Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

venerdì 22 luglio 2011

Egitto: una rivoluzione in corso

di Gloria Ferreira e Clara Saraiva, dall'Egitto

Tra il 3 e il 6 giugno, una delegazione di brasiliani ha partecipato in Egitto alla Conferenza di Solidarietà alla Rivoluzione Araba. Facevano parte della delegazione Dirceu Travesso, in rappresentanza della Csp Conlutas, Clara Saraiva, della Anel (Associazione Nazionale degli Studenti – Libera), e Gloria Ferreira, del Pstu. Questo testo costituisce un’informativa delle compagne Gloria e Clara sulla situazione in Egitto.
I venti della rivoluzione soffiano ancora sul Cairo Le conversazioni con i lavoratori e gli attivisti hanno messo in chiaro che i venti della rivoluzione soffiano ancora in Egitto. Il processo che è iniziato il 25 gennaio continua a porre in ogni momento l’alternativa fra rivoluzione e controrivoluzione.
La città respira rivoluzione. Il Cairo ha 7,9 milioni di abitanti e 2 milioni stavano in piazza Tahrir durante lo svolgersi dei grandi eventi di febbraio. Guardando i numeri è facile da capire: la consapevolezza che la rivoluzione è stata fatta dalla forza di milioni di persone nelle strade è ampiamente condivisa. Il tassista, il portiere, l’operaio, lo studente, la giovane disoccupata... tutti sono stati in piazza, hanno visto il potere delle masse in movimento, sanno che dopo il 25 di gennaio, il Paese non è più lo stesso. Se si domanda cosa sia cambiato dopo la caduta di Mubarak, Ahmed, un giovane tassista, ha risposto categoricamente: “Tutto”.



I giovani in prima linea In quei giorni ricorreva il primo anniversario del giorno in cui Khaled Said, un giovane della classe media, è stato arrestato, torturato e ucciso dalla polizia nella dittatura di Mubarak. Tutti sono stati molto colpiti da questa terribile ingiustizia, pensando che la stessa sorte sarebbe potuta toccare a uno di loro o al proprio figlio. L’evento si è trasformato in un grande simbolo della lotta e, nel 2010, in migliaia sono scesi in piazza con la sua foto: “Siamo tutti Khaled Said!”.
Abbiamo parlato con molti giovani in questo viaggio, i protagonisti della Rivoluzione. Quasi tutti erano già stati detenuti o avevano da raccontare una qualche storia della repressione subita nell’epoca Mubarak. Molti hanno anche un amico che è stato ucciso. Quando siamo entrati l’Università americana del Cairo, c’era un’esposizione di fotografie di studenti uccisi durante la Rivoluzione.
Siamo riusciti ad avere un incontro con i rappresentanti del Movimento 6 aprile che, sebbene non abbia un programma socialista e una chiara strategia del potere, ha avuto un ruolo centrale nella Rivoluzione. Sono giovani che, nel 2006, si sono organizzati a partire da uno sciopero dei lavoratori di Mahalla, nel nord dell’Egitto, quando i lavoratori hanno occupato le fabbriche. Questi giovani, molti dei quali studenti, si sono identificati nella lotta dei lavoratori, di cui hanno percepito l’importanza per tener testa alla dittatura. Hanno cominciato ad avere una maggiore proiezione nel 2007, con un grande ascolto conquistato attraverso internet.

La Rivoluzione Ci hanno fornito il più bel racconto della Rivoluzione: “Dopo l’ascesa del movimento in Tunisia che ha rovesciato Ben Alì, combinata con l’enorme ripudio (un vero e proprio odio) della popolazione verso la polizia di Mubarak, spuntò l’alba del 25 gennaio. A partire da queste due condizioni, una riunione del Sindacato degli ingegneri organizzò una manifestazione per quello stesso giorno, tradizionalmente una giornata di commemorazione istituzionale della polizia egiziana. Quando abbiamo fatto quell’appello, però, non avevamo idea di come questa data avrebbe fatto storia. La manifestazione fu un successo e, in diversi punti della città, si riunirono migliaia e migliaia di lavoratori e giovani che poco a poco si univano. Le persone in marcia cantavano: ‘Venite, venite, unite a noi le vostre famiglie’. Nel frattempo, la polizia aveva una risposta sempre più violenta contro i manifestanti e i semplici spettatori. Ma ciò provocava l’effetto opposto: sempre più persone in piazza. Giungevano notizie da altre città d’Egitto, dove pure si occupavano le piazze e le strade, e ciò aumentava la fiducia di resistere. ‘Ok, abbiamo una rivoluzione. Che dovremmo fare?’, pensavamo. Mezzo milione di persone occupava la piazza, e continuavano ad arrivarne altre, come parte di un unico movimento nazionale, sempre più convinto che si sarebbe fermato con la caduta di Mubarak”.
Non c’era altra conclusione da trarre: si trovavano di fronte a una rivoluzione.
La repressione si intensificò di parecchio. Vennero arrestate migliaia di dimostranti e alcuni furono uccisi. Ma ciò produsse solo più abnegazione e disponibilità alla lotta fino alla fine. Contemporaneamente, cresceva il sentimento di uguaglianza tra i presenti. Uomini e donne, musulmani e cristiani, giovani e vecchi, tutti insieme erano uguali e rivoluzionari.
È iniziata l’autorganizzazione delle masse. Si sono formate commissioni per garantire la sicurezza, l’alimentazione e la pulizia. In milioni, in un’armonia inspiegabile, vivevano in quel momento ciò che cercavano di costruire per il futuro del loro Paese. “La piazza era il luogo più perfetto del mondo in quel momento”, ci dice uno dei dirigenti.
Mubarak cercava di demoralizzarli dicendo che era un movimento isolato in Piazza Tahrir e che si riduceva ai giovani. Lanciava minacce terribili, bloccando internet in tutto il Paese per evitare la comunicazione attraverso i social network. In uno degli incontri, ci hanno detto che è stato in questo momento che discussero della necessità di allargare agli operai la rivoluzione. E che questo è risultato decisivo. I tentativi di Mubarak di isolare la rivoluzione in Piazza Tahrir non hanno funzionato: lavoratori di fabbriche e imprese sono scesi in sciopero, come fu reso evidente nei tre giorni di chiusura del Canale di Suez, così importante economicamente per l’imperialismo. La rivoluzione si rafforzò fino a che, l’11 febbraio 2011, Mubarak è caduto.
I nuovi compitiUn giovane attivista ci chiede dell’esperienza brasiliana ponendo il problema: “Abbiamo tutti meno di 30 anni, nessuno ha mai militato prima della dittatura di Mubarak. Non sappiamo cosa significhi militare apertamente”.
Un ampio processo di riorganizzazione politica e sindacale è in corso. Scioperi si sono diffusi in tutto il Paese, nelle università c’è un diffuso processo di mobilitazione contro le direzioni e le amministrazioni locali, gli attivisti discutono la formazione di sindacati, associazioni studentesche indipendenti e partiti politici.
Tuttavia, anche dal punto di vista democratico ci sono ancora molti compiti in sospeso. L’esercito è alla guida del Paese, la stessa polizia è ancora nelle piazze, i funzionari del vecchio regime non sono stati puniti, le nuove regole richiedono che si raccolgono 160.000 dollari per creare un partito, ecc.
La disoccupazione, la miseria e la povertà continuano Alla domanda sulle condizioni di vita, quel tassista ci ha risposto: “Ah! Da questo punto di vista tutto continua allo stesso modo”. Le condizioni strutturali che hanno portato alla rivoluzione rimangono: la crisi economica, l’inflazione dei prezzi degli alimenti, la disoccupazione e la povertà.
Un attivista ha espresso bene l’ira della gente: “Hai capito? Un chilo di carne qui costa circa 15 dollari. Migliaia di egiziani non conoscono il sapore della carne”.
Il cambiamento nella vita della popolazione, nonché le conquiste democratiche, dipendono dalla rottura con l’imperialismo e si scontrano con i limiti del capitalismo nella regione. Dimostrando la sua totale subordinazione all’imperialismo, il governo militare ha recentemente firmato un accordo con l’Fmi, che prevede un prestito di tre miliardi di dollari. Presumibilmente un “aiuto” per “garantire la transizione verso la democrazia e la libertà”.
Infatti, esso verrà elargito a condizione che il nuovo governo mantenga l’Egitto entro le regole neoliberali e in linea con la ricetta del Fmi, con misure come privatizzazioni, aperture agli investimenti stranieri e libera circolazione dei capitali.
I giovani continuano a lottare contro il governo autoritario
Dal 25 gennaio, i venerdì sono diventati una giornata di proteste: la piazza, interessata da manifestazioni più o meno grandi, non è mai rimasta vuota, occupata da giovani lavoratori, disoccupati, molti appena laureatisi all’università, senza nessuna prospettiva per il futuro. Il governo della giunta militare cerca di controllare e, se necessario, reprimere il loro movimento. Ma si scontra con una generazione di attivisti che si è formata in questa rivoluzione. Il governo ha represso una marcia a sostegno dei palestinesi diretta verso la frontiera con Gaza nella data della commemorazione della Nakba.
L’esercito, l’istituzione più forte del nuovo regime ha continuato a commettere ogni tipo di abuso ed è stato coinvolto in uno scandalo recente. Un ufficiale militare ha sostenuto di aver fatto un “test di verginità” alle attiviste arrestate durante le proteste in piazza Tahrir, per avere la garanzia che in seguito non vi fossero accuse di stupro. Un’autentica aggressione alle donne, che ha profondamente turbato la popolazione.
I giovani hanno fatto molti passi avanti nella loro organizzazione, anche nei quartieri e insieme ai lavoratori. Nelle università stanno realizzando, per la prima volta nella storia dell’Egitto, libere elezioni nei sindacati degli insegnanti e degli impiegati. Per parte nostra, percepiamo la loro forte sfiducia nei confronti dell’attuale regime, retto dai militari.
Pochi giorni fa, un giornale ha pubblicato un articolo secondo cui c’era la possibilità di liberare Mubarak senza processo. C’è stata una forte reazione dalla popolazione, che si è indignata per quest’eventualità, sicché il governo ha rilasciato una dichiarazione attribuendo la responsabilità solo al quotidiano e precisando che da, quel momento, per la pubblicazione di ogni articolo sarebbe stata necessaria la preventiva autorizzazione. C’è ancora paura della forza delle masse e, soprattutto, l’abnegazione e la radicalità dei giovani egiziani.
La contraddizione: le masse hanno ancora fiducia nel governo della giunta militare La grande contraddizione è che la maggior parte della popolazione nutre illusioni nell’attuale governo. Il Consiglio Superiore delle Forze Armate (Hcaf) si proclama parte della rivoluzione del 25 gennaio quando, in realtà, fa parte della controrivoluzione. Ha sostenuto il regime fino all’ultimo istante cambiando atteggiamento solo di fronte all’intransigenza delle masse, quando era indispensabile cambiare per mantenere l’ordine sociale. Ma ciò non è stato chiaro a tutti: le forze armate godono di grande prestigio nel Paese. Inoltre, quantunque la rivoluzione abbia fatto vivere loro una crisi, hanno attraversato il processo senza dividersi, perché sebbene siano state conniventi autorizzando la repressione da parte della polizia, le loro truppe non furono in essa direttamente implicate.
È stata la polizia ad attaccare apertamente sparando contro i manifestanti, motivo per cui si è inimicata le folle, ha dovuto lasciare la piazza ed è stato formalmente disciolta dopo la caduta di Mubarak, benché i suoi quadri siano stati trasferiti ad altri compiti e continuano a far parte della schema repressivo.
Perciò la situazione del Paese è complessa: c’è enorme confusione nella coscienza dei lavoratori circa l’attuale governo guidato dalle forze armate, e forti dubbi sul futuro. Ma secondo i giovani con cui abbiamo parlato, la gente ha la chiara consapevolezza che la rivoluzione è stata fatta dagli operai e dal popolo, e non dai militari, benché si aspetti che l’esercito gestisca la transizione verso la democrazia e il cambiamento nel Paese.
Il recente referendum sulle riforme costituzionali proposte dal governo era un modo per incanalare la rivoluzione verso piccoli cambiamenti costituzionali che dessero l’illusione che c’è un reale cambiamento nella vita delle persone. Il Movimento 6 Aprile ha sostenuto le ragioni del NO. Ci hanno detto che la stragrande maggioranza dei giovani ha votato NO, soprattutto al Cairo. Le regioni interne, che sono state meno raggiunte dalla Rivoluzione e sono più sensibili alla propaganda ideologica dell’esercito, hanno consentito che il SI raggiungesse il 77%.
“Rivoluzione in Egitto: Sì o No?” Nei giovani che hanno partecipato alle manifestazioni, l’esperienza è più avanzata: per esempio, abbiamo conosciuto un giovane che ha scritto su un muro di fronte a piazza Tahrir, “Rivoluzione in Egitto: Sì o No?”.
Quando gliene abbiamo chiesto il significato, ha parlato dell’indignazione verso le piaghe sociali del Paese ed il governo militare. Voleva con ciò dire che la rivoluzione in Egitto non era giunta al termine, che non si poteva festeggiare un risultato del genere e che le parole d’ordine agitate a piazza Tahrir non erano ancora state realizzate. Ha criticato pesantemente l’attuale governo, dicendo che le condizioni di vita della popolazione non erano cambiate. Ha lamentato il fatto che le manifestazioni non continuassero con la stessa forza, ma ha mostrato di sperare che esse portino ancora avanti le rivendicazioni socio-economiche, così come quelle democratiche. Era un architetto neolaureato, disoccupato. Era il volto della Rivoluzione. La critica al governo è stata un tema ricorrente nelle conversazioni con i giovani: è possibile dire che i giovani guardino con più diffidenza al Consiglio superiore delle Forze Armate.
L’avanguardia giovane della rivoluzione non si sente rappresentata dalle figure che dirigono il Paese. Venerdì 27 maggio, diverse organizzazioni giovanili, con alla testa il Movimento 6 Aprile, hanno convocato una giornata di manifestazioni. Si sono mobilitate circa 500.000 persone nella più grande protesta dalla rivoluzione. La principale rivendicazione era il processo a Mubarak e l’insediamento immediato di un governo civile.
È stata una grande mobilitazione, nonostante il boicottaggio da parte dei Fratelli Musulmani, che, coerenti con il loro ruolo di principale sostegno politico del governo e del Consiglio delle Forze Armate, si è espresso contro le proteste.
La manifestazione ha messo in chiaro che il processo rivoluzionario continua e, nonostante le loro direzioni tradizionali, i lavoratori stanno cercando il cammino e costruendo le loro organizzazioni indipendenti. Il governo delle forze armate tenta di trovare il modo per ostacolarli. I lavoratori ei giovani egiziani, intanto, sono consapevoli del profondo cambiamento che si è prodotto: Mubarak è caduto. Le masse sono entrate in scena e si sono imposte con una forza impressionante. Quando i lavoratori ei giovani si uniscono e si pongono il compito di cambiare le loro vite non c’è forza che possa fermarli.
“Gheddafi e Assad sono dittatori” Fra gli attivisti egiziani non c’è dubbio che la rivoluzione iniziata il 25 gennaio è stata possibile solo grazie alla vittoria in Tunisia, con il rovesciamento di Ben Alì. La consapevolezza che le manifestazioni in tutti i Paesi (Egitto, Siria, Libia, Yemen, ecc.) sono parte di un unico processo rivoluzionario in tutto il mondo arabo è indiscutibile.
Inoltre, c’è una chiara identificazione tra il popolo arabo e la sua cultura. Questa identificazione ha un aspetto politico fondamentale che si concreta nel ripudio dello Stato di Israele. Soprattutto tra gli attivisti, e anche in un settore più ampio della popolazione, c’è un enorme rifiuto dello Stato di Israele e del ruolo nefasto che esso svolge per i palestinesi. Sanno che si tratta di uno Stato completamente controllato e finanziato dall’imperialismo e, perciò, le rivoluzioni hanno necessariamente un significato anti israeliano e contro il genocidio dei palestinesi.
Pertanto, la questione della Palestina, combinata con la consapevolezza che tutte le mobilitazioni sono parte di uno stesso processo, mette in chiaro che il ruolo di Gheddafi e Assad in Libia e Siria è lo stesso degli altri dittatori del mondo arabo. In tutti gli incontri che abbiamo avuto in Egitto, gli attivisti mostravano grande consapevolezza che, per costruire e rafforzare la rivoluzione araba, la lotta deve essere rivolta contro questi dittatori e l’imperialismo.
“Chávez non è dalla nostra parte” In questo quadro, gli attivisti ripudiano profondamente la posizione di Chávez e Castro. Benché le rivoluzioni dell’America Latina costituiscano per loro un punto di riferimento, l’impressione che abbiamo avuto parlando con loro è che la posizione di sostegno a Gheddafi e Assad ha rappresentato un vero e proprio spartiacque, sicché oggi non nutrono speranze in questi governanti che non sono il loro riferimento.
In un incontro, stavamo spiegando il processo che vive attualmente l’America Latina quando abbiamo chiesto a un compagno di illustrarci la sua posizione su Chávez. Ci ha risposto: “Sta con Gheddafi, non dalla nostra parte”. Crediamo che questa sia la posizione maggioritaria fra i militanti di sinistra in Egitto.
Oltre al ripudio di questi dittatori, non accettano neanche l’intervento militare imperialista, poiché non si sbagliano: l’interesse è rappresentato dalle risorse naturali e dalla sottomissione di quel Paese. A partire da questa discussione, è stato molto semplice spiegare che questi governanti oggi non svolgono alcun ruolo nella direzione del miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori; al contrario, stanno pure dalla parte dell’imperialismo.
Un’impressione che abbiamo avuto è che un settore un po’ più ampio che ha partecipato alla rivoluzione tenda ad accettare l’intervento dell’imperialismo, dicendo: “I libici vengono assassinati dalle truppe di Gheddafi, bisogna sostenerli”. Tuttavia, questa posizione non è accompagnata da un sentimento di fiducia politica nell’imperialismo. Al contrario, per il rapporto con lo Stato d’Israele, questi attivisti conoscono i loro veri interessi, ma tendono a sostenere l’intervento militare perché temono ciò che potrebbe accadere al popolo libico. Sottovalutano quanto l’intervento imperialista possa essere dannoso per gli interessi della rivoluzione. Ma a nessuno in Egitto passa per la testa di sostenere Gheddafi. Perciò la posizione di Chávez e Castro non ha nessun ascolto nel Paese.

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