Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 3 dicembre 2011

Ecco perché Monti è il nostro nemico

Massimo Ilardi  fonte: http://www.glialtrionline.it 
da una segnalazione di Bruno Roveda


Prendiamo le mosse dall’intervista che Fausto Bertinotti ha rilasciato a Piero Sansonetti e pubblicata la settimana scorsa su questo settimanale. È un buon punto di partenza per riflettere sulla crisi della politica e sulla tempesta finanziaria che l’avrebbe generata. «L’Europa della finanza e della tecnocrazia – afferma Bertinotti – è partita da questo punto: i governi dei singoli paesi devono essere funzionali al disegno economico della Bce». In nome di che? «Di una emergenza economica. Nella scala dei valori l’economia viene prima della democrazia. L’emergenza economica è al di sopra di tutto…».
La conseguenza è che i Parlamenti sono esautorati e finisce la sovranità della politica. La sovranità, dice Bertinotti, si sposta altrove: dai popoli alla Banca centrale europea. Ha ragione: la democrazia, come un modo di funzionamento del potere politico, sta fallendo di fronte all’emergenza. Ma direi di più. Sta fallendo anche a livello sociale: gli infiniti spazi della frontiera americana hanno dimostrato che la democrazia come “governo del popolo, per mezzo del popolo e per il popolo” può solo fondarsi quando si pratica contemporaneamente un tipo di libertà senza impedimenti e senza responsabilità. La fine o, meglio, l’esaurirsi dell’occupazione di territori liberi e, insieme, l’avvento di una società del consumo fondata sulla politicizzazione del desiderio individuale hanno rivelato, e non solo in America, che democrazia e libertà hanno dentro di loro elementi di tale reciproca ostilità che alla fine portano alla crisi della democrazia stessa.
Il veleno distruttivo dell’individualismo che negli spazi vuoti della frontiera americana veniva finalizzato al potenziamento della libertà di azione, dell’accettazione del rischio e dell’occasione da cogliere e che rendevano dinamico il processo democratico, oggi, nei territori claustrofobici della metropoli contemporanea dove terre libere non esistono più, si cerca di imbrigliarlo o di annullarlo dentro parole vuote come “etica della responsabilità”, “partecipazione”, “comunità”. E così non è più la libertà a dare forma alla società ma una democrazia istituzionalizzata, legislativa, appiattita sulle regole e senza più l’immaginazione e i sogni del pioniere americano. Esplode il dissidio tra la libertà come pratica dell’individuo e la democrazia come forma di società, modello sociale e culturale fondato su un inarrestabile e uniforme processo ugualitario subordinato agli Stati.
Dunque, crisi politica e crisi sociale attanagliano la democrazia. Ma torniamo alla prima. Parlamenti, partiti, sindacati, movimenti sembrano oggi incapaci di produrre contenuti per un sapere e per un agire che sappiano affrontare l’immediatezza dello stato d’eccezione in cui viviamo. Dobbiamo trarne le conseguenze: se è vero che la decisione si è trasferita altrove allora vuol dire che l’azione politica si origina ormai in luoghi diversi da quelli tradizionalmente deputati. Quando Bertinotti ammonisce di uscire fuori dai vecchi recinti istituzionali per ritornare a fare politica colpisce nel segno, ma non può poi riproporre ‘pezzi’ di sinistra, di sindacato e di movimento come i nuovi soggetti di questa possibile svolta. E’ invece di nuovo vero quello che dice subito dopo: si deve ricominciare da capo modificando profondamente il senso comune. Cosa significa?
A mio parere significa innanzitutto da parte della sinistra avere la lucida consapevolezza di chi è il nemico, averla con la stessa limpida chiarezza che ha dimostrato di possedere la Bce nell’individuare il suo. Lo stato di emergenza in cui ci ha gettato e la decisione sovrana che ormai le appartiene nascono da qui. Non a caso il suo disegno, che il senso comune si ostina a chiamare ancora “economico”, e che viene subito passivamente da partiti e istituzioni, funziona invece come il vero e proprio “politico” da cui si origina oggi l’azione politica che mette in crisi la democrazia (reclamarla come è successo in Grecia con il referendum e in Italia con le elezioni anticipate sembra ormai essere un vero e proprio fatto eversivo) e restringe il campo delle libertà individuali. D’altra parte, «il “politico” – scrive Carl Schmitt – può trarre la sua forza dai più diversi settori della vita umana, da contrapposizioni religiose, economiche, morali o di altro tipo; esso infatti non indica un settore concreto particolare ma solo il grado di intensità di un’associazione o di una dissociazione di uomini, i motivi della quale possono essere di natura religiosa, nazionale (in senso etnico o culturale), economica o di altro tipo …». Allora un fatto incontrovertibile è che oggi l’economico rappresenta l’esistenza determinata e contingente del “politico”: perché innesca un conflitto devastante, mette in crisi lo Stato e il monopolio della sua decisione e apre a una nuova sintesi politica e a un nuovo potere costituente. Contrapporre ancora economia e politica non ha quindi più senso: l’economia è la politica di questi primi anni del secolo. E Mario Monti non è un tecnico ma un vero e proprio uomo politico perché fa parte, come ricorda anche Bertinotti, di coloro che hanno provocato lo stato d’eccezione ed è stato chiamato dagli stessi per governarlo e gestirlo.
A questo punto, la domanda è d’obbligo: qual è il nemico per la sinistra? Non può che essere la Bce e, di conseguenza, il governo Monti come suo intermediario. Reclamare quindi le elezioni anticipate come scelta fondamentale di un governo democratico vuole dire non solo dislocare il conflitto su altri livelli che poco o nulla hanno a che vedere con l’economia, non solo affrontare lo stato d’eccezione che già c’è, ma addirittura crearne uno nuovo per riconquistare quel potere decisionale che le è sfuggito di mano. Per riuscire di nuovo e soprattutto a produrre politica. Perché tra il “prendere decisioni” e la “capacità di governare” il rapporto non è diretto: in mezzo c’è appunto la forza dell’iniziativa politica, del “fare politica”.

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