Elio Franceschi. Tratto dall'edizione di settembre 2012 del periodico "il giornale comunista dei lavoratori"
La storia dell'acciaio di padron Riva
A Genova lo dipingono come il perfido Richard Barras di “E le stelle stanno a guardare”, drammone d'appendice di Archibald Josef Cronin: uno che calpesta i diritti dei lavoratori pur di ingrassare il suo interesse economico. D'altronde Emilio Riva non ha mai fatto nulla per nascondere il suo profilo di padrone delle ferriere. Esempio: a Genova, in fabbrica, nell'ex Acciaierie di Cornigliano (praticamente sue dal 1988 quando assunse la maggioranza nel consorzio Cogea) le donne non fumano e vengono a lavorare in divisa perché altrimenti turbano la produttività degli operai maschi.
Come impiegati Riva non assume laureati ma ragionieri: gente che sa far di conto e non rompe le palle.
A Milano farà peggio: per anni, assumerà solo impiegati in arrivo da Varese, da Caronno Pertusella e dintorni, dove aveva la base. Perché? Perché solo così può creare una comunità autoctona, fedele, gente disposta perfino a spiarsi a vicenda.
Dalle Acciaierie di Cornigliano, all'Italsider, all'Ilva, che Riva compra (dall'Iri di Romano Prodi) per un tozzo di pane nel 1995, anno uno delle grandi privatizzazioni, negli stabilimenti dei Riva la mano destra non deve mai sapere cosa fa la sinistra.
Ancora prima che arrivasse Riva i bilanci erano perlopiù un optional: le porcherie che c'erano dentro erano puntualmente revisionate e avvalorate da Deloitte & Touche, quelli della Parmalat, per intenderci. A furia di truccare le carte nel 1993 arriva a Genova Hayao Nakamura, uno degli ultimi amministratori delegati del gruppo Ilva prima della privatizzazione. Con lui i conti cominciano a quadrare per un obiettivo, all'epoca, complesso: rendere appetitoso tutto quello che può essere buono per gli investitori privati, comprese le prime bad company italiane, cioè le società decotte che si prendono sul groppone i debiti delle altre.
Nakamura fa un buon lavoro e, non a caso, la sua poltrona dura meno di un anno. Riva, diventato nel 1995 proprietario unico dell'Ilva privatizzata, torna a fare i giochi delle tre carte con i conti togliendo dalla testa di tutti l'idea di andare in Borsa.
Sbarcare in piazza Affari vuol dire farsi mettere il naso nei bilanci almeno ogni tre mesi e Riva non ci pensa nemmeno.
Lui ha ben altro a cui pensare, prima di tutto a rendere insopportabile la vita quotidiana in fabbrica.
Ancora oggi Riva mette un segno colorato accanto a ogni nome nella distinta delle buste paga. Se vicino al tuo nome c'è il segnetto blu va tutto bene: ti becchi il premio produzione a fine anno e vai avanti così. Se il segno è giallo devi stare attento: mi hai rotto parecchio le balle e devi rigare dritto. Se accanto al tuo nome il segnetto è rosso sei fottuto: niente premio di produzione e sei vicino al licenziamento. Chi lo conosce bene sostiene che sono più importanti quei tre segni che l'intero contenuto della busta paga.
A Genova esisteva la famigerata palazzina degli orrori di via Ilva, la via dedicata alla vecchia fabbrica, quella dei primi del Novecento. Adesso non c'è più: al suo posto c'è l'unico hotel a cinque stelle del capoluogo, il Bentley.
La palazzina (smantellata casualmente dopo che Riva è stato condannato per mobbing a Taranto nel 2001) aveva al piano terra degli enormi stanzoni, open space dove c'erano solo scrivanie su ognuna delle quali era posato un telefono che poteva solo ricevere. Lì venivano confinati operai o impiegati che si rendevano colpevoli di troppe (secondo Riva) assenze per mutua oppure, ancora peggio, testoni che, nonostante le indicazioni-intimidazioni dei dirigenti, continuavano a pagare le quote al sindacato.
Erano tutti dei reietti a cui veniva data la busta paga ma che non dovevano più essere messi nelle condizioni di lavorare. Piuttosto, facessero ginnastica, bricolage, maglioni per otto ore al giorno, come effettivamente avveniva.
Chi ha vissuto quegli anni in fabbrica dice che parecchie persone (tra cui una giovane impiegata) messe al confino nella palazzina di via Ilva siano poi morte di cancro derivato dalla depressione. Nonostante questo, e nonostante una sentenza di condanna a Taranto per episodi di mobbing e tentata violenza privata, a Genova Riva l'ha sempre fatta franca.
Senza che i sindacati battessero ciglio, estromessi da tutto. Perché l'Ilva è una grande famiglia, secondo il vangelo del padrone, e tra noi, dicono i dirigenti, non c'è bisogno del sindacato, considerato da Riva una “figura non necessaria”.
Se c'è qualche problema, la mia porta è sempre aperta, bussi, entri e ne parliamo. All'Ilva di Genova, dal 1995 al 2000 le organizzazioni sindacali non hanno autorizzazione ad accedere agli stabilimenti. Semplicemente chi ha una tessera sindacale non può entrare. A lui viene riservato un trattamento speciale: se non ha effetto il pressing quotidiano dei capireparto (che girano intorno agli operai con tessera facendo costanti pressioni psicologiche) si passa all'invito a presentarsi dal capo del personale il quale, a Milano nella sede centrale di viale Certosa, si prodiga a dissuaderli dal rinnovare la tessera.
Risultato? A Genova, nel 1999, non c'è più una tessera sindacale rinnovata, soprattutto tra gli impiegati. A Taranto è andata peggio: dopo la privatizzazione le iscrizioni sono passate dal 70-80% a meno del 30% tra gli operai, mentre fra gli impiegati si è passati dal 50% a zero. Sempre a Taranto si dice che addirittura le segreterie dei tre sindacati abbiano sempre suggerito ai delegati di “lasciar stare” i nuovi assunti per occuparsene dopo. E i risultati di questa tattica li vediamo oggi.
A Genova la situazione è cambiata solo dopo che la politica è scesa in campo contrattando coi Riva fino a concedergli l'uso di una serie di banchine del porto per cinquant'anni (più o meno a partire dal 2005) in cambio della chiusura della cokeria altamente inquinante e di qualche tessera sindacale in più.
A Taranto invece Riva ha sempre fatto quello che ha voluto, facendosi scudo coi corpi degli oltre 20 mila addetti, tra diretti e indotto.
Con i suoi metodi Riva è riuscito a fondare un gruppo che, dal 2005, è tra i primi dieci produttori di acciaio al mondo e che oggi possiede 36 siti produttivi di cui 19 in Italia dove viene prodotto oltre il 62% dell'acciaio e dove l'Azienda realizza il 67% del proprio fatturato, passato dai 5,8 miliardi di euro del 2009 agli oltre 10 miliardi del 2011. Non un solo centesimo, hanno accertato i magistrati, è stato speso per mettere a norma lo stabilimento di Taranto anche se, sul sito del gruppo Riva, campeggia una frase che sa di presa per i fondelli: “le strategie definite dalla Direzione, nel programmare lo sviluppo, non perdono mai di vista la compatibilità tra l'ambiente, le specifiche attività e la migliore integrazione nei diversi contesti socio-economici in cui il Gruppo è presente”. Humor nero, visto come sta andando a finire la vicenda in Puglia.
A Taranto la vita è insostenibile, all'interno e all'esterno dello stabilimento, mentre nei siti sparsi per l'Europa i Riva si guardano bene dallo sgarrare anzi vincono premi per il basso impatto ambientale (come dimostrano le controllate tedesche Hes, Hennigsdorfer Elektrostahlwerke GmbH e Bes, Brandenburger Elektrostahlwerke GmbH ).
Perché, dunque, in Italia i Riva fanno quello che vogliono? Perché hanno sempre goduto di protezioni altissime.
E' un caso che qualcuno abbia cominciato a rompergli le scatole proprio quando è tramontata la stella di Berlusconi?
Via Berlusconi, gli rimane comunque Corrado Passera, adesso all'interno del governo col ruolo di ministro dello Sviluppo economico e delle infrastrutture ma già trait d'union con Banca Intesa, l'ex Cariplo, sempre a fianco dei Riva fin dalla privatizzazione. All'epoca, nel '95, Passera era amministratore delegato del Banco Ambrosiano Veneto che poi diventerà Cariplo e finanzierà l’offerta per comprare la fabbrica messa in vendita dallo Stato, un'operazione da 2.200 miliardi di lire, cioè più di un miliardo di euro attuali.
Quella della privatizzazione, dicono, più che altro è stato un regalo fatto dall'allora presidente dell'Iri Romano Prodi: è come se una latteria comprasse la centrale del latte. Riva comunque per prendersi l'Ilva pare non abbia sborsato soldi né per l'avviamento né per alcun brevetto, ha pagato solo il patrimonio netto, cioè il capitale sociale più le riserve. E' che, già al tempo, sponsor dell'operazione sono stati personaggi di primo piano del “cartello delle banche” nostrano: Passera, appunto, e Alessandro Profumo, che era già amministratore delegato di Unicredit. Due grand commis che si vedevano girare spesso nelle stanze della sede dei Riva di viale Certosa in visite pastorali che venivano annunciate dagli impiegati con tecnicismi finanziari del tipo: “oggi si sente Profumo di Passera”.
Altri personaggi che si aggiravano spesso nella sede milanese erano i rappresentanti della famiglia Amenduni, in genere annunciati da guardie del corpo che sembravano prese da “Goodfellas” di Martin Scorsese.
Gli Amenduni sono l'aristocrazia della siderurgia italiana, proprietari tra l'altro della Amenduni Acciaio Spa e delle Acciaierie Valbruna, colosso degli acciai inossidabili.
Autarchici e del tutto avversi all'esposizione mediatica, possiedono attualmente il 10% dell'Ilva , ma il loro ingresso nell'azienda privatizzata nel '95 sembrava avere l'unico scopo reale di fornire un 'padrinato' di rango ai Riva che si avventuravano in un territorio pressoché sconosciuto come Taranto, feudo invece degli Amenduni.
Ciò non toglie che due mesi fa il loro rappresentante abbia votato contro il bilancio del gruppo Ilva chiedendo informazioni su certi trasferimenti di denaro dal colosso siderurgico a finanziarie personali dei Riva.
Un altro paradosso di questa storia è costituito dai sindacati che non vogliono sentirselo dire ma sembrano schierati apertamente a protezione degli interessi del padrone che sono a rischio. Certo, a rischio c'è la maggiore produzione europea di acciaio, visto che a Taranto Riva produce quasi tutto l'acciaio che poi lavora negli altri stabilimenti (tra la Hellenic Steel greca, Tnusiacier e Ilva Maghreb in nord Africa).
Che tutto il sindacato (a eccezione della Fiom) scioperi per proteggere l'attività del padrone non s'era mai visto, mi dice un ex impiegato di Riva. E c'è pure chi sostiene che, con tutto il potere che mettono in campo i Riva, finisce che i soldi per gli interventi per risanare i siti (190 milioni di euro, pare) ce li metteremo noi. O che loro ne metteranno un po' e noi pagheremo il resto, quello che contrattano con Passera.
Niente di più facile.
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