Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

giovedì 11 giugno 2015

Morte di un rivoluzionario

a cura di Luciano Granieri.


E’ morto ieri a New York un vero rivoluzionario. Aveva 85 anni il suo nome era Ornette Coleman, sassofonista, violinista, compositore. Un esempio di come la liberazione della musica dagli schemi della rigidità melodica sia metafora della liberazione del   popolo nero e di tutte le minoranze opresse “L’universalità della musica consiste nella sua attitudine a preservare l’uomo libero” ebbe a dire in un’intervista  al giornalista e critico Franco Fayenz. E libero Coleman lo è sempre stato, anche dalle costrizioni commerciali. Nel 1974 in tournee in Italia, rinunciò ai  lauti compensi che gli sarebbero derivati dalla partecipazione ad alcuni concerti, per suonare gratuitamente alla mostra del suo grande amico pittore Guy Harloff.  L’anno prima durante un viaggio in Marocco ebbe modo  di suonare con un gruppo di musicisti berberi in un piccolo paese di montagna chiamato Jejouka. E si dispiacque molto quando la sua casa discografica di allora  (la Columbia) si rifiutò di pubblicare quel materiale giudicato troppo poco commerciale.  Quattro minuti di quell’esibizione  , dal titolo “Midnight  Sunrise”  furono pubblicati in seguito  nel 1977 all’interno dell’LP “Dancing in your head”.   La sua opera “manifesto” è stata “Free Jazz” una pietra miliare della musica contemporanea del ‘900. Per ricordare la figura di Coleman pubblichiamo un’inter­vi­sta,  apparsa nel ’97 in Fran­cia sulla rivi­sta Les Inroc­kup­ti­bles   — di cui si sono perse le tra­scri­zioni ori­gi­nali —rea­liz­zata dal filo­sofo Jac­ques Der­rida il 23 giu­gno 1997. Testo riproposto dal periodico Alias nel novembre scorso.   Ornette Cole­man,  mae­stro dell’avanguardia nera si tro­vava a Parigi per tre con­certi alla Vil­lette, museo e sede per le arti perfor­ma­tive (tra le quali il Conservatorio). Il filo­sofò inter­vi­stò Ornette Cole­man, che era al momento impegnato   con il pro­getto “Civi­li­za­tion”, una serie di esi­bi­zioni che com­pren­de­vano ese­cu­zione della par­titura sin­fo­nica Skies Of Ame­rica, con­certi in trio con Billy Hig­gins e Char­lie Haden, mem­bri del suo Quar­tetto «sto­rico», e infine un con­certo di Prime Time, il gruppo elet­trico e «free funk».

Com­po­si­zione, improv­vi­sa­zione, lin­gua, raz­zi­smo sono le tema­ti­che prin­ci­pali della chiacchierata.

Quest’anno pre­sen­terà un pro­gramma dal titolo “Civi­liz­za­zione”. Che rap­porto c’è fra il titolo che ha scelto e la sua musica?
“Cerco di espri­mere un con­cetto secondo cui una cosa può essere tra­dotta in un’altra. Credo che il suono abbia una rela­zione assai demo­cra­tica con l’informazione, per­ché non c’è biso­gno dell’alfabeto per capire la musica. Quest’anno sto pre­pa­rando un pro­getto con la Filar­mo­nica di New York e il mio primo quar­tetto (senza Don Cherry) e altri gruppi in aggiunta. Sto cer­cando di rea­liz­zare l’idea secondo cui il suono si rin­nova ogni volta che viene espresso.”
Lei ritiene di agire più da com­po­si­tore o da musicista?
“Come com­po­si­tore, spesso la gente mi dice, ‘Suo­nerà brani che ha già suo­nato, o cose nuove?’”
Dun­que lei non risponde mai a que­ste domande, giusto?
“Se ti trovi a suo­nare musica che hai già regi­strato, la mag­gior parte dei musi­ci­sti riterrà di essere stata chia­mata a man­te­ner viva quella musica spe­ci­fica. E la mag­gior parte dei musi­ci­sti non ha grande entu­sia­smo quando si trova a suo­nare la stessa musica in con­ti­nua­zione. Dun­que io pre­fe­ri­sco scri­vere musica che non è mai stata ese­guita prima.
Vuole sor­pren­derli?
“Sì, voglio sti­mo­larli piut­to­sto che sem­pli­ce­mente chie­dere loro di accom­pa­gnarmi in pub­blico. Ma è dif­fi­cile da farsi, per­ché il musi­ci­sta di jazz è pro­ba­bil­mente l’unica per­sona per la quale la figura del com­po­si­tore non è qual­cosa di inte­res­sante, nel senso che pre­fe­ri­sce ‘distrug­gere’ quanto il com­po­si­tore scrive o suona.”
Quando afferma che il suono è più “demo­cra­tico”, come la mette con il fatto che è un com­po­si­tore, e scrive musica come tutti in forma codificata?
“Nel 1972 ho scritto una sin­fo­nia dal titolo “Skies Of Ame­rica” è stato quasi una tra­ge­dia, per­ché io non avevo un gran bella rela­zione con la scena musi­cale: esat­ta­mente come quando facevo free jazz, la gente per­lo­più cre­deva che sem­pli­ce­mente io pren­dessi il mio sas­so­fono, e poi mi met­tessi a suo­nare quanto mi pas­sava per la testa, senza seguire alcuna regola. Il che ovvia­mente non è vero.”
Noto che lei spesso ribatte quell’accusa…
“Certo. La gente al di fuori crede che sia una forma di libertà ecce­zio­nale, io credo invece che sia un limite. Dun­que ci sono voluti vent’anni, ma oggi final­mente posso avere un brano suo­nato dall’orchestra sin­fo­nica di New York e dal suo diret­tore. Giorni fa par­lando con mem­bri della Filar­mo­nica, que­sti mi hanno detto, ‘Senti Ornette, le per­sone inca­ri­cate delle par­ti­ture hanno biso­gno di vedere le tue’. Io ero ter­ri­bil­mente arrab­biato: è come se mi aves­sero scritto una let­tera e una terza per­sona la dovesse leg­gere per con­fer­marmi che nella let­tera stessa non c’è nulla che possa irri­tarmi. Era per essere sicuri che la Filar­mo­nica non avrebbe avuto disturbi. E poi mi han detto, ‘L’unica cosa che vogliamo sapere è se c’è un punto lì, una parola in quell’altro spa­zio’. In realtà non aveva nulla a che fare con la musica o con il suono, ma solo con i sim­boli che usiamo. Infatti la musica che scrivo da trent’anni e che defi­ni­sco ‘armo­lo­dia’ è come se stessi fab­bri­cando le mie parole per­so­nali, con un’idea pre­cisa di cosa quelle parole nuove deb­bano signi­fi­care per le altre persone.”
Ma chi suona con lei con­di­vide que­sta con­ce­zione della musica?
“Nor­mal­mente io parto dal fatto di scri­vere qual­cosa che loro pos­sano ana­liz­zare, la suono assieme a loro, e poi con­se­gno le par­ti­ture. Nella prova suc­ces­siva chiedo loro di mostrarmi cos’hanno sco­perto, e come dall’idea di base se ne pos­sano svi­lup­pare altre. Lo fac­cio sia con i musi­ci­sti, sia con gli stu­denti dei miei corsi. Io credo che chiun­que tenti di espri­mersi con le parole, con la poe­sia, nella forma che volete, può pren­dere il mio libro dell’armolodia e scri­vere seguen­done i pre­cetti, con la stessa pas­sione e gli stessi ele­menti di fondo”.
Nella pre­pa­ra­zione del nuovo pro­getto di New York, ha prima scritto la musica e poi chie­sto a chi doveva par­te­ci­pare di leg­gerla, vedere se si tro­vava in accordo, e alla fine di tra­sfor­mare il mate­riale originario?
“Per la Filar­mo­nica ho dovuto scri­vere le parti per ogni stru­mento, foto­co­piarle, poi con­fron­tarmi con la per­sona che si occupa delle par­ti­ture. Con i gruppi jazz, com­pongo e distri­bui­sco le parti diret­ta­mente alle prove. Quello che è vera­mente scon­cer­tante nella musica improv­vi­sata è che, a dispetto del nome che usiamo, la mag­gior parte dei musi­ci­sti in realtà usa una base per improv­vi­sare. Mi sono tro­vato di recente a inci­dere un disco con un musi­ci­sta euro­peo, Joa­chim Kühn, e la musica che ho scritto per suo­nare con lui, e poi regi­strata nell’agosto del ’96, ha due carat­te­ri­sti­che: è total­mente improv­vi­sata, e al con­tempo segue leggi e regole della musica euro­pea. Ciò nono­stante, a sen­tirla, sem­bra quasi total­mente improvvisata.”
Rica­pi­to­lando: il musi­ci­sta legge lo schema di fondo, e poi inter­viene il tocco personale?
“Sì, l’idea è che due o tre per­sone pos­sano avere una con­ver­sa­zione con i suoni senza che nes­suno tenti di gui­dare o indi­riz­zare la con­ver­sa­zione stessa. Intendo dire: si tratta di intel­li­genza, quella è la parola. Credo che nella musica improv­vi­sata i musi­ci­sti cer­chino di rimet­tere assieme i pezzi di un puzzle emo­tivo o intel­let­tuale, e in ogni caso si tratta di un puzzle nel quale il tono è dato dagli stru­menti. Il pia­no­forte più o meno sem­pre è ser­vito come base per la musica, ma ora non è più indi­spen­sa­bile: infatti gli aspetti più pro­pria­mente com­mer­ciali della musica sono diven­tati molto incerti. Peral­tro la musica che passa attra­verso il mer­cato non è neces­sa­ria­mente più acces­si­bile, ma ha dei limiti.”
Quando ini­zia a pro­vare, tutto è pronto e scritto, o già pre­vede di lasciare spazi aperti?
“Sup­po­niamo di essere nel momento in cui si suona e tu capti qual­cosa che potrebbe essere svi­lup­pato. A quel punto dovre­sti dirmi, ‘Pro­viamo que­sto’. La musica non ha lea­der, per quanto mi riguarda.
Cosa ne pensa della rela­zione tra il con­certo, che è poi l’evento, la musica scritta e la musica improv­vi­sata? Ritiene che la musica scritta impe­di­sca all’evento di accadere?
“No. Non so se sia vero per le que­stioni che atten­gono alla lin­gua ma nel jazz si può pren­dere un pezzo molto antico e farne una nuova ver­sione. La cosa ecci­tante è il ricordo che se ne tra­smette al pre­sente. Comun­que ciò di cui parla, la meta­mor­fosi di una forma in una forma diversa è qual­cosa di assai sano, ma molto rara.”
Forse sarà d’accordo con me sul fatto che al cuore dell’improvvisazione è la let­tura, dal momento che spesso ciò che capiamo dall’improvvisazione è la crea­zione di qual­cosa di nuovo, ma che tut­ta­via non esclude la matrice scritta che la ha resa possibile…
“Vero”.
Non credo di essere un esperto sulla sua musica, ma se provo a tra­durre ciò che lei fa in un ambito che cono­sco meglio, quello del lin­guag­gio scritto, l’evento unico — che si pro­duce una volta sola – è cio­non­di­meno qual­cosa di ripe­tuto nella strut­tura stessa. C’è dun­que una ripe­ti­zione, nella strut­tura, intrin­seco alla crea­zione ini­ziale, che com­pro­mette o comun­que com­plica il con­cetto di improv­vi­sa­zione. La ripe­ti­zione è già nell’improvvisazione: dun­que quando la gente tende a intrap­po­larti tra improv­vi­sa­zione e scrit­tura alla base, è in torto…
“La ripe­ti­zione è natu­rale esat­ta­mente come il fatto che la terra ruota”.
Lei pensa che la sua musica e il modo in cui la gente rea­gi­sce possa o debba cam­biare le cose, ad esem­pio a livello poli­tico, o in una rela­zione ses­suale? Il suo ruolo di arti­sta e com­po­si­tore può (o dovrebbe) avere un effetto sullo stato delle cose?
“No, non lo credo, ma ritengo che molte per­sone ne abbiano già fatto espe­rienza prima di me, e se comin­cio a lamen­tarmi, mi diranno, ‘Per­ché ti lamenti? Non siano cam­biati a causa di que­sta per­sona che ammi­riamo ben più di te, per­ché dovremmo cam­biare gra­zie a te?’ Dun­que di fondo non la penso così. Vivevo nel sud degli Stati Uniti quando le mino­ranze erano oppresse, e mi iden­ti­fi­cavo con loro attra­verso la mia musica. Ero in Texas, comin­ciai a suo­nare il sas­so­fono e a gua­da­gnarmi da vivere per me e la mia fami­glia suo­nando alla radio. Un giorno capi­tai in un posto pieno di gente che gio­cava d’azzardo e di pro­sti­tute, gente che liti­gava, e mi capitò di vedere una donna accol­tel­lata. Pen­sai di dover scap­pare da lì. Allora dissi a mia madre che non volevo più suo­nare la musica, che era come aggiun­gere sof­fe­renza alla sof­fe­renza. Mi rispose, ‘Che ti è preso, vuoi che qual­cuno ti paghi per la tua anima?’. Non ci avevo pen­sato, e quando me lo disse, e come se avessi rice­vuto un nuovo battesimo”.
Sua madre aveva le idee molto chiare…
“Sì, era una donna intel­li­gente. Ho pro­vato da quel giorno stesso a cer­care il modo per non sen­tirmi in colpa nel fare cose che le altre per­sone non fanno.”
E ha avuto successo?
“Non lo so, ma nel frat­tempo era venuto fuori il bebop, e lo vidi come una via d’uscita. E’ musica stru­men­tale non con­nessa spe­ci­fi­ca­ta­mente a una scena, che può esi­stere a pre­scin­dere dal luogo. Dovun­que io suo­nassi il blues, c’erano frotte di per­sone senza lavoro che non face­vano altro che gio­carsi i soldi. Allora mi scelsi il bebop, la cosa nuova che stava suc­ce­dendo a New York, e mi dissi che dovevo andar là. Avevo appena dicias­sette anni. Me ne andai di casa, mi diressi a sud”.
Prima di andare a Los Angeles?
“Sì, avevo i capelli lun­ghi come i Bea­tles, era l’inizio degli anni Cin­quanta. Dun­que me ne andai a sud, e tutti pro­va­vano a menarmi, poli­zia e gente nera; non gli pia­cevo. Avevo un look troppo biz­zarro per loro. Mi pren­de­vano a pugni e cer­ca­vano di rom­pere il mio sax. Era dura. Inol­tre ero con un gruppo che suo­nava quella che più o meno chia­ma­vamo “musica con i fiati da mene­strelli” e cer­cavo di fare bebop, stavo anche facendo pro­gressi e avevo tro­vato ingaggi. Ero a New Orleans, me ne sono andato a visi­tare una fami­glia molto reli­giosa, e ho comin­ciato a suo­nare in una chiesa nera. Quand’ero pic­colo, suo­navo sem­pre e solo in chiesa. Da quando mia madre mi disse quelle parole, sono andato alla ricerca di una musica che potessi suo­nare senza sen­tirmi in colpa per aver pro­vato a fare qual­cosa. E a tutt’oggi non l’ho ancora trovata”.
Quando è arri­vato a New York, ancora molto gio­vane, ha avuto qual­che tipo di pre­mo­ni­zione su quelle che sareb­bero state le sue sco­perte musi­cali, l’armolodia, o è suc­cesso tutto dopo?
“No, per­ché quando sono arri­vato a New York mi trat­ta­vano gros­so­modo come un tipo del sud che non cono­sce la musica, che non sa né leg­gere né scri­vere. Non ho mai pro­vato a con­tro­bat­tere. Ho poi deciso che avrei comin­ciato a svi­lup­pare le mie idee, e senza l’aiuto di nes­suno. Mi sono affit­tato il tea­tro Town Hall, era il 21 dicem­bre del 1962, per 600 dol­lari, ho ingag­giato un gruppo rhythm’n’blues, uno clas­sico e un trio. La sera del con­certo ci sono stati: una tor­menta di neve, uno scio­pero dei gior­nali, uno scio­pero dei medici e uno della metro­po­li­tana, così è andata finire che le sole per­sone che sono arri­vate al Town Hall sono state quelle che erano riu­scite ad arri­varci. Avevo chie­sto a qual­cuno di regi­strare il con­certo, ma quel qual­cuno s’è sui­ci­dato, ed è suc­cesso che qual­cun altro ha regi­strato il con­certo, fon­dato la sua eti­chetta con quella regi­stra­zione, ed è spa­rito nel nulla. Tutto ciò mi ha fatto capire, una volta di più, che lo avevo fatto per la stessa ragione per cui avevo detto a mia madre che non avrei suo­nato più lì. Ovvia­mente la situa­zione da un punto di vista di tec­no­lo­gia, finan­zia­rio, sociale e per­fino di rischio cri­mi­nale era dav­vero peg­gio di quando ero nel sud. Bus­savo a porte che rima­ne­vano osti­na­ta­mente chiuse.”
Qual è stato l’impatto di suo figlio sul suo lavoro? E ha a che fare con l’uso di nuove tec­no­lo­gie nella sua musica?
“Da quando Denardo è il mio mana­ger, ho capito final­mente che la tec­no­lo­gia è sem­plice, e ne ho com­preso il significato”.
Ha avuto la sen­sa­zione che l’intro­du­zione della tec­no­lo­gia abbia por­tato cam­bia­menti vio­lenti nel suo pro­getto, o è stata cosa facile? E, d’altra parte, il suo pro­getto Civi­li­za­tion ha che fare con quanto viene defi­nito globalizzazione?
“C’è qual­cosa di vero in entrambe le affer­ma­zioni, nel senso di poter chie­dere a te stesso se siano esi­stiti ‘uomini bian­chi pri­mi­tivi’: la tec­no­lo­gia sem­bra sia in grado di coprire solo l’area di senso di ‘bianco’.

Mi sem­bra di capire che lei non creda al con­cetto di glo­ba­liz­za­zione, e ritengo sia nel giu­sto… Se con­si­deri la musica, i com­po­si­tori che sono stati real­mente ‘inven­tori’ nella cul­tura occi­den­tale sono forse una mezza doz­zina. Lo stesso vale per la tec­no­lo­gia, gli inven­tori dei quali ho sen­tito dav­vero par­lare sono indiani di Cal­cutta e di Bom­bay. Ci sono un sacco di scien­ziati indiani e cinesi. Le loro inven­zioni sono come delle inver­sioni di idee di inven­tori ame­ri­cani o euro­pei, ma la stessa parola ‘inven­tore’ ha assunto un con­no­tato di domi­na­zione raz­ziale che è diven­tato più impor­tante dell’invenzione stessa, cosa ben tri­ste, per­ché è l’equivalente di una qual­che spe­cie di pro­pa­ganda. Quello che intendo dire è che le dif­fe­renze tra uomo e donna o tra le razze sono in rela­zione alle edu­ca­zioni e alle cre­denze. Dal momento che io sono nero e discen­dente di schiavi, non ho alcuna idea di quale fosse il mio lin­guag­gio d’origine”.

Se fos­simo qui a par­lare di me (e non è que­sto il caso) direi che, in modo dif­fe­rente ma ana­logo, mi suc­cede esat­ta­mente la stessa cosa. Sono nato in una fami­glia di ebrei alge­rini che par­la­vano fran­cese, che non era la loro lin­gua d’origine. Ho scritto un pic­colo libro su que­sto argo­mento, e in un certo senso sono sem­pre nel pro­cesso di par­lare in quello che defi­ni­sco ‘il mono­lin­gui­smo dell’Altro’. Non ho con­tatti di sorta con la lin­gua d’origine o, meglio ancora, con quella dei miei sup­po­sti antenati.
“Non si chiede mai se la lin­gua in cui parla ora inter­fe­ri­sce, con­di­ziona il suo vero pen­siero? Un lin­gua d’origine può influen­zare i pensieri?”
E’ un enigma per me. Non lo so. Credo che qual­cosa parli attra­verso di me, una lin­gua che io non capi­sco, una lin­gua che a volte cerco di tra­durre più o meno facil­mente nella ‘mia lin­gua’. Ovvia­mente io sono un intel­let­tuale fran­cese, inse­gno in scuole dove si parla fran­cese, ma ho sem­pre l’impressione che qual­cosa mi forzi a far qual­cosa per la lin­gua francese…
“Ma lei sa che, per quanto riguarda le mie vicende, negli Stati Uniti esi­ste lo ‘ebo­nics’, che sarebbe l’inglese che par­lano i neri: che è poi poter usare un’espressione che signi­fica qual­cosa di diverso rispetto all’inglese stan­dard. La comu­nità nera ha sem­pre usato un lin­gua a dop­pio signi­fi­cato. Quando sono arri­vato in Cali­for­nia, è stata la prima volta che mi sono tro­vato in un posto dove un bianco non mi diceva che non potevo sedermi in un certo posto. Poi qual­cuno ha comin­ciato a farmi mol­tis­sime domande, e io non riu­scivo a rispon­dere, allora sono andato da uno psi­chia­tra per vedere se riu­scivo a rispon­dere. E quello mi ha pre­scritto del valium. L’ho preso e but­tato nella tazza del water. Non sem­pre mi ren­devo conto di dove fossi, così sono andato in una biblio­teca e ho fatto ricer­che in tutti i libri che ho tro­vato sul cer­vello, mi son letto tutto. E i libri dice­vano che il cer­vello in fondo è con­ver­sa­zione. Non dice­vano a pro­po­sito di che, ma mi ha fatto capire che il fatto di pen­sare e appren­dere non dipende solo dal posto dove sei nato. Credo di capire sem­pre meglio che quello che chia­miamo cer­vello, nel senso di cono­scenza e essere, non è la stessa cosa del cer­vello che ci fa essere ciò che siamo.”
Que­sto è sem­pre un fatto di con­vin­zione: noi cono­sciamo noi stessi in base a quanto cre­diamo. Natu­ral­mente nel suo caso è tra­gico, ma è un fatto uni­ver­sale: noi cre­diamo (o sup­po­niamo di cre­dere) che siamo quel che siamo attra­verso le sto­rie che ci rac­con­tano. Un fatto rile­vante è che abbiamo esat­ta­mente la stessa età, siamo nati lo stesso anno. Quando ero gio­vane, durante la guerra (non  sono mai stato in Fran­cia prima dei dician­nove anni) vivevo in Alge­ria, e nel 1940 sono stato espulso da scuola per­ché ero ebreo, come risul­tato delle leggi raz­ziali, e non riu­scivo nep­pure a capire cosa stesse suc­ce­dendo. L’ho capito molto tempo dopo, e que­sto attra­verso sto­rie che mi hanno fatto capire chi fossi, per così dire. E per­fino per quanto riguarda sua madre, noi sap­piamo chi è e che è in un certo modo solo attra­verso la nar­ra­zione. Ho cer­cato di capire in quale momento sto­rico lei fosse a New York e a Los Ange­les, ed è stato prima che venis­sero rico­no­sciuti i diritti civili ai neri d’America. La prima volta che sono stato negli Stati Uniti, nel 1956, c’erano car­telli ‘solo per bian­chi’ ovun­que, mi ricordo la bru­ta­lità del mes­sag­gio. Lei ne ha avuta espe­rienza diretta?
“Certo. Sia come sia, quello che mi piace di Parigi è che non puoi essere snob e raz­zi­sta allo stesso tempo, non fun­ziona. Parigi è l’unica città che io cono­sca dove il raz­zi­smo non appare mai in tua pre­senza, è qual­cosa di cui senti solo parlare.”
Ciò non signi­fica che non ci sia raz­zi­smo, ma che sia com­mi­su­rato obbli­ga­to­ria­mente al con­te­sto in cui si trova ad essere. Qual è la stra­te­gia alla base della sua scelta musi­cale per Parigi?
“Essere un inno­va­tore per me non signi­fica essere più intel­li­gente, più ricco. Non è una parola, è un’azione. E dal momento che tale azione non s’è ancora pro­dotta, non ha senso parlarne.”
Ho capito che lei pre­fe­ri­sce il fare al par­lare. Ma come si com­porta lei con le parole? Qual è la rela­zione tra la musica che fa e le sue parole, o quelle che le per­sone cer­cano di sovrap­porre a quello che lei fa? Pren­diamo ad esem­pio il pro­blema di sce­gliere un titolo, come lo concepisce?
“Una mia nipote è morta a feb­braio di quest’anno e sono andato al suo fune­rale. Quando l’ho vista nella bara, ho notato che qual­cuno le aveva messo degli occhiali. Lì mi è venuta l’idea di chia­mare un mio pezzo ‘Lei dor­miva, morta, nella bara e indos­sava occhiali’. Poi ho cam­biato idea, e quel pezzo l’ho chia­mato ‘Appun­ta­mento al buio’.”
Vuol dire che quel titolo s’è impo­sto da solo?
“E’ che cer­cavo di capire il fatto che qual­cuno avesse messo gli occhiali a una donna morta..avevo una qual­che idea di cosa signi­fi­cava, ma è molto dif­fi­cile capire il modo di con­ce­pire la vita fem­mi­nile, quando tale modo nulla a che fare con quello maschile”.
Lei ritiene che il suo modo di scri­vere musica ha a che fare con il modo in cui si rela­ziona con le donne?
“Prima di essere cono­sciuto come musi­ci­sta, quando lavo­ravo in un grande magaz­zino un giorno, durante la pausa pranzo, sono capi­tato in una mostra, e lì c’era un qua­dro che aveva dipinto qual­cuno che ritraeva una donna bianca e ricca, una di quelle per­sone che hanno asso­lu­ta­mente tutto nella vita, ed aveva espres­sione più soli­ta­ria che abbia mai visto, in volto. Non mi ero mai imbat­tuto con una tale soli­tu­dine, e quando sono tor­nato a casa ho scritto il pezzo che si inti­tola ‘Donna solitaria’”.
Intende dire che la scelta del titolo non è stata una scelta di parole ma un rife­ri­mento diretto all’esperienza vis­suta? Le fac­cio que­ste domande sulla lin­gua, sulle parole, per­ché per pre­pa­rarmi all’incontro con lei ho ascol­tato la sua musica e ascol­tato quello che ne hanno scritto i cri­tici. E la scorsa notte ho letto un arti­colo che era infatti un’analisi per una con­fe­renza fatta da un mio amico, Rodol­phe Bur­ger, un musi­ci­sta che ha un gruppo che si chiama Kat Onoma. L’analisi era costruita su sue affer­ma­zioni. Per ten­tate di ana­liz­zare il modo in cui lei con­ce­pi­sce la sua musica, ha preso spunto dalle sue affer­ma­zioni, la prima delle quali era, ‘Per ragioni delle quali non sono certo, sono con­vinto che prima di diven­tare musica, musica era solo una parola’. Si ricorda di averlo detto?
“No”
Ma lei come inter­preta o capi­sce le sue stesse affer­ma­zioni? Sono cose importanti?
“Mi inte­ressa assai di più avere una rela­zione umana con lei piut­to­sto che una rela­zione musi­cale. Voglio veri­fi­care se rie­sco a espri­mermi con le parole, con suoni che hanno a che fare con una rela­zione umana. Allo stesso tempo, mi pia­ce­rebbe essere in grado di par­lare della rela­zione tra due talenti, tra due azioni. Per me, la rela­zione umana è la cosa più bella, per­ché ti mette in con­di­zione di gua­da­gnarti la libertà che desi­deri, per te e per l’altra persona.”
(tra­du­zione e cura di Guido Festinese)




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