Nell’estate del 1976, le elezioni consegnarono Roma ad una giunta rossa. L’insignificante, fino ad allora, assessorato alla cultura e allo sport venne assegnato ad un militante del Pci, architetto con la passione del teatro, Renato Nicolini. La città era reduce dalla stagione dei palazzinari che avevano ipertrofizzando la periferia isolandola sempre più dal centro della città. Imponenti palazzoni definivano i ghetti dove paura, angoscia e solitudine erano sempre più ricorrenti fra la popolazione. Il quadro nazionale non era migliore, le lotte operaie, la deflagrazione delle rivolte sociali che avrebbero trovato il culmine nel 1977, con il protagonismo dell’autonomia, le Brigate Rosse e ancora più tardi il rapimento Moro, avrebbero portato all’apice il terrore degli anni di piombo alimentato dalla contro rivoluzione statale . Per tutti questi motivi Roma stava diventando una città grigia, dove la paura e la diffidenza verso gli altri strava trasformando il tessuto urbano in una moltitudine di solitudini. Inaspettatamente fu proprio quello stravagante architetto a rivoluzionare il quadro politico e sociale della città. Renato Nicolini capì che la sola possibilità di ricostruire una speranza di convivenza serena era quella di distruggere quegli steccati che la paura, per lo più indotta, stava creando fra un cittadino e l’altro. La sua speranza divenne realtà. L’intuizione fu quella di usare proprio la cultura, un bene effimero, per sopperire a ciò che la politica non riusciva realizzare; la mediazione fra le esigenze e le aspirazioni dei diversi ceti sociali, ma soprattutto dei ceti più deboli. Capi che la massa non era solo un entità da educare me era essa stessa veicolo di cultura da apprendere. La classica famiglia romana delle gite fuori porta con nonni, provviste e vino al seguito , poteva benissimo dialogare e condividere le stesse aspirazioni dei giovani con lo spinello e dei militanti dell’autonomia. Per questo in un periodo così buio nell’estate del 1977, Nicolini decise di fissare un grande schermo nella basilica di Massenzio, tremila posti disponibili ogni sera con un’alternanza di film di alto e basso livello, senza steccati. Visconti insieme alle Fatiche di Ercole. In città iniziarono a sorgere palchi a Piazza Farnese, Come a Primavalle, in centro come in periferia, lungo il Tevere fino Castelporziano. Fu così che i romani fra una mostra di Cezanne e un’esibizione circense o di artisti di strada tornarono a popolare la vie e le piazze a scrollarsi di dosso la paura a socializzare, a tornare i veri padroni della propria città. Erano gli effetti della cosiddetta “Estate Romana”. Dal 1976 fino agli inizi egli anni ’80 quello stravagante architetto con la passione per il teatro passò attraverso le giunte rosse di Argan, Petroselli, Vetere, e inventò questo nuovo sistema di fare politica con la cultura l “estate romana”, appunto. Come scrive oggi Sandro Medici su “il manifesto” : “l’esperienza romana di quegli anni resta nell’immaginario della sinistra un brillante modello di governo delle grandi città, un ancor valido riferimento di amministrazione intelligente ed innovativa.” E’ per questo che la scomparsa di Renato Nicolini lascia un vuoto insostituibile in chi aveva avuto la fortuna di conoscerlo e di apprezzarlo, ma anche in chi alimentava, grazie a lui, la speranza di riproporre nelle nostre città quelle politiche di inclusione capaci di abbattere gli steccati e sconfiggere la paura da solitudine. Nicolini ci mancherà. Oggi ci sono le ronde, gli sgomberi di Alemanno e le periferie sono diventate discariche sociali e terreno fertile per la criminalità organizzata.
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