Come
si sta nel mondo globalizzato? Bene tutto sommato. 2,7 miliardi di persone
vivono con meno di 2,5 $ al giorno. Però
85 super ricchi possiedono l’equivalente
di quanto detenuto da metà della popolazione mondiale. In Africa le grandi multinazionali – in particolare quelle
dell’industria mineraria/estrattiva – sfruttano la propria influenza per
evitare l’imposizione fiscale, riducendo in tal modo la disponibilità di
risorse che i governi potrebbero utilizzare per combattere la povertà.
Altro vantaggio del mondo globalizzato è che
non si pagano le tasse. In molti paesi, i ricchi non solo guadagnano
di più, ma sono gravati da minori imposte. Questa conquista
di opportunità dei miliardari, a spese
delle classi povere e medie, ha contribuito a creare una situazione in cui, nel
mondo, 7 persone su 10 vivono in paesi dove la disuguaglianza è aumentata negli
ultimi trent’anni, e dove l’1%
delle famiglie del mondo possiede il 46% della ricchezza globale (110.000
miliardi dollari).
In questo eldorado non sono evitabili alcune seccature, o
effetti collaterali. 230 milioni di persone, estromesse dalle loro economie, o profughi
di guerre scatenate per accaparrarsi
risorse energetiche e incrementare il business delle armi, invadono la nostra
isola felice, sempre che riescano a non
diventare mangime per i pesci in fondo al mare. Vengono a turbare la nostra
serenità di consumatore contento. Bisogna perfino darsi pena di andarli a
salvare o di spendere dei soldi per riportare in superficie un’imbarcazione
naufragata la cui stiva potrebbe
contenere più di 800 cadaveri.
Anche in Bangladesh, la globalizzazione offre
notevoli opportunità. Il piccolo Paese asiatico, confinante con l’India, presenta
una popolazione estremamente povera. Però qui aziende
di abbigliamento a grande distribuzione, come
Walmart, Benetton, ma anche marchi di lusso del calibro di Armani, Ralph
Laurent, Hugo Boss, possano trovare degli schiavi disposti a lavorare giorni
interi senza mai riposare se non per assolvere
le funzioni fisiologiche. Bambini di 12-14 anni sgobbano in lager
malsani percependo una paga di 2 euro al
giorno. Circa un anno fa nella capitale, Dacca, uno di queste fatiscenti
prigioni è crollata uccidendo più di
mille bambini che li sotto stavano lavorando.
E’ dunque assolutamente
normale che imprenditori, manager del
tessile, da tutto il mondo globalizzato, giungano in Bangladesh per aumentare i loro profitti, sfruttando una
mano d’opera schiavizzata il cui stipendio medio va dai 50 ai 68 dollari al mese. Un costo del
lavoro che incide solo per lo 0,6% sul prezzo finale è una vera e propria manna.
Però anche in questo frangente capita qualche spiacevole, e in questo caso drammatico,
effetto collaterale. L’altro ieri a
Dacca imprenditori, operatori, per lo
più impegnati nel business del tessile,
ospiti del ristorante Holey Artisan Bakery, sono stati vittime di un sanguinoso
assalto da parte di un commando di jihadisti.
20 persone sono state trucidate
fra queste 9 erano italiani. Al di la delle motivazioni che hanno mosso i
terroristi, resta il fatto che se il Bangladesh non fosse un grande serbatoio
di schiavi per la manifattura e l’abbigliamento, molti di quei manager sarebbero restati a casa. Avrebbero realizzato
meno profitti? Certamente, ma forse avrebbero creato posti di lavoro nel
proprio Paese e sicuramente avrebbero avuto salva la pelle.
E’ drammatico forse
crudele, cinico, ma i nostri connazionali, più che vittime della furia
jihadista, sono stati coinvolti nella tragica dinamica di un effetto collaterale. Già perché il mondo
globalizzato, la corsa neoliberista, sono ingranaggi inarrestabili, meravigliosi , ma gli effetti
collaterali spesso sono drammatici.
Le vittime.
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