Ce n'è per Berlusconi, ovviamente, «il capitalista reazionario»; per Monti, «l'agenda del capitalismo italiano»; per «il liberale Bersani» che «ha votato tutte le peggiori misure antioperaie» e si presenta «da un lato all'elettorato popolare come difensore del lavoro, avendo bisogno dei voti dei lavoratori; dall'altro ai poteri forti interni e internazionali come massimo garante dell'agenda di Monti». Ma il segretario del Partito comunista dei lavoratori Marco Ferrando ce l'ha, e parecchio, anche con le sinistre: quella di Vendola che «svende», la cui partita nell'alleanza di centrosinistra «è già segnata»; ma anche la sinistra radunata intorno al magistrato Ingroia la cui coalizione - spiega - è «peggio della disastrosa operazione Arcobaleno del 2008», è «l'8 settembre della sinistra italiana», «una lista di attesa per entrare nel centrosinistra», «una lista giustizialista, comprensiva del liberal questurino Di Pietro: in cui la sinistra si scioglie». E infine ha un programma «arlecchino evanescente».
Queste le coordinate cartesian-politiche dell'unica falcemartello che a questo giro troveremo nella scheda elettorale. O quasi: il Viminale potrebbe dire sì, nella sola Puglia, a quella di Alternativa comunista, e a quella della Sinistra popolare di Marco Rizzo, sempreché poi arrivino le firme. Prc e Pdci stavolta invece lasciano gli attrezzi in sezione e si presentano sotto l'insegna della Rivoluzione civile di Ingroia.
Quella del Pcl è una falcemartello di derivazione demoproletaria, come Ferrando. Trozkista, filosofo, genovese, il suo partito è uno dei rivoli dell'ex fiumana della prima Rifondazione. Da dove è uscito nel 2006, dopo aver definito «un diritto degli iracheni insorgere contro gli eserciti occupanti»; era fresca la memoria dalla strage dei militari italiani a Nassirya. Doveva essere eletto nelle liste del Prc, fu scarpato via. Tanto non sarebbe durata: era contrario all'alleanza con Prodi, dal '99 aveva pianificato la scissione appena il Prc avesse lasciato l'opposizione. Contrario all'alleanza con i «liberali borghesi» di derivazione ex Pci Ferrando è sempre stato. Sin dai tempi, sin dal '98, quando la Rifondazione bertinottiana aveva fatto «finalmente» cadere il primo governo Prodi: ma non per questo, alla conta interna che mise in minoranza Armando Cossutta, il trozkista Ferrando volle sommare i voti della sua corrente con quelli del segretario, a differenza dell'altra minoranza trozkista, guidata allora da Livio Maitan.
Presente in forza e bandiere in ogni corteo della sinistra, il Pcl non si allea mai: non per principio ma per principi. Difficile trovare compagni di strada sulla via della nazionalizzazione delle banche o delle fabbriche. O forse non è per questo: dallo scoppio della crisi le nazionalizzazioni non sono più un tabù neanche per i nobel dell'economica. Resta tabù invece allearsi con Ferrando per tutto il resto della sinistra: non sia mai si dovesse inciampare in una dichiarazione furiosamente antisionista; o nella richiesta alla Fiom «di prendere la testa dell'esplosione sociale e dare una spallata al padronato»; e di costituire «un parlamento dei lavoratori e delle sinistre».
Così andrà anche alle prossime politiche. Lunedì a Roma il Pcl presenta le sue liste. Sarà quasi ovunque. Ovunque da solo benché «contro le lotte isolate e le iniziative simboliche». Con un programma rivoluzionario, ma considerando «mimetismo trasformista» la rivoluzione civile dei compagni rosso-arancione. Per raccogliere i suoi testardi voti d'irriducibile opposizione alla «la repubblica dei capitalisti». Per «la repubblica dei lavoratori». Per «liberare la società dalla dittatura di industriali e banchieri e Vaticano». Duecentomila all'ultimo giro. Ma stavolta più delle altre scommettendo sulla solitudine dell'ultima falcemartello.
Nessun commento:
Posta un commento