Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 5 marzo 2016

Un 8 marzo di lotta contro l’obiezione di coscienza

Il Pdac lancia una campagna
a difesa del diritto di aborto

Commissione Lavoro Donne - Pdac
Il 22 maggio 1978 in Italia diventa legale l’aborto. Dopo una lunga battaglia condotta dal movimento di lotta delle donne e appoggiata da una grossa parte del movimento operaio di quegli anni, viene approvata la legge 194/78 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza), considerata ancora oggi dai legislatori borghesi una delle leggi sul tema più avanzate a livello europeo.
Nonostante questa importante vittoria, il diritto delle donne ad accedere liberamente all’aborto è stato fin da subito duramente attaccato: ancora oggi, anche se trasversalmente nessuno sostiene di voler cambiare o abolire la 194, è palese il tentativo di renderla inefficace, sia dal punto di vista normativo attraverso linee guida, riforme, regolamenti ecc., ma soprattutto dal punto di vista della sua applicazione.
Il maggiore ostacolo alla 194: l’obiezione di coscienza
L’obiezione di coscienza ossia il diritto per il personale medico e sanitario di non praticare interruzioni di gravidanza sulla base di convinzioni ideologiche o religiose (art. 9), è oggi il maggiore ostacolo alla reale applicazione della 194.
Già qualche giorno dopo l’approvazione della legge, alcuni avevano paventato il rischio che un numero elevato di richieste di obiettori si sarebbe potuto trasformare in un “vero e proprio boicottaggio della legge”, intravedendone le ragioni nella assoluta mancanza di conseguenze per l’obiettore. La previsione purtroppo si è rivelata corretta. Oggi, in diverse aree del Paese, dove l'obiezione di coscienza dei medici raggiunge punte del 100%, è impossibile applicare la legge 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza. La cronaca riporta il caso dell'ospedale di Jesi, in provincia di Ancona: 10 ginecologi, 10 obiettori. Ma non mancano situazioni simili in altre Regioni, persino in Lombardia, dove 11 presidi ospedalieri su 63 - tra quelli con un reparto di ginecologia e ostetricia - contano la totalità dei ginecologi contrari all'IVG. Accade così a Roma, a Napoli, a Bari, a Milano, a Palermo.
Secondo quanto contenuto nell’ultima "Relazione sulla attuazione della legge 194/78" del ministero della Salute, in Italia l’obiezione di coscienza è in continuo aumento (si parla del 35% delle strutture ospedaliere che non praticano più IVG) con una media nazionale del 70%.
Ci sono regioni d’Italia dove l’obiezione è ancora più alta. La Calabria sta al 73%, il Veneto al 77%, la Campania all’82%, in Puglia gli obiettori di coscienza sono l’86% del totale, in Sicilia l’87,6 % e nel Lazio l’80%. In Basilicata si è arrivati al 90 % di obiettori e il Molise ha la maglia nera, con il 93,3%, che significa che in quella regione sono solo due i medici che applicano la legge 194 e praticano l’interruzione volontaria della gravidanza. Ma il dato che impressiona di più è che, se si escludono la Valle D’Aosta che sta al 13,3% e la Sardegna che sta al 49,7%, tutte le regioni di Italia sono sopra il 50%, anche le regioni con governi di centrosinistra, Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Marche.
La lettura dei dati diventa anche più preoccupante se, oltre alle percentuali, si prova a prevedere cosa succederà con i pesanti tagli alla sanità pubblica: l’età media dei medici che oggi applicano ancora la 194, è molto alta e si calcola che quando andranno in pensione non ci saranno sufficienti giovani medici per sostituirli. Tra l’altro le nuove generazioni si inseriscono spesso già orientate verso la scelta dell’obiezione per ragioni che non hanno nulla a che vedere con le convinzioni ideologiche o religiose: il medico non obiettore subisce discriminazioni sul posto di lavoro e pressioni psicologiche da parte dei colleghi, non riesce a fare carriera in quanto abortista e del proprio lavoro riesce a cogliere solo un aspetto, ripetendo quotidianamente in serie sempre la stessa operazione.
L’obiezione di coscienza si estende
L’aspetto più allarmante è che oltre a stratificarsi nella gerarchia ospedaliera con un raggio di copertura che va dal vertice di medici e anestesisti, passando per il personale infermieristico, fino alla base del personale ausiliario, l’obiezione di coscienza si sta estendo anche come campo di applicazione: la scelta non coinvolge più soltanto la pratica dell’IVG, ma persino la prescrizione di farmaci contraccettivi o di tecniche abortive alternative. L’adozione della RU486, per l’aborto farmacologico meno invasivo di quello chirurgico, è boicottata nei fatti dalla circolare che impone un ricovero più lungo (tre giorni) di quello previsto per l’intervento, con pazienti sottoposte a vere e proprie vessazioni psicologiche e fisiche, umilianti e dolorose (i forum in rete sono pieni di racconti ad esempio di personale obiettore che rifiuta persino la somministrazione di analgesici per lenire i dolori abortivi) e con l’impossibilità ad accedervi a causa della lunga degenza per le lavoratrici precarie, per le minorenni, per le immigrate, spesso non in grado di giustificare assenze prolungate sul posto di lavoro o in famiglia.
Oggi, in Italia, abortire seguendo la legge è spesso quasi impossibile. La percentuale di adesione all’obiezione di coscienza e la conseguente chiusura di numerosi presidi ginecologici, comporta trafile da incubo fra porte sbattute in faccia, pellegrinaggi alla ricerca di medici non obiettori, numeri da prendere al volo, prenotazioni, giornate perse, settimane che passano con il corpo che cambia e la gravidanza che procede inesorabile con conseguenze facilmente immaginabili. Questo significa che praticare l’interruzione di gravidanza è diventato per le donne italiane un percorso ad ostacoli e contro il tempo. La loro possibilità di autodeterminare la propria sessualità sia nella contraccezione sia nella maternità è sottoposta al ricatto di un’altra scelta, quella dell’obiezione di coscienza, frutto di una cultura maschilista che le preferisce succubi e relegate tra le mura domestiche ad accudire forza lavoro per il capitale.
La terra bruciata intorno: l’impoverimento dei consultori
L’attacco all’autodeterminazione delle donne fondamentalmente basato sul crescente ricorso all’obiezione di coscienza di medici e personale paramedico, avviene nel vuoto totale sul versante dei servizi, un vuoto ottenuto attraverso il depotenziamento progressivo dei consultori pubblici, fino a proposte di riforma di questi tese ad eliminare la funzione per cui sono nati, e l’ingerenza per legge delle associazioni antiabortiste nelle strutture sanitarie pubbliche (auspicata trasversalmente da settori cattolici del centrodestra e del centrosinistra).
La legge 194/78 che ha legalizzato l'interruzione volontaria di gravidanza sottolinea il ruolo centrale del consultorio nella promozione della procreazione responsabile, dell'educazione sessuale e della prevenzione dell'aborto. I consultori familiari sono stati istituiti e regolati dalla legge 405/75 e sono stati inseriti nelle unità sanitarie locali dal 1980 con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale. Queste leggi, anche se entrambe frutto di compromesso politico, nacquero sulla spinta del movimento delle donne degli anni ’70 e del movimento operaio che avevano posto e rivendicato, proprio in quegli anni, l’esigenza di partire dalle condizioni sociali e lavorative per una nuova scienza ed una nuova medicina.
La concezione del consultorio che ne emergeva, come struttura di base territoriale con organizzazione multidisciplinare e orizzontale, aperta alla partecipazione delle donne, forse ha avuto una applicazione parziale soltanto nei primi anni, quando i consultori erano gestiti e frequentati da quegli operatori, operatrici ed utenti che avevano lottato per ottenerli.
In realtà il sistema sanitario nazionale è stato sempre avaro di finanziamenti per queste strutture; nessun investimento è stato fatto, ed oggi, con la scomparsa dello stato sociale, con i tagli ai servizi pubblici, con la loro privatizzazione e soprattutto a seguito del riflusso del movimento di lotta delle donne, i consultori sono suscettibili di scomparsa ed esposti agli attacchi di chi, considerandoli “abortifici”, intende abolirli a favore di “altri” consultori familiari, magari gestiti dai fondamentalisti “centri di aiuto alla vita”.
La previsione di legge di un consultorio ogni 20.000 abitanti non è mai stata realizzata, con una particolare penalizzazione per le regioni del sud. I dati degli ultimi anni ci dicono che i consultori pubblici diminuiscono, mentre aumentano quelli privati. Questi vengono comunque finanziati da fondi pubblici, finendo per essere favoriti in quanto possono scegliere quali prestazioni erogare (ad es. i consultori cattolici possono rifiutare i servizi contraccettivi a favore della mediazione familiare), mentre i pubblici sono obbligati per legge ad erogare tutte le prestazioni. A ciò si aggiunga la frequente presenza di organici insufficienti, incompleti e non stabili, la presenza di operatori che praticano l’obiezione di coscienza rispetto all’aborto e che rendono impossibile la certificazione necessaria per l’intervento, l’accesso, già consentito in alcune regioni, di volontari del movimento per la vita, con la funzione di dissuadere le donne dall’interruzione di gravidanza.
L’attacco ai consultori dunque è una deliberata operazione di destrutturazione e di distruzione di un servizio pubblico, per poi affermare che non funziona, e infine darlo in pasto al mercato; è quel che avviene nella scuola, nei servizi, in altri settori della sanità e dell’assistenza. Sono le donne a pagare il prezzo più alto delle riforme in questi settori: da un lato come utenti sono penalizzate perché la mancanza di servizi ricade interamente sulle loro spalle, dall’altro perché sono i settori in cui sono maggiormente impiegate (paradossalmente una volta licenziate ed espulse dal mondo del lavoro, tornano in casa per dedicarsi alla cura di bambini, anziani e ammalati, per sopperire in questo modo le mancanze dello Stato).
Il dramma nel dramma: l’aborto clandestino
Da anni ormai nella relazione al parlamento sulla legge 194, si cita una stima di 15/20mila aborti illegali, un numero calcolato soltanto sul tasso di abortività delle donne italiane (6,9 per 1000) e sottostimato per stessa ammissione del ministero. Molti altri elementi però portano almeno al raddoppio di quella cifra, facendo salire la quota delle interruzioni di gravidanza clandestine a 40/50mila l'anno, per esempio parametrando le stime dell'illegalità al tasso di abortività delle immigrate, che è di 26,4 interruzioni ogni mille donne, tre volte quello delle italiane. Analizzando poi i dati Istat inoltre si vede con chiarezza quanto gli aborti spontanei sono aumentati, passando dai 55mila casi degli anni Ottanta, ai quasi ottantamila di oggi. E secondo molti studiosi questa impennata altro non è che il ritorno dell'aborto clandestino "mascherato", esattamente come avveniva prima della 194, quando le donne dopo aver tentato di "fare da sole" arrivavano in ospedale con emorragie e dolori, e i medici per salvarle completavano gli aborti, registrati come "spontanei".
Sul corpo delle donne è tornato a fiorire l'antico e ricco business che la legge 194 aveva quasi estirpato: cliniche fuorilegge e contrabbando di farmaci.
L'aborto clandestino riguarda tutti i ceti della società. Ci sono gli aborti d'oro, quelli dei ceti elevati, che si svolgono in sicurezza negli studi medici (magari gli stessi che nel pubblico sono obiettori), oppure all'estero: Svizzera, Inghilterra, Francia, 400 euro per una IVG entro il terzo mese, circa 3000 per un aborto terapeutico (oltre la 22esima settimana) in clinica. Ma non tutte possono andare all'estero, non tutte possono pagare queste cifre: ci sono allora gli aborti delle donne povere, delle minorenni, delle clandestine, che si affidano ad ambulatori fuorilegge o che comprano le pasticche e, se qualcosa va male, si presentano al Pronto Soccorso affermando di aver avuto un aborto spontaneo. La percentuale di successo di questi solitari aborti, quasi sempre farmacologici e di cui si trovano dettagliate istruzioni in Rete, è alta: oltre il 90%, ma chi sbaglia rischia la vita o lesioni permanenti. Accedere ai servizi è sempre più difficile, una corsa a ostacoli, e le donne meno esperte, le più fragili, le più giovani, le straniere, finiscono nella trappola dell'illegalità.
La correlazione tra l’impossibilità di applicare la 194 per l’alto ricorso all’obiezione di coscienza e questo circuito di clandestinità, è evidente e sotto gli occhi di tutti. Sottovalutare il legame esistenze tra aborto clandestino e obiezione di coscienza significa mentire su un problema reale che molte donne affrontano nel corso della loro vita. Significa riportare la condizione delle donne italiane a quella di circa quarant’anni fa, tragicamente al tempo in cui l’aborto nella sua clandestinità era un fatto puramente privato, da risolvere velocemente e nel silenzio più assoluto.
Oltre al danno anche la beffa: le multe
Ma c’è un’altra conseguenza del fatto che l’obiezione sia così elevata. Oltre alla sofferenza per una scelta che non è mai facile per una donna e al giudizio di colpa che le donne devono affrontare quando attraversano gli ospedali pubblici così pieni di obiettori, il Paese degli obiettori fa pagare alle donne un prezzo ancora più alto e beffardo.
Nel decreto n. 8 del 15 gennaio 2016 approvato dal Consiglio dei Ministri, cosiddetto decreto delle depenalizzazioni, c’è anche l’aborto clandestino, per il quale le donne verranno punite con una sanzione amministrativa compresa tra i 5mila e i 10mila euro, mentre il reato penale per chi abortisce oltre i 90 giorni di gravidanza viene cancellato.
In precedenza, secondo quanto stabilito dall’articolo 19 della legge 194, la multa nei confronti delle donne che praticavano l’interruzione di gravidanza in clandestinità era stata fissata a 51 euro. Una cifra simbolica che aveva lo scopo di consentire al sesso femminile di andare in ospedale in caso di complicanze e di denunciare coloro che praticavano gli aborti fuori dalle strutture pubbliche.
La conseguenza pratica di questa “depenalizzazione” sarà che le donne non andranno più a curarsi rinunciando alla propria salute né a denunciare chi compie atti illeciti, violando la legge. Anziché tentare di contrastare l’aborto clandestino, il governo decide di comminare sanzioni salatissime alle donne, quelle stesse donne che dovrebbero essere considerate le vittime di un’azione illegale e che spesso si configura ai limiti della violenza.
Come detto, le donne ricorrono all’illegalità o alla clandestinità perché spesso non hanno altra scelta. L’obiezione di coscienza è arrivata a livelli talmente alti da impedire alle donne l’esercizio di un diritto che ormai dovrebbe essere più che consolidato.
Ma a dimostrazione che in Italia l’obiezione di coscienza è un diritto consolidato, l’aborto invece no, arrivano le nuove multe previste dalla legge sulle depenalizzazioni che anziché affrontare il problema, puniscono in maniera ancora più aspra quelle donne che si trovano ad affrontare una delle difficoltà più grandi della loro vita.
La criminalizzazione dell'aborto è un'altra forma di violenza contro la donna
La società capitalista condanna le donne che praticano l'aborto. Questa stessa società che le condanna ha svilito la sessualità femminile in ambito pubblico e privato, ha prostituito la donna e la utilizza come oggetto sessuale e, allo stesso tempo, la censura quando esercita liberamente la sua sessualità. La maggior parte dei Paesi non garantisce un'adeguata educazione sessuale nelle scuole, né distribuisce gratuitamente gli anticoncezionali. Alle donne si chiede di essere sottomesse mediante false ideologie della classe dominante e dei settori più conservatori della società; in maniera cosciente si negano loro la conoscenza ed il controllo del proprio corpo, della sessualità e della riproduzione, non solo per mantenere il maschilismo come meccanismo di oppressione, ma anche per perpetuare lo sfruttamento della mano d'opera femminile che è più economica di quella maschile. Le donne della classe lavoratrice e dei settori più poveri della società, condannate ad avere gravidanze indesiderate, non possono garantire le minime condizioni materiali ed emotive per un giusto sviluppo armonico di questi figli. Il sistema capitalista condanna questi bambini a diventare facile preda dei peggiori mali della società: criminalità, tossicodipendenza, disoccupazione.
Il numero di aborti clandestini e delle morti di donne in relazione alla gravidanza conferma che le posizioni che criminalizzano l'aborto e che sostengono di difendere la vita non sono altro che ipocrisia. E' deleterio in particolare il ruolo della Chiesa cattolica - piena di soggetti che abusano di donne e bambini - che non solo contrasta la legalizzazione dell'aborto, ma anche l'uso del preservativo, condannando i suoi giovani seguaci al contagio dell'Aids.
D'altra parte, con posti di lavoro precari, gli unici cui ha accesso la stragrande maggioranza delle giovani lavoratrici, la gravidanza è causa immediata di licenziamento. Si tratta di un'altra forma di violenza contro le donne che vogliono essere madri.
Il Pdac lancia una campagna contro l’obiezione di coscienza
Come donne lavoratrici e sfruttate, insieme ai lavoratori e compagni maschi con cui lottiamo quotidianamente, vogliamo utilizzare questo 8 marzo per prendere coscienza che la violenza e gli abusi sono meccanismi di oppressione che servono a tenere in piedi lo sfruttamento del sistema capitalista contro migliaia di milioni di lavoratori e poveri del mondo. L’8 marzo è nato come giornata di lotta e tale deve restare: per questo abbiamo deciso di avviare proprio in questa occasione una campagna di mobilitazione contro l’obiezione di coscienza e per la sua abolizione, perché se un diritto deve prevalere su un altro, deve essere sicuramente quello delle donne ad autodeterminarsi rispetto al proprio corpo e alla propria sessualità.
Il Partito di Alternativa Comunista, sezione italiana della Lit-Lega internazionale dei lavoratori, pur riconoscendo la necessità di estendere e garantire il diritto di aborto al di là dei limiti della 194, si batte per garantirne l’applicazione in tutti gli ospedali attraverso l'abolizione dell'obiezione di coscienza e l'introduzione delle migliori tecniche per la salvaguardia della salute delle donne (pillola abortiva), per l’estensione alle minorenni del ricorso all’IVG senza autorizzazione genitoriale o dei tribunali borghesi, per l’accesso gratuito e senza prescrizione medica alla "pillola del giorno dopo" (senza l'obiezione di coscienza dei farmacisti), per l'esclusione del Movimento per la vita e delle altre associazioni antiabortiste dai consultori e dai reparti di ginecologia, per il potenziamento dei servizi pubblici a supporto delle donne, abolendo ogni finanziamento ai servizi privati e del privato sociale, per la sostituzione a scuola dell'ora di religione con un'ora di educazione alla sessualità, alla contraccezione e alla salute, per il controllo delle lavoratrici, delle giovani e delle immigrate sull'erogazione e la gestione di tali servizi.

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