Non so se vi è mai capitato di avere uno di quegli incubi in cui urlate e la voce non esce; volete correre e le gambe non rispondono; avete urgenza di telefonare e il numero è dimenticato o il telefono non funziona. Questa è la condizione in cui molte persone come me vivono da ormai molto tempo. Chi siamo? Quelli che hanno investito motivazione, studio, impegno, passione, tempo e danaro per provare a partecipare democraticamente alla vita pubblica attraverso la cura, il rispetto, la difesa della scuola della Costituzione. E l’interpretazione convinta e consapevole del mandato costituzionale che ci viene affidato in quanto docenti.
Abbiamo persino fornito una risposta incontrovertibile a chi ci ha sempre accusati di saper dire solo no: non abbiamo solo dissentito in merito alla “riforma” del governo-partito e del partito-governo, capeggiato dall’uomo solo al comando. Abbiamo proposto un’alternativa, la Lipscuola (Legge di iniziativa popolare per una buona scuola per la Repubblica) , ora ddl alla Camera e al Senato grazie ad alcuni parlamentari che l’hanno firmata e depositata [v. Adista Segni Nuovi n. 5/15]. Un dispositivo in 29 articoli, che configura un’idea di scuola sostenibile e soprattutto coerente con il dettato costituzionale.
Nemmeno questo è servito. Non sono servite assemblee, mozioni di collegi dei docenti, raccolte ad una ad una; non sono serviti viaggi, convegni; non è servito, nemmeno, studiare e ristudiare la proposta del governo, considerarne criticamente gli aspetti. Evincere, attraverso l’analisi, che si tratta di un progetto irrealizzabile quanto irricevibile: una scuola gerarchizzata, dove il merito è un’entità astratta, che sta nella testa di un unico decisore. Selezionatore di caporalato, reclutatore di docenti che non avranno più garanzie né mansionari determinati dai loro studi e dalle loro competenze, ma fluttueranno in un albo in attesa di una chiamata, decisa dal dirigente, appunto, che determinerà se andranno in cattedra o a svolgere una delle 13 mansioni alternative previste. In versione ridotta, si ripropone il modello del governo nazionale, con il dirigente scolastico che peraltro assorbirà le funzioni fino ad oggi prerogativa degli organi collegiali, garanzia della democrazia scolastica. Per cui la scuola statale non ha più necessità – nella gioiosa, arrembante, spregiudicata, insensata ode alla “modernità” del nuovo che avanza – di far riferimento ai due principi che più di tutti la rendono viatico di cittadinanza per tutti i cittadini e strumento dell’interesse generale: libertà dell’insegnamento e unitarietà del sistema scolastico nazionale. La prima garanzia di pluralismo e laicità, nonché espressione della dignità del nostro lavoro. L’altra attuazione del principio di uguaglianza, secondo il quale le scuole italiane da Lampedusa a Sondrio devono essere uniformate alle stesse norme generali e sta alla Repubblica istituire scuole di ogni ordine e grado. La proposta, invece, prevede non solo la concessione di sgravi fiscali alla scuola paritaria (che si vanno ad aggiungere ai fondi che annualmente lo Stato le eroga, nonostante il dettato costituzionale); ma il possibile versamento del 5xmille dei contribuenti per la scuola dei propri figli: i ricchi, in scuole già ricche e sempre più ricche. I meno fortunati, confinati e destinati ad una condizione di minorità: la fine della scuola pubblica come “ascensore sociale” prevista dalla Costituzione.
Dodici deleghe in bianco che il governo concede a se stesso su temi nevralgici completano l’opera: il lavoro che verrà inaugurato con l’approvazione del testo verrà completato con l’intervento padronale, portato a termine nelle segrete stanze.
Nella giornata del 5 maggio – dati provvisori del Ministero della Funzione pubblica alla mano – almeno il 65% dei lavoratori avrebbe scioperato, facendo registrare il più grande sciopero della scuola di tutti i tempi. La previsione relativa ai dati definitivi si attesterebbe attorno all’80%. A fronte di questi inediti numeri e della consistenza della protesta – per la quale i lavoratori della scuola hanno sacrificato 42 milioni di euro delle proprie giornate di salario in nome della democrazia – siamo stati apostrofati nelle maniere più volgari ed irriverenti per una protesta democratica, consapevole e diffusa che, innanzitutto, meriterebbe rispetto. La risposta del governo a questa straordinaria mobilitazione, anticipata da flash mob e da partecipate iniziative, è stata inequivocabile: in Commissione cultura hanno approvato il testo – dopo aver imposto contingentamento dei tempi e “ghigliottina” sugli emendamenti – addirittura in anticipo. Il testo approderà in Aula il 19 maggio. Gli emendamenti approvati sono solo un restyling linguistico, che non intacca affatto la filosofia che orienta il progetto.
L’incubo è questo, ed è ancora più claustrofobico, considerato l’uso spregiudicato delle parole al quale nemmeno il peggior Berlusconi era mai arrivato: dicono “ascolto” e poi blindano gli spazi di contraddittorio, confronto e dialettica, nonché di partecipazione. Dicono miglioreremo il testo e poi lo camuffano con spostamenti di frasi o selezioni lessicali che non incidono sulla sostanza. Insultano, irridono: tra Renzi, Faraone e Giannini è stato tutto un irriverente, sarcastico dileggio a coloro che dissentono e continuano a denunciare la situazione.
Ma noi non ci arrendiamo. Per noi, come hanno affermato Bernocchi (Cobas), D’Errico (Unicobas), Pantaleo (Flc), Di Meglio (Gilda), ma soprattutto come hanno affermato le centinaia di migliaia di docenti, studenti, Ata e genitori che si sono riversati in piazza il 5 maggio, il ddl è inemendabile. I numeri al Senato non sono così sbilanciati come alla Camera. I firmatari della Lipscuola stanno già lavorando agli emendamenti sulla base del testo della Lip.
In ragione della condivisione trasversale della Lipscuola, si ritiene inoltre fondamentale continuare l’impegno unitario per la scuola della Costituzione, proponendo che il 18 maggio fioriscano mille iniziative nelle scuole e che la giornata del 19 maggio, giorno in cui il ddl entrerà in Aula, sia caratterizzata ancora una volta da una forte mobilitazione in tutto il Paese; e a Roma, Montecitorio sia circondato da una imponente catena umana, così come le prefetture, terminali locali del governo centrale.
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