Luigi Onori da "Alias" del 23 maggio
Nell’affastellarsi
di ricorrenze (sessant’anni dalla morte di Charlie Parker, cent’anni dalla
nascita di Billie Holiday, i settant’anni compiuti l’8 maggio da Keith
Jarrett…) un anniversario significativo sembra essere sfuggito
ai più.
Dall’esperienza nei primi
anni Sessanta dell’Experimental Band — guidata dal pianista Richard Abrams
— e da quella duratura della Federazione Musicisti afroamericani
Local 208 nasce a Chicago nel maggio 1965 l’A.A.C.M.: Association for
the Advancement of Creative Musicians. Questa particolare associazione
fu fondata da Abrams (che si guadagnò il soprannome di «Muhal», il primo),
dal trombettista– polistrumentista Phil Cohran, dal batterista Steve
McCall e dal pianista Jodie Christian. Dopo cinquant’anni l’A.A.C.M.
esiste ancora, è un organismo vivo che forma e genera musicisti,
animata non solo da «testimoni» di un’esperienza lontana ma da jazzisti di
generazioni recenti, aperta al continuo confronto con la realtà musicale
e socioculturale.
Lo spessore
storico-estetico– sociale dell’A.A.C.M. è stato, in effetti, recentemente
testimoniato dall’album Made in Chicago a nome di Jack DeJohnette
(Ecm/Ducale, 2015) che vede protagonisti Muhal Richard Abrams, i polistrumentisti
Roscoe Mitchell e Henry Threadgill nonché il contrabbassista Larry
Gray. Nell’Italia jazzistico/concertistica, spesso provinciale, la vivacità
della scena di Chicago e della sua associazione «storica» sono stati
apprezzati nell’edizione estiva 2009 di «Umbria Jazz». Uno dei maggiori esponenti
dell’A.A.C.M., il trombonista e compositore George Lewis — figura
poliedrica di artista vincitore del prestigioso premio McArthur nonché
docente alla Columbia University — fu intervistato da Enzo Capua per la
rivista Musica Jazz: da lì nacque l’idea di commissionare a Lewis un
progetto per «Umbria Jazz» e il trombonista coinvolse l’intera associazione.
Portò così a Perugia un originale ensemble intergenerazionale di
venti musicisti, affidando a vari compositori i sei concerti
in programma. Suonarono, tra gli altri, il veterano sassofonista Ernest
Dawkins, il giovane vocalist Saalik Zyiad, l’eccezionale polistrumentista
Douglas Ewart, i sassofonisti Edward House e Mwata Bowden, lo
stesso — strepitoso — Lewis, la violinista Renée Baker, la fascinosa cantante
Dee Alexander (a «Umbria Jazz Winter» 2010 e 2011 con il suo Evolution Ensemble), la violoncellista Tomeka Reid e la flautista-compositrice
Nicole Mitchell (tra l’altro presidentessa dell’A.A.C.M.
Quella che viene in modo
semplicistico definita come la «scuola di Chicago», identificata
tout-court con l’Art Ensemble of Chicago (con Lester Bowie, Roscoe Mitchell,
Joseph Jarman, Malachi Favors e, in seguito, Don Moye) e assimilata
senza troppi distinguo al free necessita, invece, di essere osservata più da
vicino. Intanto il contesto storico della nascita dell’A.A.C.M. Esso vede
musicalmente moltiplicarsi i centri produttori del jazz (contro
la «supremazia newyorkese») ed è fortemente legato all’effervescente
situazione della seconda metà degli anni Sessanta con la maturazione di
movimenti e partiti radicali, alla situazione critica ed esplosiva
di molti ghetti neri, ai primi effetti di una legislazione più egualitaria,
strappata dagli afroamericani dopo la lunga stagione della lotta per
i diritti civili. In questo senso l’A.A.C.M. fa parte di una serie di
realtà socio-sonore che vedono a Los Angeles la Pan Afrikan People Arkestra
del pianista Horace Tapscott, a Detroit l’Artists Workshop (1964),
a St. Louis il collettivo multimediale Bag, Black Artists Group
(1968), a New York il Jazzmobile (1964, attivo ad Harlem e diretto
dal pianista Billy Taylor) e il Collective of Black Artists che avrà
tra i suoi leader il contrabbassista Reggie Workman.
I jazzisti di Chicago,
e non solo, si pongono in un contesto sociale spesso degradato, intendono
reagire alla mancanza di scritture o al loro controllo da parte di
agenti e sindacati «bianchi», vogliono fornire strutture associativo/educative
e spazi di sperimentazione creativa. È bene ricordare che in quindici
anni (1950–1965) la «Windy City» era passata dal 14 al 28% dei neri, rispetto
alla popolazione globale. I quattro fondatori hanno le idee chiare,
preparano uno statuto articolato dando molto rilievo alle radici
storico-sonore, puntano sulla scuola di musica che verrà fondata nel 1967. Il
programmatico «creative», però, sottolinea l’apertura alle innovazioni
e alle sperimentazioni. Come afferma lo studioso e storico Claudio
Sessa (in un volume di prossima pubblicazione, seconda parte della sua trilogia
dedicata a Le età del jazz, Il Saggiatore; si ringrazia l’autore)
«nella disillusa realtà cittadina l’associazione raccoglie subito decine
di musicisti fra i quali emergono alcune delle figure centrali degli
anni successivi, in primo luogo molti sassofonisti: Roscoe Mitchell,
Anthony Braxton, Joseph Jarman, Henry Threadgill, John Stubblefield. Ma ci
sono anche i trombettisti Lester Bowie e Leo Smith, la tastierista
e cantante Amina Myers, i contrabbassisti Charles Clark (…)
e Malachi Favors, il violinista Leroy Jenkins, i batteristi
Thurman Barker e Philip Wilson. È un vivaio di talenti che si stimolano
l’un l’altro, dando vita ad una scuola cui guarda con lungimiranza
un’industria discografica locale che (…) ha ancora una buona visibilità».
Grazie, infatti, alle etichette
Delmark (ben radicata nel blues) e Nessa (coeva all’associazione) tra il
1966 e il ’69 una dozzina di album testimoniano la musica che fuoriesce
impetuosa dall’A.A.C.M. È doveroso subito dire che nei decenni successivi
saranno soprattutto le case discografiche indipendenti europee
a dare spazio al jazz di Chicago, dalla Black Lion alle italiane Black
Saint e Soul Note. Il coraggio e la lungimiranza del produttore
Giovanni Bonandrini in particolare darà, a partire dalla fine degli
anni Settanta, un significativo spazio discografico ai «creativi» chicagoani
e la CamJazz, che ha rilevato quelle etichetta, sta editando una serie
di cofanetti di ristampe di alto valore documentario (R. Abrams, L. Bowie,
G. Lewis, A. Braxton, H. Threadgill).
È ora di andare
a vedere i canoni estetico-musicali, i paradigmi, le tracce
sonore su cui l’A.A.C.M. — che in Europa, soprattutto a Parigi, avrà come
ambasciatori speciali l’Art Ensemble of Chicago e la Creative Construction
Company — si muoverà a livello di collettivi e singoli. Si sostituisce
il «primato della linea melodica» con «una lussureggiante ricchezza timbrica»
(C. Sessa). Molto sviluppato è l’interesse per un polistrumentismo
diffuso e radicale che sintetizza «l’interesse per le musiche
e le tecniche non occidentali, la ricerca su strumenti autocostruiti,
lo studio delle aree sonore più estreme e meno esplorate». Contro la
retorica del solista, i chicagoani propugnano una musica collettiva
dall’incessante scambio di ruoli, spesso con una componente
teatrale-epifanica (legata all’esperienza dell’Arkestra di Sun Ra). Nei brani
si assiste spesso ad un repentino concatenarsi di ambiti musicali diversi
che da una parte guarda all’antifonia del «call and response» e dall’altra
alla circolarità del «ring shout», entrambi archetipi sonori afroamericani
come li definirebbe il musicologo afroamericano Samuel Floyd Jr. (per
anni direttore dell’istituto chicagoano Black Music Research). È, in effetti,
il rapporto con il passato e le radici che è basilare nei jazzisti
dell’A.A.C.M.: in primo luogo guardano a tutta la musica nera secondo una
definizione di «Great Black Music»; in secondo la utilizzano non in maniera
museificante ma secondo una logica ben sintetizzata dallo slogan «Ancient
to the Future». «Laici» nella propria formazione e nei riferimenti
culturali, però, i chicagoani si interessano anche alla musica contemporanea
europea, a jazzisti bianchi (Paul Desmond è un modello essenziale
per Anthony Braxton), all’elettronica e non hanno il «feticcio» dello
swing, pur conservando un profondo senso del blues unito a un sostanziale
disinteresse per la forma canzone. Nei loro brani, come precisa con rara
efficacia ancora Claudio Sessa, «il rapido succedersi di immagini sonore
diverse, anche fra loro irriducibili, è l’esatto opposto del ‘pastiche’
nel quale ogni elemento successivo annulla il precedente, ma costituisce
un complesso intreccio di riferimenti che si potenziano nel messaggio di
fondo. E il legame con la tradizione è esaltato anche dalle esecuzioni
più radicali, che proiettano sull’ascoltatore un senso sacrale del prodotto musicale».
Proprio per questo
è importante non passare sotto silenzio il cinquantenario dalla fondazione
della A.A.C.M. Oggi molti dimenticano che il jazz è frutto di una storia
complessa e lo riducono a formule stilizzate da imitare, spesso
fermandosi agli anni Cinquanta dell’hard bop o verniciando di glamour
una musica trasformata — contro la sua vera vicenda — in una ricca «tappezzeria
sonora» o in un «fossile musicale». Non è così e la lezione di
Chicago è ancora viva e vitale, mentre la situazione socio-economica
attuale degli afroamericani — nonostante Barak Obama — sembra essere paurosamente
arretrata rispetto agli anni Sessanta.
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