Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

martedì 19 luglio 2011

La prova generale della nuova piazza

Una gestione del tutto inadeguata di una
manifestazione inedita, spiega livio pepino

“Possiamo guardare a Genova da due punti di vista. Esaminare i fatti in sé -la cronaca, ciò che è accaduto- oppure possiamo dire che le giornate del luglio 2001 sono state quelle che io definisco ‘una prova generale’”. Livio Pepino, 66 anni, è stato presidente
 di Magistratura Democratica  (una delle componenti della Associazione nazionale magistrati), consigliere della Corte di Cassazione e membro del Consiglio superiore della
magistratura. Attualmente dirige la rivista Questione giustizia e le Edizioni Gruppo Abele.
Partiamo dai fatti.
“Il fatto in sé è una vicenda di una gravità con pochi precedenti nella storia del nostro Paese. Una manifestazione con 300mila partecipanti, alla fine della quale 560 persone vengono medicate o ricoverate. Se a queste aggiungiamo quelle che non sono andate in ospedale, per paura o altri motivi, ecco la misura di un’espressione di violenza fuori dall’ordinario. Non solo: nei soli tre giorni di iniziative, fino al pomeriggio del 22 luglio 2001, contiamo 253 arrestati in ‘flagranza’ di reato. Alla fine saranno emesse solo 49 misure cautelari. Si tratta quindi della maggiore smentita dell’operato della polizia nella storia della Repubblica. Il ‘blitz’ alla scuola Diaz ha portato poi a 93 arresti per associazione a delinquere. A questi è seguita una sola misura cautelare, peraltro non detentiva: per il resto scarcerazione totale. Ripeto: non esiste nella storia della Repubblica un caso analogo di smentita così significativa dell’operato delle forze di polizia. Questo insieme di fatti e questi numeri ci danno il segnale, anche a distanza di dieci anni, di un evento rilevante sotto almeno due profili. Il primo: c’è una manifestazione nell’ambito della quale ci sono momenti di violenza da parte di alcuni manifestanti. Una violenza che tuttavia -questo è stato raramente sottolineato non è stata maggiore che in altre manifestazioni che la nostra storia ha conosciuto. E va tenuto presente che a Genova essa è stata diretta esclusivamente nei confronti delle cose, mentre ad esempio negli anni 70 era spesso rivolta contro le persone. Non intendo con questo minimizzare l’accaduto, ma credo che in ogni analisi si debba partire dai fatti reali e non dalle suggestioni. Il secondo dato è che -lo dice la sentenza della Corte d’Appello nel troncone dei processi verso i manifestanti, che si è concluso con 24 condanne- una parte delle violenze di piazza è stata conseguenza di una gestione assolutamente inadeguata dell’ordine pubblico. Pensiamo al corteo delle ‘tute bianche’, assaltato dalle forze dell’ordine: gli imputati sono stati assolti perché è stata riconosciuta la legittima difesa. Ecco, si è trattato di un mix tra pezzi di manifestazione con
espressione di violenza e una gestione dell’ordine pubblico che definirei piuttosto
 impropria”. 






Ecco quindi Genova come “prova generale”.

“Dopo molti anni, il 20 luglio 2001 in ‘piazza’ c’è un morto, Carlo Giuliani. Non succedeva dal 12 maggio 1977, quando Giorgiana Masi venne uccisa a Roma, sul Ponte Garibaldi.
Dal dopoguerra al 1977, le manifestazioni in piazza avevano portato -sul versante dei manifestanti- 141 morti, cui bisogna aggiungere 14 morti tra le forze di polizia. Fino agli anni 70 dunque la gestione dell’ordine pubblico prevedeva lo scontro all’ordine del giorno, e diffuso. Poi si vive quasi un quarto di secolo in cui -con tutte le difficoltàl ’ordine pubblico è stato gestito in un modo che definirei più civile. Chi l’ha studiato parla di ‘gestione concordata della piazza’, ovvero della ricerca da entrambe le parti di una gestione che consentisse libertà per i manifestanti, senza che trasmodasse in forme di violenza. Una gestione faticosa, ma che ha funzionato, salvo alcuni casi sporadici -come a Torino il 4 aprile 1998-. Con Genova il meccanismo è saltato. Ecco perché lo considero una prova generale: si è aperto un capitolo nuovo. Gli atti lo dicono, i protagonisti lo confermano.
Si comincia con un tentativo di gestione concordata, che però nasce male: ci sono forzature eccessive, il clima è compromesso. Poi tutto salta: ci sono le cariche in via
Tolemaide, prevale lo scontro. A questo concorre certamente una frangia del movimento.
Uso il termine frangia perché è pacificamente una minoranza estrema, che però c’è. Poi però arriva la reazione inadeguata e sproporzionata della polizia. Inadeguata perché  anziché cercare di neutralizzare le frange più violente- si rivolge contro l’intero movimento,
l’intero corteo. Questo è stato il mix che ha determinato la situazione. Che poi è esplosa.
Ma non è stato un imprevisto o un ‘imprevedibile’. Se un evento viene preparato in termini così potenzialmente conflittuali -la zona rossa, le stazioni chiuse-, tutte le parti arrivano con una forte carica di tensione, e quindi l’esplosione non può non essere messa in conto. La piazza a quel punto è solo il momento finale di un processo. Tutto questo, se lo si accompagna a fatti sintomatici -la presenza in loco di alcuni politici di primo piano e dei vertici della Polizia rende difficile dire che è stato il nervosismo di qualcuno a generare tutta la situazione. Perché se spiegassimo l’accaduto dicendo che la situazione è semplicemente ‘scappata di mano’, allora ci troveremmo di fronte a un problema di incapacità totale. Le vicende della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, poi, si spiegano come un maldestro e irresponsabile tentativo da parte della polizia di recuperare credibilità in una situazione in cui hanno fatto una brutta figura a livello internazionale. Si voleva dimostrare che almeno una parte dei responsabili delle violenze di piazza erano stati arrestati e isolati e si voleva dar loro una ‘lezione’. Una sorta di rivincita insomma. La realtà è che si è trattato di violenze inaudite, soprattutto a Bolzaneto, addirittura a freddo”.




A Genova si stava aprendo una nuova fase?
“All’inizio del millennio si inizia a cogliere che le cose sono cambiate. Gli interlocutori della polizia erano sempre state le grandi organizzazioni -i sindacati, i partiti, le associazioni studentesche-, a Genova invece si percepisce l’eterogeneità dei manifestanti, il che rende la manifestazione molto meno controllabile. A questa ‘prova generale’ seguono due dati. Il primo, positivo, è che per una maturità del movimento da un lato, per il controllo che è venuto fuori a livello internazionale dall’altro, salvo momenti isolati la strategia genovese è stata, almeno momentaneamente, battuta. Penso ad esempio a Firenze (il Social Forum europeo de novembre 2002, ndr), dove non c’è stato nessuno scontro. Un’evoluzione da cui non si è tornati indietro. Il secondo, negativo, è che la catena di comando preposta a Genova è rimasta totalmente al suo posto, addirittura con la promozione di molti dei suoi
responsabili. Non c’è stata alcuna presa di distanza della politica dalla strategia adottata
a Genova in quei giorni. Il capo della polizia è rimasto al suo posto, poi è diventato dirigente di primo piano dei servizi, addirittura dopo essere stato condannato in appello per falsa testimonianza in relazione a quei fatti. Vuol dire che attorno a lui maggioranza e opposizione hanno fatto quadrato. Non è sempre stato così: per esempio, in una situazione diversa ma drammatica, nell’agosto 1985, a Palermo Salvatore Marino muore in questura. Immediatamente il ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro si reca in Sicilia e ‘decapita’ i vertici della questura; un mese dopo salterà anche il questore. Non fu un giudizio di colpevolezza penale, ma un giudizio di responsabilità politica. Se in piazza succedono cose che non devono accadere, ci sono dei responsabili precisi, che devono risponderne politicamente prima ancora che penalmente. L’accertamento giudiziario poi, ancorché non definitivo, è un macigno”.

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