Come era prevedibile, la realtà torna a rivendicare i
propri diritti e lo fa con lo spettro di procedure di infrazione pronte ad
abbattersi sull’Italia per le sue questioni strutturali irrisolte. Sembrano
tornati i tempi poco rassicuranti della finanza creatrice di Tremonti. E anche
il Corriere
della Sera, sinora soldato fedele del renzismo,
comincia a storcere il naso dinanzi alle prove di un esecutivo che ogni giorno
perde credibilità in Europa e deve inventare miracoli per rinviare le assai
costose clausole di salvaguardia.
Il governo della narrazione aveva costruito un mondo
di pure chiacchiere. Ma l’immensa fabbrica della falsificazione cognitiva a
nulla è servita. Due anni perduti, anzi dannosi. La crescita non c’è, le stime
già pessimistiche di ripresa vengono riviste in negativo. E i vantaggi
congiunturali irripetibili (costo del petrolio, elevata circolazione della
moneta, euro indebolito rispetto al dollaro) sono sfumati, senza alcuna
capacità di approfittarne.
I poteri forti cominciano a tremare dinanzi alla
prospettiva di una crisi pronta a esplodere senza controllo. Il sistema
bancario vacilla. I fondamentali dell’economia sono tutti in sofferenza. La
produzione industriale in Europa in questi anni è crollata del 31 per cento
rispetto alla fase precedente la grande crisi. Mentre però la irraggiungibile
Germania ha recuperato il 27,8 per cento della sua ricchezza (la Gran Bretagna
il 5,4, la Francia l’8 e anche la malandata Spagna il 7,5), l’Italia accumula
ulteriore ritardo risalendo di appena 3 punti dalla recessione. Il governo che
ha sposato il programma della Confindustria non serve per la ripresa, anzi è un
fattore di disturbo.
Solo un illusionista poteva pensare di governare la
più grave crisi economica e sociale degli ultimi ottant’anni con un personale
politico inesperto, selezionato nel magico triangolo dell’Etruria. Il trasloco
da Rignano a Palazzo Chigi, dall’amministrazione cittadina al governo di un
grande paese d’occidente, si rivela sempre più un viaggio della speranza, cioè
un fattore di impedimento alla ripresa. Non si può governare con efficacia una
grande crisi dimenticando il linguaggio della verità.
E, invece di prendere i fatti per quelli che sono,
Renzi continua ad occultare le difficoltà, a imboccare vie di fuga poco
redditizie. Adesso gioca la carta disperata dello scontro con l’Europa
matrigna. Si fa paladino dell’interesse nazionale e dichiara di voler spezzare
le reni alla teutonica cancelliera se rifiuta di concedere ancora flessibilità,
ovvero possibilità di nuovo debito (ha previsto 17,9 miliardi in deficit). Con
queste pratiche donchisciottesche, concepite per avere spiccioli da destinare
alla conquista clientelare di voti, l’Italia diventa sempre più vulnerabile
dinanzi a speculazioni e agguati di potenze pronte ad infilzare la spada nelle sue
croniche debolezze.
Quello di Renzi è l’unico governo che usa il deficit,
e le eterne scorciatoie del debito pubblico, per finanziare i ricchi. In due
anni di governo la tassazione è scesa di 19,4 miliardi. Ma tutto a favore di
imprese (13,1 miliardi per azzeramento Irap sul costo del lavoro e sugli
incentivi per le assunzioni, decontribuzioni, Imu su terreni agricoli), banche
(600 milioni), proprietari di immobili (3,7 miliardi). Si vanta di aver
incrementato dello 0,9 l’occupazione giovanile. Ma, in una già solida Germania,
il miglioramento è stato del 2,7 per cento, in Gran Bretagna del 4,2 e persino
in Spagna di1,9 punti.
Il governo dei “senza retroterra” ha dilapidato i
sacrifici fatti in questi duri anni di austerità e tagli, incollando il debito
pubblico al 133 per cento. Il populismo di governo si rivela un disastro. Renzi
ha bloccato i rinnovi contrattuali perché intendeva essere solo lui il
benefattore che dal palazzo regalava 80 euro tolti dalle entrate statali e
quindi dai servizi pubblici. Ha dirottato i soldi europei destinati al Sud per
coprire i miliardi regalati alle imprese del Nord con la misura delle
decontribuzioni dorate.
Disorientato, combatte contro la dura realtà che lo
incalza inesorabile e dice che solo con lui è finito il tempo dei capi di
governo italiani che si recavano a Bruxelles con il cappello in mano e pronti
solo a ricevere comandi. Forse è vero, non serve il cappello dell’elemosina da
esibire ad ordine eseguito, anche perché, dopo lo scalpo del sindacato e il
commissariamento del regime parlamentare non rimane altro da sbandierare per
ottenere liquidità per la compravendita del consenso. Il cappello però sarà
sempre più utile alle èlite italiane per coprirsi il volto dopo la caduta
drammatica di autorevolezza che certe uscite del giglio magico producono.
Come già accaduto a Firenze, in occasione di un
incontro di Renzi con una delegazione araba, anche nei Musei Capitolini
l’ordine di Palazzo Chigi è stato di oscurare le nudità delle statue alla vista
dell’ospite islamico, trattato come un primitivo in fatto di estetica. In un
tempo di dramma, all’Italia è toccato in sorte un ceto di governo esperto solo
nella commedia che, per coprire il regalino di 500 euro ai diciottenni,
precipita in una grottesca dichiarazione di guerra alla vecchia Europa dei
burocrati dello zero virgola. E tutti a dire che a questa scomposta recita a
soggetto non ci sono alternative.
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