CAUSE
Spiegare
perché l’occupazione e il reddito sono le uniche cose che non aumentano non è
questione semplice. Intanto perché le cause partono da lontano e perché hanno a
che fare con un profondo mutamento dei rapporti sociali e di produzione fra
capitale e lavoro. L’articolo 1 della Costituzione “L’Italia è una repubblica
fondata sul lavoro” esplicita chiaramente che dal lavoro devono dipendere le
politiche economiche e l’economia, non viceversa. Assodato ciò si rende
necessario riequilibrare la debolezza
del lavoratore rispetto alla forza contrattuale del detentore dei mezzi
di produzione. A ciò dopo decenni di lotte
si era giunti con l’approvazione della legge 20 del 1970 (lo statuto dei
lavoratori). Tale normativa agiva sulla tutela della variabili che, se non
legislativamente protette, avrebbero determinato la completa subordinazione del
lavoratore nei confronti del datore di lavoro. Cioè, un salario dignitoso,
vincoli al licenziamento ingiustificato, rispetto delle prerogative
professionali del lavoratore. Su queste macroaree si concentravano gli effetti
della legge 20. Lo Statuto dei lavoratori era lungi dal definire un inamovibile
posto di lavoro durevole fino alla
pensione. Disporre di un lavoro stabile
significava semplicemente avere la certezza di poter contare su un rimedio efficace contro eventuali soprusi e
angherie del datore di lavoro, significava poter rivendicare, nella concretezza dei
rapporti di lavoro, il diritto a una retribuzione equa o alla tutela della
professionalità, della salute o della sicurezza sul lavoro. Significava potersi
organizzare collettivamente senza temere che ciò potesse costituire un biglietto di sola andata dentro
una lista di nomi coinvolti in una procedura di riduzione di personale o in un
trasferimento di ramo d’azienda. Tutto
ciò per garantire pari dignità sociale ai cittadini attraverso la rimozione
degli ostacoli di ordine economico e sociale che ne limitano la libertà e
l’eguaglianza, impedendo il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione all’organizzazione politica così come sancito dall’art. 3 della
Costituzione. Le conseguenze di queste politiche in termini economici avevano
stabilito un equa distribuzione del reddito fra quota salariale e quota
derivante dal profitto. Dalla metà degli
anni ’80 è iniziata la decisa controffensiva capitalista, tesa a distruggere
questo equilibrio e a spostare una parte sempre più significativa del reddito
dal salario al profitto. Capovolgendo completamente il compito del legislatore
così come definito nella costituzione. E attivando processi legislativi atti
non più a difendere il debole, ma il forte nel rapporto capitale lavoro. Le
linee su cui si sono sviluppate queste politiche hanno camminato sui binari per
cui la libertà sindacale e il controllo giudiziario, garanzia di uguaglianza e
democrazia, dovevano essere ridotti se non eliminati perché fastidiosi
ostacoli alle discrezionalità
imprenditoriali, alla loro libertà di disporre a piacimento della mano d’opera
. Si è stravolto il concetto di lavoro,
passato, da elemento distintivo della
propria cittadinanza e appartenenza alla comunità, a variabile sui costi di
produzione, a fattore di mercato. In pratica la legislazione sul lavoro si è
trasformata, da strumento di garanzia di diritti delle persone, in strumento di garanzia della flessibilità
del processo produttivo.
LE
LEGISLAZIONI
A partire dagli anni ’90
Italia tutti i governi, di centro destra e centro sinistra succedutesi al potere,
con la scusa di sconfiggere la disoccupazione giovanile, hanno introdotto
notevoli cambiamenti nella legislazione del lavoro tali da soddisfare la
visione neoliberista per cui il lavoro è una merce da scambiare sul mercato.
Alcuni esempi: la riforma del sistema pensionistico nel 1995 (legge 355/95) in
relazione al metodo di calcolo da retributivo a contributivo. La legge Treu del
1997 che introduce le prime forme di
flessibilità in entrata legittimando il lavoro interinale fino ad allora
proibito. Nel 2003, a seguito della pubblicazione del libro bianco sul mercato
e le politiche del lavoro del 2001, viene approvata la legge 30 detta anche
legge Biagi che introduce ancora più flessibilità nel mercato moltiplicando le
modalità di lavoro atipico. Nel 2012 e nel 2014 si consumano gli ultimi due
atti per trasformare il lavoro in merce: la legge Fornero e il Jobs Act, le
quali rendono maggiore la flessibilità
in uscita. La prima depotenziando gli effetti dell’articolo 18 dello statuto
dei lavoratori la seconda abolendolo del tutto. Ma con quali risultati? Le posizioni lavorative nel 1990 erano 21
milioni e mezzo nel 2014, dopo 24 anni di politiche lesive dei diritti dei
lavoratori, le posizioni sono aumentate
a 22 milioni e seicento mila, un aumento del 5% che dimostra come il risultato
dichiarato dai governi teso a liberalizzare il lavoro per ottenere aumenti
significativi di occupazione sia fallito. Inoltre nella dinamica di modesta
crescita i contratti a tempo determinato aumentano rispetto al 1990 del 56%
mentre quelli a tempo indeterminati solo dell’8%.
CAUSE DEL FALLIMENTO
C’è da notare un altro aspetto particolare di tale involuzione sopravvenuto negli ultimi
dieci anni e aggravatosi a partire dal 2008 anno d’inizio della crisi: L’enorme
contrazione dei lavoratori intermedi rispetto a quelli molto e poco
qualificati. Considerando la composizione in percentuale dell’occupazione
nell’ultimo anno disponibile (2013) l’Italia si colloca al di sotto della media
europea per percentuali di occupati nelle professioni più qualificate e pagate
(manager), assieme Spagna Portogallo e
Grecia, presenta oltre il 30% in più di lavoratori occupati in mansioni poco
qualificate e poco pagate. Perché dunque
insistere in politiche che non raggiungono l’obbiettivo di creare occupazione e
in più il lavoro che creano è sempre Più precario? La risposta ovvia la
motivazione sull’aumento dell’occupazione è falsa. In realtà gli scopi che si vogliono raggiungere sono uno di tipo
prettamente ideologico ultraliberista,
la sempre maggiore marginalizzazione del lavoro nella formazione del reddito, l’altro inerente alla svalutazione competitiva del costo del lavoro,
in sostituzione della svalutazione monetaria, non più possibile in regime di
moneta unica. Vediamoli meglio entrambi.
IL
LAVORATORE AI TEMPI DELL’ULTRALIBERISMO
L’idea ultraliberista, prefigura un lavoratore
imprenditore di se stesso. Un uomo che concepisce le proprie risorse come
capitale umano da valorizzare. Secondo Pierre Dardot e Christian Lavalle autori
del libro La nuova ragione del mondo, critica della razionalità neoliberista, è in
gioco la costruzione di un nuovo modello di soggettività quella che chiamiamo oggettivazione contabile
e finanziaria che altro non è che la forma più compiuta dell’oggettivazione
capitalistica. In altre parole si tratta di produrre nel soggetto individuale
un rapporto con se stesso omologo al rapporto con il capitale. Il soggetto è
abituato a vedere in se stesso un capitale umano da valorizzare, un valore da
aumentare sempre più. Una nuova ragione sociale del mondo e della vita
individuale al quale anche lo Stato
nelle sue pratiche e nei suoi principi è tenuto ad adeguarsi. L’economista
arriva a tipizzare un disoccupato “bohemien”
che sceglie di vendere le proprie abilità o le proprie competenze solo
per ristretti periodi della propria vita provvedendo da solo alla propria
formazione e alla continua promozione di se stesso per rispondere meglio alle
esigenze del mercato. Tutto quanto è nelle disponibilità del soggetto si mette
a valore anche le capacità economiche sottoutilzzate: da una stanza in più messa
in affitto, o il noleggio della propria macchina e delle proprie capacità lavorative, spesso
si mette a diposizione l’intera propria privacy omologando il tempo di vita a
quello del lavoro. Ciò su cui gli analisti liberisti sono concordi è che nel futuro,
se questo nuovo modello si affermerà, il contratto dipendente, stabile, a tempo
indeterminato fino alla pensione, andrà a poco a poco a estinguersi. Il mondo
nuovo che viene tratteggiato è dominato da forze anonime e individui singoli,
con una forza lavoro estremamente parcellizzata, dove anche i diritti sociali
sanciti nelle Costituzioni nate nell’immediato dopoguerra sono considerate
d’intralcio, da abolire o modificare significativamente, come nelle indicazioni
di importanti società di rating internazionale. La JP Morgan scrive infatti in
un documento molto citato del 28 maggio 2013 che le Costituzioni nate dopo la
fine delle dittature in Europa tutelano “troppo” i diritti dei lavoratori. The
Economist, auspica che auspica che i governi europei mettano in piedi un
sistema universalistico di sostegno al reddito che consenta la sussistenza del
lavoratore intermittente nei periodi di magra. Un modo per utilizzare lo Stato
come supplente anziché come soggetto regolatore.
LA SVALUTAZIONE COMPETITIVA.
La competitività di prezzo di un Paese è misurata dall’indice del
costo del lavoro per unità di prodotto.
Tale indice è il rapporto fra retribuzione nominale per occupato e la
produttività reale del lavoro. Quest’ultima
invece è data dal rapporto fra il valore aggiunto e il numero di occupati, od
ore di lavoro necessarie per raggiungere quel valore. In linea teorica, minore
è il costo del lavoro per unità di prodotto,
maggiore dovrebbe essere la competitività del sistema economico. Per
ottenere una riduzione significativa si può agire o sulla riduzione della
retribuzione nominale dell’occupato, oppure aumentando la produttività reale del lavoro.
Nel primo caso, il risultato è immediato. Ma tutto ciò provoca l’aumento di solo
nel breve periodo e solo a condizione che le imprese diminuiscano i prezzi
anziché aumentare il profitto o investire
sulla speculazione finanziaria il surplus ottenuto. La seconda strada,
ovvero il rafforzamento della produttività,
è di più difficile realizzazione, richiede investimenti in ricerca,
sviluppo per il miglioramento delle
qualità di processi e di prodotto. Le politiche adottate in Italia per ridurre
il costo del lavoro per unità di prodotto, si sono concentrate quasi
esclusivamente sulla moderazione salariale, una scelta che può produrre
vantaggi sulle esportazioni, ma genera un impatto negativo sulla domanda aggregata
interna attraverso la riduzione dei redditi da lavoro. In assenza di investimenti che aumentano la
produttività, e con la contemporanea compressione salariale, in condizioni macroeconomiche critiche
caratterizzate da deflazione e depressione persistente, si alimenta la spirale negativa tra perdita
di lavoro e bassa produttività.
Jobs Act
Il jobs act renziano, insieme gli altri letali provvedimenti quali i
contratti a tempo determinato a 36 mesi
senza causale, sono un inarrivabile paradigma, sia dell’esaltazione
dell’ideologia neo liberista, sia della svalutazione competitiva. E le
conseguenze non potranno che esser disastrose soprattutto per i lavoratori.
Vediamone alcuni aspetti: Tanto per essere chiari il Jobs Act, o contratto a
tutele crescenti, non è né un contratto né
prevede tutele crescenti per i lavoratori. Si tratta sic et simpliciter
di un’abolizione camuffata dell’art.18. Per la prima volta dal 1970 la tutela
contro il licenziamento illegittimo (consistente nella reintegrazione nel posto
di lavoro ingiustamente cessato e/o in un risarcimento del danno dignitoso) non
si applicherà più ai nuovi assunti a partire dal 7 marzo 2015. L’unico fattore
che cresce, dunque, sono i lavoratori privi della tutela dell’art.18. Ma la definizione tutele crescenti è corretta se
applicata al datore di lavoro. I casi in cui è prevista la reintegra
(licenziamento orale o discriminatorio) non ricorreranno mai, perché sarà impossibile darne prova in
giudizio. Per tutti gli altri casi si avrà diritto ad un indennizzo che non avrà
carattere risarcitorio perché non legato al danno subito dal lavoratore ma alla
sua anzianità di servizio: due mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno
di servizio, con un minimo di quattro ed un massimo di 24 mensilità. Se si
considera che oggi la buona uscita minima concordata è di 36 mensilità ben si
capisce come l’importo che l’azienda dovrà corrispondere ad un dipendente licenziato ingiustamente non
costituisce affatto deterrente. Per raggiungere il massimo delle 24 mensilità,
come stabilito nel jobs act, un
lavoratore dovrà aver raggiunto un’anzianità di servizio pari a 12 anni, un
fatto che contrasta notevolmente con la tendenza ad assumere per breve tempo.
Inoltra licenziare sarà veramente facile,
infatti basta imputare al lavoratore una qualsiasi manchevolezza, ad
esempio un ritardo nel raggiungere il posto di lavoro, anche non grave
per provocare il licenziamento. La
riforma infatti preclude al giudice l’indagine sulla proporzionalità dell’infrazione
commessa dal lavoratore e il licenziamento. Altra novità è il venir meno della reintegra
in caso di illegittimo licenziamento del lavoratore in malattia o infortunio.
Ciò senza che venga rispettato il tempo
di comporto. Per ogni tipo di mansione, a seguito di infortunio o malattia, il
lavoratore non può essere licenziato prima che sia trascorso il tempo necessario per rimettersi (tempo di
comporto), con il jobs act questa grave vessazione procurerà al lavoratore il semplice indennizzo delle due
mensilità per anno di servizio. A questo vanno aggiunti i devastanti effetti
del decreto Poletti (legge 34 del 2014) sui contratti a tempo determinato senza causale. Con la legge Fornero era
possibile ricorrere alle prestazioni di un dipendente a tempo determinato,
senza giustificarne l’impiego, una sola volta. Per un periodo di un anno. Il decreto Poletti, amplia
questa possibilità a tre anni e prevede che possa essere effettuato il rinnovo
per 5 volte, cioè ogni 6 mesi. Ciò significa tenere sotto scacco il dipendente che,
nella speranza della proroga o di un rinnovo, sarà disposto ad accettare ogni sopruso, anche una compressione
salariale. Ad una lavoratrice che si sposa o entra in gravidanza, sarà facile
non rinnovare il contratto. Ancora nel jobs act, si prevede la possibilità,
qualora le condizioni oggettive dell’impresa lo richiedano, di demansionare un
dipendente, senza il suo assenso, ad incarichi inferiori rispetto a quelli che
aveva al momento dell’assunzione. Con questa norma si va a modificare
l’art.2013 del codice civile che vieta i patti di demansionamento del
lavoratore. Ci sarebbe molto altro da
dire, per esempio sul mini jobs e i
buoni lavoro, ma concludo questa parte facendo notare come il vero obbiettivo
del jobs act sia perseguire l’ideologia liberista che mette l’intera vita del
lavoratore a disposizione dell’impresa e inasprire le modalità di compressione
salariale al fine di ottenere svalutazione competitiva. Le finalità dichiarate
dal Governo, inerenti la funzionalità del jobs act nella lotta alla disoccupazione
sono false. L’articolo 18 c’è dal 1970, e la disoccupazione è raddoppiata negli
ultimi 6 anni (dal 6% del 2008 al 13% del 2014). Dopo 10 anni dall’entrata in
vigore della legge Biagi, che ha introdotto la flessibilità in entrata a favore
dei giovani, la disoccupazione giovanile è arrivata al 43%. Sono 20 anni che in materia contrattuale si continua a
puntare sulla flessibilità in entrata (contratti a termine) e in uscita
(modifica dell’art.18 2012 e sua abrogazione 2014) eppure è del tutto evidente
come tutto ciò non abbia diminuito la disoccupazione ne aumentato
l’occupazione.
PROPOSTE
L’assunto principale che anima le proposte che seguono, sancisce
che non è possibile delegare al mercato le regolamentazioni del lavoro. E’
necessario che lo Stato si riappropri delle prerogative di regolazione dei
rapporti di produzione per riaffermare
che le politiche economiche devono dipendere dal lavoro e non viceversa.
Serve una politica pubblica per il
lavoro completamente diversa. E’ necessario:
a) Rafforzare anziché indebolire i
diritti e le tutele dei lavoratori dipendenti favorendo la loro effettiva
stabilizzazione.
b) Investire nella creazione
diretta di occupazione pubblica
c) Redistribuire il lavoro grazie
ad una riduzione sussidiata dell’orario di lavoro
d) Investire nella gestione
pubblica dei beni comuni
e) Investire nella gestione
pubblica del lavoro riproduttivo finalizzato alla erogazione di servizi
sociali.
Soprattutto in quest’ultimo settore le possibilità sono enormi. E
le grandi lobby già stanno investendo in questi comparti. Sanità, scuola,
assistenza agli anziani, messa a profitto dei beni comuni come l’acqua devono
prevedere il rilancio dell’azione pubblica nella loro gestione. E qui la nostra
città è maestra su cosa non si debba fare per creare posti di lavoro. I soldi della cassa depositi e prestiti
destinati allo stadio, potrebbero
essere indirizzati ad un fondo per i
piani di occupazione. Fondo implementato
da altre entrate, provenienti da altre linee di finanziamento , i
fondi sociali europei ad esempio. Mi pare che ci sia l’assessore preposto,
quando non dorme. Tale fondo potrebbe finanziare progetti finalizzati al
recupero e valorizzazione degli edifici già esistenti, (scuole, asili) la bonifica e la riqualificazione del
territorio, volta a prevenire il dissesto idrogeologico. Altra occupazione si
potrebbe ottenere finanziando progetti che impiegassero addetti nella
valorizzazione del patrimonio storico culturale ed archeologico. Insieme ai
piani per il lavoro, il Comune potrebbe reinternalizzare i servizi alla città, che ad oggi vengono affidate a privati
secondo una logica per altro economicamente svantaggiosa, ma che richiama i concetti di ideologizzazione
del lavoro in senso neoliberista già illustrati. Per allargare lo sguardo
bisognerebbe produrre buona occupazione nella gestione della sanità, della cura
agli anziani, un fattore importantissimo
in una società che tende ad invecchiare. Ripeto, non lascare che le attività di
riproduzione diventino business per le lobby assicurative, ma usarle per
generare buona occupazione attraverso il finanziamento pubblico. Per tornare
alle attività produttive, è necessario reindirizzare i piani industriali,
rivoluzionare cosa produrre e come produrlo. E’ necessario l’intervento dello
Stato per finanziare aziende orientate alla produzione di energie rinnovabili. Oppure
agevolare la filiera della conversione a freddo
e del riuso dei rifiuti. E’ necessario,
inoltre, che la pubblica amministrazione, oltre a
cofinanziare tali progetti ne segua i piani industriali, magari anche con il
coinvolgimento dei lavoratori, per verificare che soldi pubblici stiano
producendo buona economia e buona occupazione.
REDISTRIBUZIONE DEL LAVORO
Affianco alla definizione di nuovi modelli produttivi bisognerà porre mano ad una seria redistribuzione del lavoro. In una fase in cui gli straordinari sono
detassati, pur in un contesto di limitata offerta di lavoro, si produce l’incoerente fenomeno per cui pochi lavoratori operano
secondo orari di impossibili e molti
lavoratori rimangono a casa. La tassazione agevolata
degli straordinari produce disoccupazione per 500mila addetti l’anno. Inoltre
l’utilizzo del contratto par time spesso
viene imposto dall’azienda e subito dal lavoratore. “Lavorare meno lavorare
tutti” si diceva una volta. L’ideale sarebbe una riduzione dell’orario
lavorativo a parità di salario. Ma non credo che le imprese, a meno che non si
faccia una rivoluzione, siano disposte ad
accettarlo. Né sarebbe conveniente per i lavoratori subire la diminuzione
salariale in funzione di un tempo di lavoro ridotto. La soluzione è calibrare
il carico fiscale e contributivo sul
salario in base all’orario di lavoro, alleggerendolo per gli orari ridotti e
aggravandolo per quelli a lunga durata. Più specificatamente va prevista una fascia oraria e il reddito
monetario corrispondente esente da
tassazione, tanto per il lavoratore che per l’impresa. Per orari di lavoro più
lunghi gli oneri contributivi aumenteranno fino a corrispondere a quelli attuali per le
40 ore settimanali. Per orari superiori l’incidenza fiscale s’incrementerà per ogni ora di lavoro in più prestata. In
questo modo le aziende saranno indotte a
riorganizzare il loro processo produttivo in modo da distribuire i lavoratori per le diverse durate di lavoro per sfruttare, o il vantaggio fiscale degli
orari più brevi, o la migliore produttività dei lavoratori con orari più
lunghi. La struttura degli orari riacquista quella funzione necessaria per
rispondere flessibilmente alle necessità produttive. Per quanto riguarda i lavoratori. Il reddito
sarà in questo caso una combinazione fra salario privato (remunerazione dell’attività
lavorativa) e salario pubblico (
derivante dell’esenzione fiscale contributiva . Nel caso di un orario ridotto
la remunerazione privata sarà inferiore, ma aumenterà la remunerazione pubblica
in termini di esenzione fiscale, per
orari più lunghi aumenterà la remunerazione privata, e diminuirà quella
pubblica per l’effetto dell’aumentata imposizione fiscale. Per concludere
questa lunga trattazione, come ho dimostrato è possibile fermare il declino del
lavoro e del reddito, ma bisogna innanzitutto che il reddito derivi per la
maggior parte dal lavoro e non dal profitto come avviene oggi. “Più lavoro,
meno profitto questa" è la formula. Il lavoro come elemento di promozione
della dignità umana e non variabile del costo di produzione.
video di Fiorenzo Fraioli
Per altri servizi vedi anche Da Egodellarete.Resa dei conti a sinistra
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