchina da Milano, Torino e Genova. Un antico cascinale di
pietra in mezzo alla vigna e agli alberi da frutta, sul cocuzzolo di una
collina a pochi chilometri dal borgo di Arzello. Lo aveva scoperto Margherita e
comperato per pochi milioni…..Avevamo fatto amicizia con una famiglia di
contadini di un cascinale vicino…La figlia, di quindici-sedici anni, veniva
spesso a trovarci, ci portava le uova fresche e il latte appena munto. Quando
Franceschini ed io eravamo stati arresati e le nostre foto erano apparse su
tutti i giornali , nessuno di loro aveva detto niente e così pensammo che
potevamo fidarci…Tanto più che l’unica strada di accesso poteva essere
controllata dalla casa lungo vari chilometri.
Chi rimase a
sorvegliare Gancia?
Margherita e un altro compagno che non posso nominare perché
non è stato inquisito per questa operazione. Il sequestro doveva durare al
massimo quattro, cinque giorni….Ma la mattina successiva l sequestro ci fu l’irruzione
dei carabinieri.
Come mai i carabinieri
sono riusciti ad arrivare alla cascina senza essere visti lungo la strada che
sale sulla collina?
Per colpa di una tragica disattenzione dovuta alla
stanchezza. Il compagno che stava con Margherita si era addormentato durante il suo turno di
guardia.
Tu sai esattamente
cosa è successo su nella vostra cascina quella mattina di giugno?
Si, ho ricostruito accuratamente i fatti parlando con il
brigatista che si è salvato. Margherita, dopo avermi telefonato, torna alla
Spiotta e , siccome è stata di guardia tutta la notte, dice al compagno: “Io
adesso vado a riposare, controlla tu dalla finestra con il binocolo, se vedi
qualcosa di sospetto avvertimi e ce la filiamo”. Il piano previsto era molto
prudente: avevamo studiato le cose in modo da evitare ad ogni costo un
conflitto a fuoco e per questo avevamo pensato di poter lasciare solo due persone a sorvegliare il sequestrato.
Se una pattuglia o qualcuno di sospetto si fosse avvicinato alla cascina ,
Margherita e il compagno dovevano legare ed imbavagliare Gancia abbandonandolo
sul posto, correre dietro al dosso del nostro terreno, due minuti a piedi,
scendere giù per un pendio e fuggire con un’auto che era stata lasciata
apposta vicino ad uno stradello
sterrato. Il fatto che il sequestrato potesse essere liberato era previsto e
accettato, proprio perché avevamo deciso di stare lontani da ogni rischio. Dunque
Margherita va a dormire, il compagno si apposta davanti alla finestra con il
binocolo, ma poco dopo viene preso da un colpo di sonno. E non si accorge che
una 127 blu dei carabinieri sale per la
strada comunale , si ferma a controllare qualche cascina lungo il percorso,
imbocca il viottolo sterrato che porta
da noi. Lì doveva esserci un tronco d’albero messo di traverso per permettere di
guadagnare tempo in caso di fuga, ma anche questa precauzione era stata
trascurata. I carabinieri arrivano nell’aia. Le finestre della cascina da
quella parte sono chiuse, ma vedono due macchine posteggiate sotto il
porticato. Capiscono che c’è qualcuno.
Prudenti, spostano a retromarcia la loro auto sul lato dell’edificio bloccando
lo stradello d’accesso. Poi cominciano a chiamare e bussare alla porta.
Margherita si sveglia di botto. Dalla finestra vede i carabinieri, pensa si
tratti di una pattuglia che gira a piedi per la campagna: “Non ti sei accorti
di niente, ci sono i carabinieri, che si fa?” dice al compagno allibito. Dopo un attimo
di indecisione stabiliscono di affrontare i militari per tentare di raggiungere
le macchine e scappare. I carabinieri, però, insospettiti del fatto che dalla
casa non arriva risposta, non si fanno prendere alla sprovvista. Quando Margherita
e il compagno si buttano fuori dalla porta con i mitra imbracciati e le bombe a
mano Srcm pronte, esplode istantaneo il conflitto a fuoco. I colpi si
susseguono a raffica e viene lanciata anche una bomba. Due carabinieri, colpiti
gravemente, rimangono a terra. Uno di loro, l’appuntato Giovanni D’Alfonso,
morirà pochi giorni dopo; l’altro, Umberto Rocca, perderà un occhio e un
braccio. Il terzo scappa per i campi. Margherita ha una leggera ferita al
braccio il compagno è illeso. Riescono a salire sulla loro auto, lei parte per
prima a tutto gas. Girato l’angolo della casa si trova davanti la 127 dei
carabinieri e per non sbatterci contro finisce con le ruote nel fosso. Il
compagno che la segue rimane bloccato anche lui. Vengono subito presi sotto
tiro da un quarto carabiniere che era stato lasciato di guardia in quel punto.
Margherita esce dalla macchina disarmata , il compagno ha invece due Srcm in tasca.
Gli viene ordinato di sedersi sul prato con le mani alzate. Sono prigionieri.
Il compagno informa Margherita che ha le bombe e propone di tentare la fuga
appena il carabiniere che li tiene di mira
si distrae un attimo. Lei è d’accordo. Il carabiniere a un cero punto si
allontana di qualche passo per andare alla macchina e sollecitare i soccorsi
via rado. Il compagno si alza di scatto,
lancia malamente la bomba che esplode senza fare danni e si precipita in direzione del bosco. Margherita
non è abbastanza veloce: rimane sotto il tiro del carabiniere che preferisce
controllare lei piuttosto che aprire il
fuoco contro il fuggiasco. Il compagno
arrivato al riparo, si ferma per capire se è ancora possibile tentare qualcosa.
Dopo qualche minuto sente un colpo. Forse anche una raffica di mitra. Si
affaccia sul prato, capisce che non c’è più niente da fare e si allontana. I
risultati dell’autopsia parlano chiaro. Margherita era seduta con le braccia
alzate. Le è stato sparato un solo colpo di pistola sul fianco sinistro,
proprio sotto l’ascella. Il classico colpo per uccidere….
La morte di tua moglie è stata un dramma personale che ha
anche modificato il tuo rapporto con la militanza e la lotta armata?
Quell’avvenimento ha cambiato molte cose: non solo per me,
ma anche per le Brigate Rosse. Abbiamo per la prima volta vissuto veramente da
vicino l’incontro con la morte e con il suo bagaglio di significati. La morte
di Margherita, mia moglie, una nostra compagna, un capo colonna, e anche la
morte di un carabiniere, padre i famiglia: questo l’epilogo drammatico di un’operazione
che avevamo studiato in modo da evitare lo scontro a fuoco. Il grave fallimento
ci portò a una durissima autocritica, ma anche alla presa di coscienza che
continuare per la nostra strada significava accettare in concreto- e non solo
come ipotesi astratta- il peso della morte, sia nel nostro campo che in quello
avverso…
“…..E’ caduta
combattendo Margherita Cagol, “Mara”,
dirigente comunista e membro del comitato esecutivo delle Brigate Rosse. La sua
vita e la sua morte sono un esempio che nessun combattente per la libertà potrà
mai dimenticare…Non possiamo permetterci di versare lacrime sui nostri caduti,
ma dobbiamo imparare la lezione di lealtà,
coerenza, coraggio ed eroismo….Che tutti i sinceri rivoluzionari onorino la
memoria di “Mara” meditando l’insegnamento politico che ha saputo dare con la
sua scelta, con la sua vita. Che mille braccia
si protendano per raccogliere il suo fucile! Noi, come ultimo saluto le
diciamo: “Mara, un fiore è sbocciato e questo fiore di libertà le Brigate Rosse
continueranno a coltivarlo fina alla vittoria.”
Questi sono alcuni
passi di un famoso volantino che le Br hanno diffuso il giorno dopo la morte di
tua moglie. Un testo anomalo che mischia la commozione umana alla retorica
guerrigliera. Lo hai scritto tu personalmente?
Si l’ho scritto io di getto….Il linguaggio che mi è venuto
naturale usare esprime due rapporti diversi e contradditori con l’avvenimento:
da un lato, la commozione e le tensioni personali, e dall’altro, l’esigenza di
inquadrare il fatto nell’ambito politico della lotta armata . E’ vero che si
tratta probabilmente dell’unico documento delle Br nel quale alla freddezza del lessico politico-ideologico si
sovrappone l’espressione di emozioni personali…Probabilmente quel volantino può
essere letto come un documento cinico e, magari, grottesco. Oppure come un
testo che esprime in pieno la contraddittorietà di venti umani in cui la
politica e la lotta si fanno anche vita e morte.
Il volantino finisce
con la parola “vittoria”: nel 1975 credevi davvero che la vostra lotta armata
potesse conquistare un qualche tipo di vittoria?
Non ho mai pensato che lo sbocco vittorioso della lotta
armata dovesse significare la conquista
del potere. Ma d’altro canto non ci si batte, come noi abbiamo fatto, pensando
di essere per forza sconfitti. Sintetizzando le cose con una formula
elementare, posso dire che quella società in cui vivevamo non mi andava
assolutamente bene, non volevo a nessun costo accettarla, lottavo per
cambiarla. E la parola “vittoria” significava la speranza di riuscire a
modificare , almeno in parte lo stato delle cose….
Oggi credo di poter dire che il mio errore di valutazione
della politica è stato quello di attribuire un peso eccessivo alla Democrazia
Cristiana. Mi sono accorto che il regime teneva bloccata la situazione era di fatto un blocco di alleanze che
coinvolgeva l’intero sistema dei partiti, anche quelli di opposizione. Un’opposizione
finta! In realtà, il “cuore dello Stato” che volevamo colpire non era
rappresentato solo dalla Dc, ma da tutto il complesso politico-istituzionale
che proteggeva se stesso in una continuità di regime. In quella situazione,
comunque, per ottenere delle riforme vere si sarebbe dovuto scardinare il
blocco e quindi “fare la rivoluzione”. Per ottenere le riforme bisognava
armarsi.
Rest in peace dear Mara. Your motivation was Nobel. Your commitment, heroic. You are loved by many. I will travel from California to Cascina Spiotta to place flowers in her memory.
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