Le valutazioni temporali sui social network sono sempre riferiti al presente, al momento,
al carpe diem . Oggi come non mai, quando si assiste ad un concerto, o a un
evento, si è vigili e pronti a documentare
la propria partecipazione,
immortalandola o riprendendola con il cellulare, per poi postarla sui social e
poter dire : “Io c’ero”, magari
tralasciando di godersi appieno la
carica emotiva che il concerto medesimo sta trasmettendo. Lo confesso, è
capitato pure a me, anche se ho usato le riprese di alcune esibizioni solo per imitare, indegnamente,
esimi critici musicali e redigere la
cronaca dei concerti sul blog Aut.
E’sorprendente però scovare sul
web, in particolare su You Tube, un concerto e poter dire: “Io c’ero” anche se il video è del 1983. L’Altra
sera, smanettando sul web in cerca di
qualche chicca interessante inerente alla mia musica preferita , mi imbatto in un filmato
della Rai, in cui viene trasmesso il brano ,“Lotus Flower” registrato durante il concerto del quintetto
del trombettista Woody Shaw, tenutosi al leggendario Music Inn di Roma nel
1983. Cavolo!!!! Io c’ero anche se non mi si vede, c’ero insieme al mio amico Mauro, compagno di liceo, fede politica, e
calcistica.
Ma andiamo con ordine. Avevo
ascoltato per la prima volta Woody Shaw nel
mitico negozio di dischi jazz Millerecords, quando ancora stava in via dei
Mille vicino alla Stazione Termini. Li dentro passavo molto tempo e li ho preso
ad appassionarmi alla musica afroamericana . L’occasione di assistere ad un set dello straordinario trombettista della North Carolina mi
capitò nel 1981 durante la rassegna Pescara Jazz. Il cartellone di quel festival
era eccellente: Massimo Urbani quartet , Woody Shaw
quintet e Stan Getz sextet, la prima sera;
Art Pepper quartet , Dizzy
Gillespie all stars, la sera successiva; per finire con l’ultimo appuntamento in
cui si sarebbero esibiti il quartetto di Claudio Fasoli, Larry Corryell e la Count Basie Alumni Big Band.
Quell'estate ero ospite di un
altro mio amico di Frosinone, Pierfrancesco.
Ogni estate la sua famiglia
affittava una casa al mare a Silvi Marina, un posto ad un tiro di schioppo
dal Parco Le Naiadi di Montesilvano, arena dove si tenevano i concerti.
Già
Mauro, Pierfrancesco…. non erano propriamente appassionati di jazz, anche se
presumo gli piacesse, per cui li ringrazio ancora oggi per avere condiviso con me il fuoco di una
passione che magari per loro non era così fiammeggiante. Del
resto i veri amici si distinguono anche per la loro voglia di condividere con
te alcuni momenti della propria vita
anche se la cosa può provocargli noia.
Ma torniamo ai concerti. La prima sera, dopo il set di
Massimo Urbani, insieme agli amici di sempre, Enrico Pieranunzi al piano,
Roberto Gatto alla batteria, Enzo Pietropaoli al contrabbasso, arrivò il
momento del quintetto di Woody Shaw. Quando i ragazzi di Woody , Steve Turre al
trombone, Mulgrew Miller al pianoforte, Tony Reedus alla batteria e Stafford
James al contrabbasso, salirono sul palco si scatenò l’inferno. Un acquazzone, con tanto
di tuoni e fulmini, investì l’arena.
Noi
rimanemmo indefessi sotto la pioggia, ma dopo le prime battute del concerto,
saltò la corrente, il quintetto provò a continuare anche senza amplificazione,
ma il tentativo fallì. Dopo un paio d’ore
di pioggia, e di silenzio, l’organizzazione del festival fece trasferire tutti i reduci presso lo
stadio Adriatico di Pescara, sotto le tribune coperte. Erano le due di notte e
si riprese da Stan Getz. Il concerto di Woody era saltato. Il sassofonista, eroe del cool jazz bianco, andò avanti per due ore incurante del fatto che si fossero fatte la 4 di mattina,
ammiccando, fra l’altro, per cercare di
ottenere la richiesta del bis, come si usa ne concerti jazz, ma alle quattro del mattino,
immagino che se qualcuno degli spettatori si fosse azzardato ad invocare il
bis, sarebbe stato preso a selciate dagli astanti.
Il quintetto di Woody Shaw,
a giudicare dalle prime note ascoltate sotto la pioggia, prometteva faville. I giovani Mulgrew Miller al piano,
Steve Turre al trombone e Tony Reedus alla batteria, furono, insieme
all’altosassofonista Kenny Garrett degli Out of the Blue e al trombettista Terence Blanchard, stella
dei Jazz Messengers dell’inossidabile Art Blakey, le nuove talentuose leve emerse in
quell’inizio di anni ’80. Rimasi dunque deluso per non aver potuto assistere al
concerto. Un paio di dischi acquistati dopo quell’estate, fra cui “Lotus
Flower” rafforzarono in me l’idea che alla prima occasione, per nulla al mondo
avrei dovuto perdermi quel quintetto guidato da un funambolo della tromba, oggi apprezzato dai migliori jazzisti,
Fabrizio Bosso ne è devoto debitore.
L’occasione
capitò due anni dopo a Roma. Woody era di scena al Music Inn. Fui invitato da Mauro a cena nel suo piccolo appartamento a Trastevere. Dopo aver
gustato degli ottimi tortellini e scolato una bottiglia di lambrusco, chiesi al
mio amico di accompagnarmi al Music Inn. Non passò molto che ci trovammo nel locale di
Picchi Pignatelli.
I ragazzi erano in una stanzetta vicino al piccolo palco. Mulgrew
Miller, stava scaldando le grandi mani per poter esprimere tutta la sua
straordinaria abilità al pianoforte, Steve Turre stava sistemando una scatola
di piccole percussioni vicino ai suoi due tromboni. Woody era intento a soffiare nel bocchino del suo strumento
. Tony Reedus, picchiettava con le
bacchette, paradiddle sul cuscino del divano,
mi confessò che avrebbe voluto imparare
a suonare la tromba, tanto che provò a rubarla, per un attimo a Woody cercando
di biascicare qualche nota.
Mauro mi guardava perplesso, io mi sentivo
veramente in paradiso fra quei
musicisti. Fu un bel momento
dividere con loro gli attimi subito
precedenti il concerto . Il set, inutile dirlo, fu straordinario. Il quintetto dalla ritmica
potente, su cui si saldavano scorribande solistiche fatte di arpeggi, scale straordinarie, soluzioni armoniche ad alto livello creativo, offrì una mirabile dimostrazione di quante emozioni possano
regalare cinque musicisti ispirati come erano quella sera Woody, Steve, Mulgrew, Tony
e Stafford.
Anche Mauro mostrò di gradire molto l’esibizione.
Ma la sua ironia non risparmiò nè me, nè gli altri appassionati che stavano
assistendo rapiti. Inevitabilmente certi atteggiamenti di noi scemi per il jazz
si prestano ad una sacrosanta presa in giro.
Mauro si mostrò entusiasta dell’esibizione del trombonista, Steve Turre,
ribattezzato ironicamente Kublai Khan per il suo look, ma non sopportava il
suono del trombone grosso (trombone basso) quando Kublai Khan ne copriva la campana con il tira busciò o stura
lavandini (sempre definizione di Mauro) , evidente il riferimento al sordina wah wah. Fra una frizzo e un
lazzo siamo giunti alla fine di questo racconto e allora invito tutti i lettori
a vivere insieme a me un momento di quello straordinario concerto del 1983 dove
“Io c’ero”.
Good Vibrations
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