Schiaffeggiata,
la minoranza del Pd torna ad agitarsi. A tempo però ormai scaduto. Il partito
della nazione è sbocciato già. Nel segno del tricolore vivono sotto lo stesso
tetto bianchi (tantissimi, da Renzi a Boschi, da Rosato a Guerini, da Carrai a
Zanda, da Franceschini a Picierno, da Faraone a Carbone), rossi (pochissimi e
screditati teorici dei 18 voti aggiuntivi e non sostitutivi), e Verdini (il
destinatario di “strani amori” per la sua cura protettiva verso il premier nei
momenti di difficoltà). Gli intermittenti risvegli della minoranza dem
finiscono per essere funzionali a un partito della nazione che accoglie tutti
sotto il comando incontrastato del parolaio incontinente.
Con i
cascami di Verdini entrati in una maggioranza che combatte i diritti “contro
natura” (altro che nuova Porta Pia di cui fantastica Repubblica elogiando il
pragmatico condottiero), Renzi percepisce che può osare l’impensabile. Che
tutto gli è concesso, anche sfidare gli ultimi tabù di un partito
definitivamente sfigurato. Neanche gli odori occulti sprigionati da Verdini
scatenano qualche reazione incisiva. E allora può diventare pubblico il
rapporto che sinora era tenuto segreto. A Firenze, come a Roma, quegli opachi
odori delle arcane potenze gigliate hanno assicurato al rottamatore il trionfo
sugli avversari interni. Ora che il suo imbarazzante protettore fiorentino è
ospitato in maggioranza, Renzi smaschera l’irrilevanza delle sue opposizioni
interne.
I
giovani turchi, che hanno giocato da subito la carta dell’appoggio totale per
ottenere posti di potere considerati preziosi in un momento di sbandamento,
devono riconoscere il fallimento completo della loro strategia. Non hanno mai
incassato un successo spendibile nell’arte dell’emendamento correttivo e della
copertura subalterna alle scelte in materia di lavoro e costituzione. Neppure
una virgola dei provvedimenti ad elevata portata simbolica sono riusciti a
cambiare. Si possono accontentare di qualche poltrona ricevuta, ma queste
lusinghe della spartizione passiva delle prebende non hanno un grande rilievo
politico e poi alle prossime candidature anche la loro sorte è già segnata.
Quelli
rimasti vicini a Bersani stanno messi anche peggio. La loro condotta in aula,
dopo qualche rituale distinguo iniziale, del tutto impalpabile però nelle
conseguenze, alla fine è sempre stata simile a quella dei giovani turchi, da
loro dipinti in odor di tradimento. Arrendendosi senza condizione al loro
feroce castigatore, non hanno certo migliorato il loro destino o conservato
qualche possibilità concreta di “reconquista” del non-partito. Reclamano
l’inutile congresso quando l’unico luogo in cui poter far male a Renzi è il
parlamento, e qui sempre si adeguano e obbediscono. Anche su di loro si
accanirà la scure implacabile che li priverà di seggi e rilevanza pubblica.
I
signori delle tessere sono già al lavoro per controllare i territori dove si
concentrano gli ultimi focolai di resistenza. In Sicilia le tessere sono
distribuite dall’alto e già sono cadute nelle mani degli eredi di Cuffaro.
Ovunque personaggi ambigui sono al comando dei traffici. A Milano si cerca di imporre
il segno del trionfo del partito della nazione: manager senza colore promossi
alla leadership, trame di affari progettate nell’irrilevanza assoluta della
politica e delle arcaiche questioni legate all’identità della sinistra.
Il
cenno di disappunto di una pattuglia di senatori cattodem incide molto di più
delle minacce a salve della minoranza (un tempo l’area bersaniana comprendeva
l’80 per cento dei parlamentari). Neanche dinanzi a una lotta per la
costituzione, gli esponenti più anziani e prestigiosi della minoranza Pd hanno
osato sfidare il ragazzo di Rignano pronunciando, con Tasso, queste parole di
riscatto: “Giovene ardente, / se ben me vedi in grave età senile, / non sono al
ferro queste man sì lente”. Ora chiedono il congresso solo per proseguire in
moine inutili. Trovino il coraggio di uscire dalla maggioranza se davvero sono
ostili al dominio di strani poteri maturati nel triangolo dell’Etruria.
Si
convincano che i costi di far cadere Renzi o Boschi (che ha raggiunto il
vertice del suo pensiero politico asserendo nella scuola quadri del Pd:
“ragazzi mi sono solo tolto la giacca, mica sono rimasta nuda”) sono inferiori
alla prosecuzione del governo del chiacchiericcio. Sinistra italiana è
un’offerta di ricostruzione politico-culturale che guarda al lungo periodo.
Dare vita a forme incisive di micro-resistenza civica nelle consultazioni
amministrative è, nell’immediato, una strada obbligata per far inciampare il
partito della nazione nel suo tentativo di mettere radici nei territori. Le
occasioni di disobbedienza nelle grandi città devono essere propedeutiche alla
guerra di movimento che si estenderà lungo il biennio referendario
(costituzione, lavoro, scuola, legge elettorale, trivellazioni). Dinanzi alla
vocazione autoritaria di chi governa solo con canguri e voti di fiducia
(persino su questioni etiche), nel silenzio tombale dei custodi, resta solo la
via della mobilitazione dal basso, nel quadro di una lotta irregolare, vista la
gigantesca asimmetria delle forze in campo.
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