Tutto ciò grazie al fatto che questi piccoli
imprenditori, sulla spinta delle teorie neoliberiste alla considerazione del soggetto homo aeconomicus
come ente autonomo capace di produrre
autonomamente e individualmente plusvalore,
avevano creduto che ogni persona, solo sulla base delle proprie capacità,
potesse ambire a ricchezze illimitate . E non vi è dubbio che queste entità, usate come
baluardo contro le antagoniste teorie solidaristiche socialiste emerse dai
profondi conflitti della fine anni ’60, prosperarono.
Le piccole imprese satelliti delle grandi
fabbriche contribuirono ad alleggerire i
loro committenti di mano d’opera socialmente
tutelata. Gli operai che dovevano svolgere
il lavoro commissionato all’esterno
furono inesorabilmente licenziati, e alcuni di loro riassunti a nero da
quelle stesse piccole imprese causa del loro licenziamento dalla fabbrica. Un
processo devastante per il mondo del
lavoro. Fra l’altro questo nuovo modo di
produrre consentì, la progressiva disgregazione della classe lavoratrice.
Si sgretolavano i granitici legami
solidaristici fra lavoratore e lavoratore. Ognuno si abituava a pensare se
stesso come impresa in se e a rinunciare attraverso l’apertura di una partita
Iva a tutele sociali
indispensabili. Al conflitto di classe
si sostituiva l’idea di concorrenza individuale fra “persona impresa” e “persona
impresa”. Un narrazione fallace ma efficace per disgregare le ultime dighe di
contenimento dell’inondazione
neoliberista.
La prima
generazione di procacciatori individuali di plusvalore ebbe successo, grazie anche al foraggiamento delle èlite
neoliberiste veicolato attraverso la tolleranza dello Stato sull’enorme
evasione tributaria, neppure tanto
nascosta, prodotta da questi soggetti e
le notevoli agevolazioni fiscali di cui godevano. Era consentito scaricare
anche lo yacht dalla dichiarazione dei redditi.
Questa nuova classe parcellizzata di uomini impresa, senza alcuna
prospettiva o ideale che non fosse l’ottenimento del proprio successo, assicurò
la diffusione sociale di pulsioni individualistiche necessarie all’imposizione
dei precetti neoliberisti.
Ma durante il
passaggio dalla prima alla seconda generazione di homo aeconomicus, la globalizzazione a la mondializzazione del
neoliberismo modificò notevolmente gli scenari.
La libera circolazione dei capitali e delle merci, la generazione del profitto basata
esclusivamente sulle speculazione finanziaria, concorsero alla rapida
deindustrializzazione dei siti produttivi. Con le grandi aziende pronte a de
localizzare in paesi con una manodopera a basso costo schiavizzata, anche la piccola impresa, motore
dell’economia, emblema del successo del’uomo impresa di se stesso, perse
competitività , scivolò fuori dal mercato e
dalla possibilità di ottenere credito dalle banche in altre faccende
affaccendate.
La crisi travolse
anche ciò che era rimasto del comparto agroalimentare vessato dalla libera
circolazione di prodotti agricoli a basso costo. Il neoliberismo non fa prigionieri e
sull’altare di una crisi autoprodotta si sono sacrificati coloro ai quali era stato promesso l’eldorado di un
mondo in cui bastasse essere imprenditori di e stessi per arricchirsi.
Oggi
questi ascari del neoliberismo, sono rimasti drammaticamente sedotti e
abbandonati. Sono soli di fronte alla loro drammatico fallimento
economico. Senza un progetto di società, di ideale, non rimane altro che
prendere atto del fallimento di se come
uomo impresa. E’ questo il corpo sociale che anima le feroci proteste di piazza
che sono in corso lungo tutta la penisola.
I camionisti riuniti sotto le insegne dei Forconi, i piccoli
imprenditori della LIFE, gli agricoltori del C.R.A. e molti altri soggetti della rampante borghesia delle partite IVA ,ormai
ridotta alla fame della spietatezza neoliberista , manifestano la loro rabbia
contro il governo, la casta dei
politici, le istituzioni europee, l’euro.
Sono una massa urlante schierata
contro tutto e tutti, ma senza un
obbiettivo preciso da raggiungere.
Ed è inevitabile che manchino finalità precise nella rivolta di un
popolo orfano di un’ideale collettivo di società. Si invoca lo stato di Polizia, l’esercito al potere per sostituire l’attuale inetta classe dirigente. Si innesca una pericolosa deriva fascista che
i movimenti di estrema destra immediatamente cercano di cavalcare per ritrovare legittimazione politica.
Si
aggiungono schegge impazzite di popolo che non ce la fa più straziato dalla
povertà pronto ad agganciare qualsiasi movimento
di rivolta. Ci stanno dentro gli ultras da stadio e perfino alcuni
centri sociali. Il pericolo sta nel nichilismo ideologico di queste persone. Il
neoliberismo non fa prigionieri, ma se gli zombie vittime della povertà
che il sistema neoliberista produce, si risvegliano. Se si sollevano anche le truppe degli ascari morti
viventi, il pericolo di derive
autoritarie , fasciste sta dietro
l’angolo.
Forse una riposta di classe da parte di movimenti anticapitalisti ai disastri combinati dal neoliberismo avrebbe
potuto cambiare il corso degli eventi, ma purtroppo le organizzazioni politiche e sindacali
deputate alla rappresentanza delle classi subalterne hanno abdicato al loro
compito sedotte
dalla chimera di un liberismo governabile dalla politica. E allora l’ultima
speranza è riposta in piccole aggregazione di persone che hanno ben presente
qual sia il nemico da battere: Il capitalismo finanziario.
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