E' impressionante quanto sta succedendo. La
rapidità della deriva a destra di quanto resta della sinistra riformista fa
impressione anche a chi, come noi, ha analizzato da anni la crisi della
socialdemocrazia, cioè della sinistra orientata verso la collaborazione di
classe (in altre parole Rifondazione, Pdci e dintorni).
Un progetto
burocratico perseguito con metodo
L'ostinazione con cui il gruppo dirigente
della sinistra riformista ha perseguito il suo progetto meriterebbe ammirazione:
se quel progetto non fosse stato in questi anni e non fosse nei prossimi mesi il
principale ostacolo che i lavoratori e i giovani incontrano nel tentativo di
sviluppare le lotte contro gli attacchi dei governi padronali.
Con corsa a scatti e arresti, salti in alto e in lungo, strisciando e a zig zag, persino col passo del giaguaro, il gruppo dirigente di Rifondazione ha avanzato in ogni modo in questi anni verso il proprio traguardo. Non si trattava (e non si tratta) di "uscire dalla marginalità" cui quel partito sarebbe costretto dopo l'esclusione dal parlamento. No, questa è la versione che viene ammannita agli attivisti che ancora con notevoli sacrifici mandano avanti il partito. La realtà è un'altra: lo strato burocratico, composto da centinaia di eletti nelle istituzioni borghesi ai vari livelli (dalle giunte locali in su) e da un apparato di funzionari abnorme, questo strato burocratico ingigantitosi negli anni di vacche grasse, durante la partecipazione del Prc ai due governi Prodi (1996-1998, 2006-2008), quel settore di grandi e piccoli privilegiati, ha cercato e cerca in ogni modo di preservare o riguadagnare quei piccoli o grandi privilegi d'apparato.
Come ricordava Trotsky, e come ha spiegato più di cento anni fa molto bene anche Rosa Luxemburg, le teorizzazioni riformiste non nascono nella testa dei teorici riformisti ma nella pancia delle burocrazie. Il sostenere - come i dirigenti di Rifondazione hanno fatto per anni - la possibilità di pungolare, ancorare a sinistra, riorientare, influenzare, contaminare un governo borghese al servizio di industriali e banchieri (come furono i due governi Prodi, come sarà il prossimo possibile governo Bersani) è prima ancora che una teoria stravagante una esigenza materiale per la burocrazia dirigente. Non è un fatto nuovo: l'essenza stessa della socialdemocrazia di ogni epoca consiste nella svendita degli interessi e delle lotte dei lavoratori in cambio di concessioni marginali per i lavoratori e di un posto per i burocrati alla tavola della borghesia.
Con corsa a scatti e arresti, salti in alto e in lungo, strisciando e a zig zag, persino col passo del giaguaro, il gruppo dirigente di Rifondazione ha avanzato in ogni modo in questi anni verso il proprio traguardo. Non si trattava (e non si tratta) di "uscire dalla marginalità" cui quel partito sarebbe costretto dopo l'esclusione dal parlamento. No, questa è la versione che viene ammannita agli attivisti che ancora con notevoli sacrifici mandano avanti il partito. La realtà è un'altra: lo strato burocratico, composto da centinaia di eletti nelle istituzioni borghesi ai vari livelli (dalle giunte locali in su) e da un apparato di funzionari abnorme, questo strato burocratico ingigantitosi negli anni di vacche grasse, durante la partecipazione del Prc ai due governi Prodi (1996-1998, 2006-2008), quel settore di grandi e piccoli privilegiati, ha cercato e cerca in ogni modo di preservare o riguadagnare quei piccoli o grandi privilegi d'apparato.
Come ricordava Trotsky, e come ha spiegato più di cento anni fa molto bene anche Rosa Luxemburg, le teorizzazioni riformiste non nascono nella testa dei teorici riformisti ma nella pancia delle burocrazie. Il sostenere - come i dirigenti di Rifondazione hanno fatto per anni - la possibilità di pungolare, ancorare a sinistra, riorientare, influenzare, contaminare un governo borghese al servizio di industriali e banchieri (come furono i due governi Prodi, come sarà il prossimo possibile governo Bersani) è prima ancora che una teoria stravagante una esigenza materiale per la burocrazia dirigente. Non è un fatto nuovo: l'essenza stessa della socialdemocrazia di ogni epoca consiste nella svendita degli interessi e delle lotte dei lavoratori in cambio di concessioni marginali per i lavoratori e di un posto per i burocrati alla tavola della borghesia.
Ma questo scambio (a perdere per i
lavoratori) ha funzionato in epoche in cui la borghesia aveva ancora qualcosa da
concedere e i rapporti di forza internazionali erano differenti per l'esistenza
degli Stati operai degenerati o deformati. In una situazione totalmente diversa
e tanto più negli anni della più brutale crisi del capitalismo, la musica è
cambiata. Il compito dei governi borghesi (di centrodestra, centro o
centrosinistra) non è quello di fare concessioni (fossero pure marginali) ma
piuttosto quello di riprendersi indietro tutto, smantellando quello Stato
sociale concesso in epoca diversa per evitare rivoluzioni.
Di qui la crisi irreversibile di ogni progetto socialdemocratico. E di qui la inevitabile crisi di Rifondazione che ha portato alla sua esplosione, alle varie scissioni fino alla rottura in due di quel partito con la uscita di Vendola che andava a costituire Sel.
Anche se in due schieramenti elettorali diversi, anche se con forme parzialmente diverse, con un linguaggio e parole in parte diversi, l'obiettivo tanto del gruppo dirigente di Sel come di quello di Rifondazione è comune: rientrare dalla porta principale o da quella di servizio nel governo o nella sua maggioranza e riguadagnare eletti nel prossimo parlamento. Non per usare (come farebbero dei rivoluzionari) anche quella tribuna secondaria (rispetto alla lotta di piazza e di fabbrica) per sviluppare le lotte dei lavoratori, la loro indipendenza dalla borghesia, dai suoi governi, dai suoi interessi contrapposti: no, solo per potersi avvicinare di nuovo alla mangiatoia.
Di qui la crisi irreversibile di ogni progetto socialdemocratico. E di qui la inevitabile crisi di Rifondazione che ha portato alla sua esplosione, alle varie scissioni fino alla rottura in due di quel partito con la uscita di Vendola che andava a costituire Sel.
Anche se in due schieramenti elettorali diversi, anche se con forme parzialmente diverse, con un linguaggio e parole in parte diversi, l'obiettivo tanto del gruppo dirigente di Sel come di quello di Rifondazione è comune: rientrare dalla porta principale o da quella di servizio nel governo o nella sua maggioranza e riguadagnare eletti nel prossimo parlamento. Non per usare (come farebbero dei rivoluzionari) anche quella tribuna secondaria (rispetto alla lotta di piazza e di fabbrica) per sviluppare le lotte dei lavoratori, la loro indipendenza dalla borghesia, dai suoi governi, dai suoi interessi contrapposti: no, solo per potersi avvicinare di nuovo alla mangiatoia.
Mille tentativi e infine devono...
ingroiare
Come segnalammo già al momento della
scissione di Vendola da Rifondazione (2009), quella che da molti fu accredita
come una "svolta a sinistra" della "nuova" Rifondazione di Ferrero era solo una
ritirata necessaria per riprendere il prima possibile l'avanzata (verso il
governo borghese, s'intende). Negli ultimi anni, pur fuori dal parlamento e poi
costretta a una "opposizione" (di cui nessuno si è accorto) al governo Monti,
Rifondazione non ha mai cessato di preservare il rapporto col Pd, in vista di un
terzo giro con un futuro governo di centrosinistra. La lealtà con cui
Rifondazione ha governato a livello locale, in regioni province e comuni,
insieme al Pd, significava al contempo la conservazione di un po' di poltrone di
secondo livello ma anche curare il terreno su cui far rifiorire una più
interessante e proficua relazione nazionale.
Il "patto democratico" proposto da Ferrero (come sempre "per battere le destre"), le patetiche "videolettere a Nichi", eccetera eccetera, dovevano riaprire quella porta che si era chiusa sulle dita dei dirigenti di Rifondazione. Ma il crollo di Rifondazione nei sondaggi e la contemporanea crescita di Sel come una sorta di sinistra esterna al Pd hanno favorito un patto Bersani-Vendola che non lasciava nessun ruolo, neppure secondario, ai dirigenti di Rifondazione. A quel punto è nato il sogno di una "Syriza italiana" (per usare l'espressione di Ferrero), la speranza che Rifondazione, nel quadro del marasma politico e della crisi economica crescente, potesse porsi al centro di una riaggregazione di forze, attorno a un programma riformista (come è quello di Syriza). Ma anche questo progetto è sfumato: a crescere nella sinistra riformista, togliendo ogni altro spazio, erano solo Sel di Vendola, l'Idv di Di Pietro (sempre più attenta ai rapporti con la Fiom, curati dall'ex rifondarolo Zipponi).
A quel punto (siamo a qualche mese fa) Ferrero doveva prendere atto che non solo non si davano ipotesi di rientrare dalla porta principale (rapporto col Pd) o da quella secondaria (relazione con Sel o con una sua area disponibile al confronto) ma risultavano sbarrate anche tutte le finestre (riaggregazione di spezzoni secondari, vedi Movimento No Debito su cui torniamo tra poco). Erano i giorni in cui Ferrero inviava disperati messaggi financo al comico reazionario Grillo: "non abbiamo differenze programmatiche di fondo".
Gli imprevisti scandali sul finanziamento e la conseguente crisi dell'Idv di Di Pietro (anch'essa emarginata dal Pd) hanno riaperto la possibilità di mettere insieme tutto quanto veniva escluso dall'asse Bersani-Vendola. In poche settimane si sono moltiplicate le sigle di aggregazioni più o meno consistenti. Non è qui il caso di fare la storia di Alba, Cambiare si può, Io ci sto e delle relative assemblee nazionali.
Basti dire che - a differenza di quanto pare aver compreso con un certo ritardo Sinistra Critica - mai in nessun momento da questo crogiolo poteva uscire uno schieramento di classe, effettivamente indipendente dal Pd e dal prossimo governo borghese orientato dal Pd. L'unica cosa che poteva uscire è poi uscita: Ingroia.
Il "patto democratico" proposto da Ferrero (come sempre "per battere le destre"), le patetiche "videolettere a Nichi", eccetera eccetera, dovevano riaprire quella porta che si era chiusa sulle dita dei dirigenti di Rifondazione. Ma il crollo di Rifondazione nei sondaggi e la contemporanea crescita di Sel come una sorta di sinistra esterna al Pd hanno favorito un patto Bersani-Vendola che non lasciava nessun ruolo, neppure secondario, ai dirigenti di Rifondazione. A quel punto è nato il sogno di una "Syriza italiana" (per usare l'espressione di Ferrero), la speranza che Rifondazione, nel quadro del marasma politico e della crisi economica crescente, potesse porsi al centro di una riaggregazione di forze, attorno a un programma riformista (come è quello di Syriza). Ma anche questo progetto è sfumato: a crescere nella sinistra riformista, togliendo ogni altro spazio, erano solo Sel di Vendola, l'Idv di Di Pietro (sempre più attenta ai rapporti con la Fiom, curati dall'ex rifondarolo Zipponi).
A quel punto (siamo a qualche mese fa) Ferrero doveva prendere atto che non solo non si davano ipotesi di rientrare dalla porta principale (rapporto col Pd) o da quella secondaria (relazione con Sel o con una sua area disponibile al confronto) ma risultavano sbarrate anche tutte le finestre (riaggregazione di spezzoni secondari, vedi Movimento No Debito su cui torniamo tra poco). Erano i giorni in cui Ferrero inviava disperati messaggi financo al comico reazionario Grillo: "non abbiamo differenze programmatiche di fondo".
Gli imprevisti scandali sul finanziamento e la conseguente crisi dell'Idv di Di Pietro (anch'essa emarginata dal Pd) hanno riaperto la possibilità di mettere insieme tutto quanto veniva escluso dall'asse Bersani-Vendola. In poche settimane si sono moltiplicate le sigle di aggregazioni più o meno consistenti. Non è qui il caso di fare la storia di Alba, Cambiare si può, Io ci sto e delle relative assemblee nazionali.
Basti dire che - a differenza di quanto pare aver compreso con un certo ritardo Sinistra Critica - mai in nessun momento da questo crogiolo poteva uscire uno schieramento di classe, effettivamente indipendente dal Pd e dal prossimo governo borghese orientato dal Pd. L'unica cosa che poteva uscire è poi uscita: Ingroia.
Natura e fini
della lista Ingroia-Rifondazione-Idv
Parafrasando una vecchia pubblicità, per
descrivere questa "novità" basta la parola. E non ci riferiamo tanto al nome di
Ingroia che campeggia a caratteri cubitali nel simbolo della coalizione ma al
mestiere di Ingroia fino all'altro ieri. Solo la deriva anche culturale
provocata dalla sinistra riformista ha consentito che in ampi settori di
lavoratori si dimenticasse il ruolo che da sempre svolgono i magistrati nello
Stato borghese. L'esaltazione per i vari Falcone e Borsellino, e poi per Di
Pietro, De Magistris, ora Ingroia ecc., è il frutto della sistematica
cancellazione di ogni analisi classista dello Stato e dei suoi apparati
repressivi. Negli anni Settanta i magistrati venivano definiti nel movimento
"ermellini da guardia". Oggi, grazie ai disastri ideologici prodotti dai
riformisti, vengono visti anche da tanti lavoratori e giovani come un baluardo
contro il dilagare della corruzione politica: come se non fossero i tutori, in
primo luogo, della proprietà privata e dunque del furto eretto a sistema (il
furto della forza lavoro). Una tutela, quella del capitale e dei suoi interessi,
che i magistrati esercitano, insieme alle varie polizie, quotidianamente, nei
processi ai manifestanti, nell'insabbiamento delle responsabilità dei poliziotti
(poliziotti con cui Ingroia ha solidarizzato in occasione del processo per i
fatti di Genova del 2001), nella copertura degli interessi del padrone contro
l'operaio: utilizzando e applicando la legislazione che non è certo neutrale e
che, persino nei suoi testi apparentemente più avanzati, come la Costituzione
(prodotto di altri rapporti di forza, concessa dalla borghesia al Pci stalinista
in cambio del disarmo della Resistenza e della rivoluzione italiana), pongono
sempre al centro la sacralità della proprietà privata e della sua tutela, e
dunque la schiavitù del lavoro salariato.
Anche volendo ignorare che Ingroia è un uomo degli apparati repressivi borghesi, Rivoluzione civile ha un programma che parla da solo. Un programma di classe: nel senso che prende posizione nella lotta di classe per uno dei due schieramenti: quello borghese.
I "dieci punti" enunciati da Ingroia di ritorno dal Guatemala quando, con notevole arroganza e parlando di sé in terza persona, ha presentato la sua lista, sono inequivocabili. Al centro di tutto, fin dal primo punto, è il concetto di "legalità" (temperato con quello di "solidarietà"). Si cavalca l'idea che il problema vero non sia la corruzione del sistema borghese in sé, il suo essere fondato sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, ma piuttosto il suo funzionamento deteriore, la corruzione che costantemente sgorga (e non potrebbe essere diversamente) dalla sua gestione politica. Come chiarisce il punto 8, l'obiettivo sono "i partiti" ("vogliamo che escano da tutti i consigli di amministrazione") non la borghesia che sta dietro i partiti borghesi. Nel programma di Ingroia le classi e la loro lotta a morte spariscono, sostituiti dai "cittadini", tutti uguali, padroni e operai, tutti interessati solo a liberarsi dai politici corrotti e dalla criminalità organizzata. Per essere precisi, in realtà, una classe compare in questo programma: non sono i lavoratori ma gli "imprenditori" (che noi chiamiamo padroni). Al punto 6 è detto: " Vogliamo che gli imprenditori possano sviluppare progetti, ricerca e prodotti senza essere soffocati dalla finanza, dalla burocrazia e dalle tasse." Un obiettivo che non sfigurerebbe neppure in una lista di liberisti dichiarati!
Ma quali sono i fini di questa lista che si richiama a una "Rivoluzione civile", questa coalizione che unisce Rifondazione, Pdci, Idv, Verdi, Arancioni del sindaco di Napoli De Magistris?
L'obiettivo strategico dichiarato fin dal simbolo è quello di una "rivoluzione civile": cioè una rivoluzione non sociale (non insomma come quelle che stanno coraggiosamente conducendo le masse dei Paesi africani e del Medio Oriente) ma mera espressione della cosiddetta "società civile" che si ribella contro politici corrotti e criminali invocando una società capitalista onesta. Una società cioè, traduciamo noi, in cui i padroni possano sfruttare gli operai, ricattare precari e disoccupati, fare le loro guerre di rapina coloniale, distruggere l'ambiente, senza dover pagare i troppo cari costi di gestione di un sistema politico corrotto. Come se fosse possibile separare il capitalismo dalla sua gestione, i profitti "puliti" da quelli sporchi.
L'obiettivo tattico (diciamo meglio: l'unico obiettivo), coperto dal nome altisonante e dal povero Quarto stato schiacciato nel simbolo dal nome del magistrato borghese, è più prosaicamente superare la soglia di sbarramento e ottenere quella manciata di parlamentari che consentiranno non solo di ripianare il deficit di burocrazie in forte difficoltà (Rifondazione è alla vendita delle sedi) ma anche di rientrare in qualche modo nella ipotetica maggioranza di governo a guida Bersani.
Il più esplicito a annunciare da subito la disponibilità nei confronti del Pd è stato Oliviero Diliberto (che, come i cani di Pavlov, inizia a sbavare anche soltanto al suono della campanella che annuncia il riempimento della mangiatoia). Peraltro, come ricorda col consueto cinismo Diliberto, tutta l'allegra brigata che sostiene l'ermellino da guardia è già stata al governo persino con Mastella, quando Paolo Ferrero faceva il ministro "alla solidarietà sociale" in quel governo imperialista: perché dovrebbero sottrarsi adesso?
Ingroia è stato non meno esplicito: al Capranica, il 22 dicembre: "Non ho preclusioni ideologiche (...) Spero che neppure il Pd ne abbia (...) non facciamo testimonianza, vogliamo governare" (sottolineatura nostra). E lo stesso Ferrero, pur impegnato a far digerire l'operazione ai militanti, evidenziando le "correzioni" fatte al programma iniziale (un paio di aggettivi e due virgole), ci tiene a precisare in ogni intervista alla stampa che il nemico da battere sono come sempre "le destre" e che dopo le elezioni (dove necessariamente questi rivoluzionari "civili" corrono da soli) si ridiscuterà sul tutto (chiaramente in nome di politiche "antiliberiste"... da contrattare con banchieri e industriali).
Anche volendo ignorare che Ingroia è un uomo degli apparati repressivi borghesi, Rivoluzione civile ha un programma che parla da solo. Un programma di classe: nel senso che prende posizione nella lotta di classe per uno dei due schieramenti: quello borghese.
I "dieci punti" enunciati da Ingroia di ritorno dal Guatemala quando, con notevole arroganza e parlando di sé in terza persona, ha presentato la sua lista, sono inequivocabili. Al centro di tutto, fin dal primo punto, è il concetto di "legalità" (temperato con quello di "solidarietà"). Si cavalca l'idea che il problema vero non sia la corruzione del sistema borghese in sé, il suo essere fondato sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, ma piuttosto il suo funzionamento deteriore, la corruzione che costantemente sgorga (e non potrebbe essere diversamente) dalla sua gestione politica. Come chiarisce il punto 8, l'obiettivo sono "i partiti" ("vogliamo che escano da tutti i consigli di amministrazione") non la borghesia che sta dietro i partiti borghesi. Nel programma di Ingroia le classi e la loro lotta a morte spariscono, sostituiti dai "cittadini", tutti uguali, padroni e operai, tutti interessati solo a liberarsi dai politici corrotti e dalla criminalità organizzata. Per essere precisi, in realtà, una classe compare in questo programma: non sono i lavoratori ma gli "imprenditori" (che noi chiamiamo padroni). Al punto 6 è detto: " Vogliamo che gli imprenditori possano sviluppare progetti, ricerca e prodotti senza essere soffocati dalla finanza, dalla burocrazia e dalle tasse." Un obiettivo che non sfigurerebbe neppure in una lista di liberisti dichiarati!
Ma quali sono i fini di questa lista che si richiama a una "Rivoluzione civile", questa coalizione che unisce Rifondazione, Pdci, Idv, Verdi, Arancioni del sindaco di Napoli De Magistris?
L'obiettivo strategico dichiarato fin dal simbolo è quello di una "rivoluzione civile": cioè una rivoluzione non sociale (non insomma come quelle che stanno coraggiosamente conducendo le masse dei Paesi africani e del Medio Oriente) ma mera espressione della cosiddetta "società civile" che si ribella contro politici corrotti e criminali invocando una società capitalista onesta. Una società cioè, traduciamo noi, in cui i padroni possano sfruttare gli operai, ricattare precari e disoccupati, fare le loro guerre di rapina coloniale, distruggere l'ambiente, senza dover pagare i troppo cari costi di gestione di un sistema politico corrotto. Come se fosse possibile separare il capitalismo dalla sua gestione, i profitti "puliti" da quelli sporchi.
L'obiettivo tattico (diciamo meglio: l'unico obiettivo), coperto dal nome altisonante e dal povero Quarto stato schiacciato nel simbolo dal nome del magistrato borghese, è più prosaicamente superare la soglia di sbarramento e ottenere quella manciata di parlamentari che consentiranno non solo di ripianare il deficit di burocrazie in forte difficoltà (Rifondazione è alla vendita delle sedi) ma anche di rientrare in qualche modo nella ipotetica maggioranza di governo a guida Bersani.
Il più esplicito a annunciare da subito la disponibilità nei confronti del Pd è stato Oliviero Diliberto (che, come i cani di Pavlov, inizia a sbavare anche soltanto al suono della campanella che annuncia il riempimento della mangiatoia). Peraltro, come ricorda col consueto cinismo Diliberto, tutta l'allegra brigata che sostiene l'ermellino da guardia è già stata al governo persino con Mastella, quando Paolo Ferrero faceva il ministro "alla solidarietà sociale" in quel governo imperialista: perché dovrebbero sottrarsi adesso?
Ingroia è stato non meno esplicito: al Capranica, il 22 dicembre: "Non ho preclusioni ideologiche (...) Spero che neppure il Pd ne abbia (...) non facciamo testimonianza, vogliamo governare" (sottolineatura nostra). E lo stesso Ferrero, pur impegnato a far digerire l'operazione ai militanti, evidenziando le "correzioni" fatte al programma iniziale (un paio di aggettivi e due virgole), ci tiene a precisare in ogni intervista alla stampa che il nemico da battere sono come sempre "le destre" e che dopo le elezioni (dove necessariamente questi rivoluzionari "civili" corrono da soli) si ridiscuterà sul tutto (chiaramente in nome di politiche "antiliberiste"... da contrattare con banchieri e industriali).
Gli orfani del
Comitato No Debito
Prima di concludere, vale la pena dare una
rapida occhiata agli effetti provocati dalla novità Ingroia a sinistra.
Meritano una citazione perlomeno gli articoli intrisi di irritazione di Giorgio Cremaschi, ex presidente del Comitato Centrale della Fiom nonché portavoce (autonominatosi) del cosiddetto Comitato No Debito.
Fin dalla nascita di questo raggruppamento, sorto sulla base di "discriminanti" imposte da Cremaschi e accettate dalle sigle aderenti (Usb, Rifondazione, Sinistra Critica, Pcl, eccetera), in sostanza un programma riformista neokeynesiano (che abbiamo analizzato in altri articoli a cui rimandiamo), mettemmo in guardia i tanti che giustamente parteciparono (come anche noi) alle manifestazioni indette da questo "Comitato". Mettemmo in guardia sia sulle enormi limitazioni della piattaforma (che per questo non abbiamo mai sottoscritto) sia sull'assenza di una struttura democratica, ma segnalammo anche quello che a noi pareva evidente: non vi era da parte di Cremaschi e degli altri autonominatisi dirigenti del Comitato nessuna intenzione di costruire un Comitato nazionale contro il pagamento del debito articolato localmente. L'intenzione che identificammo e denunciammo a più riprese era quella di costruire un raggruppamento che soddisfacesse esigenze diverse ma tutte estranee alla crescita di un movimento: Rifondazione cercava di raggruppare una massa di manovra per contrattare da posizioni migliori il rapporto col Pd-Sel, tenendosi al contempo aperta la possibilità di una aggregazione elettorale attorno al Prc; Sinistra Critica sperava di arrivare a un accordo con Rifondazione; il Pcl di Ferrando era in cerca (come sempre) solo di un palco da cui far parlare l'anziano leader-guru; altri (Usb ecc.) coltivavano il loro personale orticello e Giorgio Cremaschi, ponendosi come federatore dei vari pezzi, generale senza esercito, sperava di poter diventare il candidato di questo arlecchinesco schieramento.
Ma nel giro di pochi giorni Ingroia (sostenuto anche da Arancioni e Di Pietro) ha fatto sfumare questo progetto. Rifondazione (che poi era la forza che portava il grosso dei manifestanti in piazza) non ha esitato a buttare a mare tutto, preferendo uno schieramento più largo che offre maggiori opportunità di superare la soglia di sbarramento. Così a Cremaschi non resta che lamentarsi: "Affermo questo con la rabbia di chi insieme a tanti altri ha provato per un anno a costruire sul campo una forza ed una risposta alternativa. E che ha visto il 31 marzo a Milano e soprattutto il 27 ottobre a Roma delinearsi una possibilità reale di successo. Ma non è andata così (...)."
Mentre scriviamo, Cremaschi insiste perché "si corregga in fretta" il programma della nuova lista e, per parte sua, si dà disponibile a dare suggerimenti... Che consistono nel relativizzare le idee ingroiane sulla crisi come derivato della criminalità e nel prospettare piuttosto "un gigantesco intervento pubblico nell'economia", "un forte controllo democratico sull'economia", una "nuova politica economica e sociale". In altre parole: il solito minestrone neokeynesiano riscaldato.
Per quanto riguarda Cremaschi, resta solo da capire se la lista di Ingroia è interessata ai suoi dotti suggerimenti e gli vuole accordare una candidatura. Ma questo evidentemente poco ci interessa. Per quanto riguarda invece il Comitato No Debito, con ogni evidenza ha esaurito la sua funzione nel momento stesso in cui è spuntata la candidatura di Ingroia al posto di quella di Cremaschi...
Meritano una citazione perlomeno gli articoli intrisi di irritazione di Giorgio Cremaschi, ex presidente del Comitato Centrale della Fiom nonché portavoce (autonominatosi) del cosiddetto Comitato No Debito.
Fin dalla nascita di questo raggruppamento, sorto sulla base di "discriminanti" imposte da Cremaschi e accettate dalle sigle aderenti (Usb, Rifondazione, Sinistra Critica, Pcl, eccetera), in sostanza un programma riformista neokeynesiano (che abbiamo analizzato in altri articoli a cui rimandiamo), mettemmo in guardia i tanti che giustamente parteciparono (come anche noi) alle manifestazioni indette da questo "Comitato". Mettemmo in guardia sia sulle enormi limitazioni della piattaforma (che per questo non abbiamo mai sottoscritto) sia sull'assenza di una struttura democratica, ma segnalammo anche quello che a noi pareva evidente: non vi era da parte di Cremaschi e degli altri autonominatisi dirigenti del Comitato nessuna intenzione di costruire un Comitato nazionale contro il pagamento del debito articolato localmente. L'intenzione che identificammo e denunciammo a più riprese era quella di costruire un raggruppamento che soddisfacesse esigenze diverse ma tutte estranee alla crescita di un movimento: Rifondazione cercava di raggruppare una massa di manovra per contrattare da posizioni migliori il rapporto col Pd-Sel, tenendosi al contempo aperta la possibilità di una aggregazione elettorale attorno al Prc; Sinistra Critica sperava di arrivare a un accordo con Rifondazione; il Pcl di Ferrando era in cerca (come sempre) solo di un palco da cui far parlare l'anziano leader-guru; altri (Usb ecc.) coltivavano il loro personale orticello e Giorgio Cremaschi, ponendosi come federatore dei vari pezzi, generale senza esercito, sperava di poter diventare il candidato di questo arlecchinesco schieramento.
Ma nel giro di pochi giorni Ingroia (sostenuto anche da Arancioni e Di Pietro) ha fatto sfumare questo progetto. Rifondazione (che poi era la forza che portava il grosso dei manifestanti in piazza) non ha esitato a buttare a mare tutto, preferendo uno schieramento più largo che offre maggiori opportunità di superare la soglia di sbarramento. Così a Cremaschi non resta che lamentarsi: "Affermo questo con la rabbia di chi insieme a tanti altri ha provato per un anno a costruire sul campo una forza ed una risposta alternativa. E che ha visto il 31 marzo a Milano e soprattutto il 27 ottobre a Roma delinearsi una possibilità reale di successo. Ma non è andata così (...)."
Mentre scriviamo, Cremaschi insiste perché "si corregga in fretta" il programma della nuova lista e, per parte sua, si dà disponibile a dare suggerimenti... Che consistono nel relativizzare le idee ingroiane sulla crisi come derivato della criminalità e nel prospettare piuttosto "un gigantesco intervento pubblico nell'economia", "un forte controllo democratico sull'economia", una "nuova politica economica e sociale". In altre parole: il solito minestrone neokeynesiano riscaldato.
Per quanto riguarda Cremaschi, resta solo da capire se la lista di Ingroia è interessata ai suoi dotti suggerimenti e gli vuole accordare una candidatura. Ma questo evidentemente poco ci interessa. Per quanto riguarda invece il Comitato No Debito, con ogni evidenza ha esaurito la sua funzione nel momento stesso in cui è spuntata la candidatura di Ingroia al posto di quella di Cremaschi...
Lo sviluppo
delle lotte non c'entra nulla con Ingroia e Ferrero
Da quanto abbiamo detto fin qui emerge con
chiarezza un punto: la Rivoluzione civile di Ingroia, Ferrero, Diliberto,
Bonelli, Di Pietro e De Magistris non c'entra nulla con le necessità di
sviluppare anche in Italia, sull'esempio di quanto sta accadendo in altre parti
d'Europa, una grande mobilitazione unitaria di lavoratori e giovani contro le
politiche dei banchieri. E' così. Le burocrazie della sinistra riformista,
governista, non sono interessate alla lotta di classe ma piuttosto ai
possibili frutti della collaborazione di classe. Per loro le lotte sono
utili solo nella misura in cui possono fungere da trampolino di lancio verso
qualche poltrona. In questa constatazione sta racchiusa la storia della
socialdemocrazia di decenni.
La riflessione e la lotta di chi vuole costruire una mobilitazione in grado di confrontarsi col prossimo governo borghese che inevitabilmente uscirà dalle urne (chiunque sia il vincitore) è ispirata da un altro orizzonte. Non un orizzonte di collaborazione di classe ma di indipendenza e di lotta di classe, non l'alternarsi ciclico di governi dei diversi poli borghesi ma l'alternativa di potere dei lavoratori. E' un progetto che deve trovare alimento e ispirazione non dalle squallide manovre elettorali dei vari Ferrero ma dalle lotte rivoluzionarie in Egitto e Siria, dall'ascesa del movimento operaio spagnolo e greco.
Non avendo la presunzione di costruire da soli questa alternativa di classe che manca, essendo convinti che il Pdac (e le altre sezioni della Lit nel mondo) sono solo uno strumento per costruire quel partito di lotta, comunista e rivoluzionario, internazionalista e internazionale di cui c'è bisogno, di questi temi stiamo discutendo nei congressi locali del Pdac, nelle decine di assemblee che stiamo facendo in giro per l'Italia, nel confronto con gruppi e singoli compagni che sono come noi impegnati quotidianamente nelle lotte operaie e studentesche.
Questi temi saranno il centro del dibattito del nostro III Congresso nazionale, che si svolgerà nell'ultimo fine settimana di gennaio a Rimini.
La riflessione e la lotta di chi vuole costruire una mobilitazione in grado di confrontarsi col prossimo governo borghese che inevitabilmente uscirà dalle urne (chiunque sia il vincitore) è ispirata da un altro orizzonte. Non un orizzonte di collaborazione di classe ma di indipendenza e di lotta di classe, non l'alternarsi ciclico di governi dei diversi poli borghesi ma l'alternativa di potere dei lavoratori. E' un progetto che deve trovare alimento e ispirazione non dalle squallide manovre elettorali dei vari Ferrero ma dalle lotte rivoluzionarie in Egitto e Siria, dall'ascesa del movimento operaio spagnolo e greco.
Non avendo la presunzione di costruire da soli questa alternativa di classe che manca, essendo convinti che il Pdac (e le altre sezioni della Lit nel mondo) sono solo uno strumento per costruire quel partito di lotta, comunista e rivoluzionario, internazionalista e internazionale di cui c'è bisogno, di questi temi stiamo discutendo nei congressi locali del Pdac, nelle decine di assemblee che stiamo facendo in giro per l'Italia, nel confronto con gruppi e singoli compagni che sono come noi impegnati quotidianamente nelle lotte operaie e studentesche.
Questi temi saranno il centro del dibattito del nostro III Congresso nazionale, che si svolgerà nell'ultimo fine settimana di gennaio a Rimini.
Note(1) Sul fallimento del progetto di
Cremaschi e del cosiddetto Comitato No Debito si vedano i suoi più recenti
articoli, reperibili su vari siti internet: "Io ci sto, ma per fare che?"
(19/12/12), "Capitalismo e corruzione" (pubblicato a fine anno su
Contropiano).
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