E’ morto ieri a New York un vero rivoluzionario. Aveva 85
anni il suo nome era Ornette Coleman, sassofonista, violinista, compositore. Un
esempio di come la liberazione della musica dagli schemi della rigidità
melodica sia metafora della liberazione del popolo nero e di tutte le minoranze opresse “L’universalità della musica
consiste nella sua attitudine a preservare l’uomo libero” ebbe a dire in un’intervista al giornalista e critico Franco Fayenz. E
libero Coleman lo è sempre stato, anche dalle costrizioni commerciali. Nel 1974
in tournee in Italia, rinunciò ai lauti
compensi che gli sarebbero derivati dalla partecipazione ad alcuni concerti,
per suonare gratuitamente alla mostra del suo grande amico pittore Guy
Harloff. L’anno prima durante un viaggio
in Marocco ebbe modo di suonare con un gruppo di musicisti berberi in un
piccolo paese di montagna chiamato Jejouka. E si dispiacque molto quando la sua
casa discografica di allora (la
Columbia) si rifiutò di pubblicare quel materiale giudicato troppo poco
commerciale. Quattro minuti di quell’esibizione
, dal titolo “Midnight Sunrise” furono pubblicati in seguito nel 1977 all’interno dell’LP “Dancing in your
head”. La sua opera “manifesto” è stata “Free Jazz”
una pietra miliare della musica contemporanea del ‘900. Per ricordare la figura
di Coleman pubblichiamo un’intervista, apparsa nel ’97 in Francia sulla rivista Les Inrockuptibles — di cui si sono perse le trascrizioni originali —realizzata
dal filosofo Jacques Derrida il 23 giugno 1997. Testo riproposto dal periodico Alias nel novembre scorso. Ornette Coleman, maestro dell’avanguardia nera si trovava a Parigi
per tre concerti alla Villette, museo e sede per le arti performative
(tra le quali il Conservatorio). Il filosofò
intervistò Ornette Coleman, che era al momento impegnato con il progetto
“Civilization”, una serie di esibizioni che comprendevano esecuzione
della partitura sinfonica Skies Of America, concerti in trio con
Billy Higgins e Charlie Haden, membri del suo Quartetto «storico»,
e infine un concerto di Prime Time, il gruppo elettrico e
«free funk».
Composizione, improvvisazione, lingua, razzismo
sono le tematiche principali della chiacchierata.
Quest’anno
presenterà un programma dal titolo “Civilizzazione”. Che rapporto c’è
fra il titolo che ha scelto e la sua musica?
“Cerco di esprimere
un concetto secondo cui una cosa può essere tradotta in un’altra. Credo che
il suono abbia una relazione assai democratica con l’informazione, perché
non c’è bisogno dell’alfabeto per capire la musica. Quest’anno sto preparando
un progetto con la Filarmonica di New York e il mio primo quartetto
(senza Don Cherry) e altri gruppi in aggiunta. Sto cercando di realizzare
l’idea secondo cui il suono si rinnova ogni volta che viene espresso.”
Lei
ritiene di agire più da compositore o da musicista?
“Come compositore,
spesso la gente mi dice, ‘Suonerà brani che ha già suonato, o cose
nuove?’”
Dunque
lei non risponde mai a queste domande, giusto?
“Se ti trovi
a suonare musica che hai già registrato, la maggior parte dei musicisti
riterrà di essere stata chiamata a mantener viva quella musica specifica.
E la maggior parte dei musicisti non ha grande entusiasmo quando si
trova a suonare la stessa musica in continuazione. Dunque io preferisco
scrivere musica che non è mai stata eseguita prima.
Vuole
sorprenderli?
“Sì, voglio stimolarli
piuttosto che semplicemente chiedere loro di accompagnarmi in pubblico.
Ma è difficile da farsi, perché il musicista di jazz è probabilmente
l’unica persona per la quale la figura del compositore non è qualcosa
di interessante, nel senso che preferisce ‘distruggere’ quanto il compositore
scrive o suona.”
Quando
afferma che il suono è più “democratico”, come la mette con il fatto che
è un compositore, e scrive musica come tutti in forma codificata?
“Nel 1972 ho
scritto una sinfonia dal titolo “Skies Of America” è stato quasi una
tragedia, perché io non avevo un gran bella relazione con la scena musicale:
esattamente come quando facevo free jazz, la gente perlopiù credeva che
semplicemente io prendessi il mio sassofono, e poi mi mettessi
a suonare quanto mi passava per la testa, senza seguire alcuna regola.
Il che ovviamente non è vero.”
Noto
che lei spesso ribatte quell’accusa…
“Certo. La gente al
di fuori crede che sia una forma di libertà eccezionale, io credo invece che
sia un limite. Dunque ci sono voluti vent’anni, ma oggi finalmente posso
avere un brano suonato dall’orchestra sinfonica di New York e dal suo
direttore. Giorni fa parlando con membri della Filarmonica, questi mi
hanno detto, ‘Senti Ornette, le persone incaricate delle partiture hanno
bisogno di vedere le tue’. Io ero terribilmente arrabbiato: è come se
mi avessero scritto una lettera e una terza persona la dovesse leggere
per confermarmi che nella lettera stessa non c’è nulla che possa irritarmi.
Era per essere sicuri che la Filarmonica non avrebbe avuto disturbi.
E poi mi han detto, ‘L’unica cosa che vogliamo sapere è se c’è un
punto lì, una parola in quell’altro spazio’. In realtà non aveva nulla
a che fare con la musica o con il suono, ma solo con i simboli
che usiamo. Infatti la musica che scrivo da trent’anni e che definisco
‘armolodia’ è come se stessi fabbricando le mie parole personali,
con un’idea precisa di cosa quelle parole nuove debbano significare per le
altre persone.”
Ma
chi suona con lei condivide questa concezione della musica?
“Normalmente io
parto dal fatto di scrivere qualcosa che loro possano analizzare, la suono
assieme a loro, e poi consegno le partiture. Nella prova successiva
chiedo loro di mostrarmi cos’hanno scoperto, e come dall’idea di base se
ne possano sviluppare altre. Lo faccio sia con i musicisti, sia con
gli studenti dei miei corsi. Io credo che chiunque tenti di esprimersi con
le parole, con la poesia, nella forma che volete, può prendere il mio libro
dell’armolodia e scrivere seguendone i precetti, con la stessa passione
e gli stessi elementi di fondo”.
Nella
preparazione del nuovo progetto di New York, ha prima scritto la musica
e poi chiesto a chi doveva partecipare di leggerla, vedere se si
trovava in accordo, e alla fine di trasformare il materiale
originario?
“Per la Filarmonica
ho dovuto scrivere le parti per ogni strumento, fotocopiarle, poi confrontarmi
con la persona che si occupa delle partiture. Con i gruppi jazz, compongo
e distribuisco le parti direttamente alle prove. Quello che
è veramente sconcertante nella musica improvvisata è che,
a dispetto del nome che usiamo, la maggior parte dei musicisti in
realtà usa una base per improvvisare. Mi sono trovato di recente a incidere
un disco con un musicista europeo, Joachim Kühn, e la musica che ho
scritto per suonare con lui, e poi registrata nell’agosto del ’96, ha
due caratteristiche: è totalmente improvvisata, e al contempo
segue leggi e regole della musica europea. Ciò nonostante, a sentirla,
sembra quasi totalmente improvvisata.”
Ricapitolando:
il musicista legge lo schema di fondo, e poi interviene il tocco
personale?
“Sì, l’idea
è che due o tre persone possano avere una conversazione con
i suoni senza che nessuno tenti di guidare o indirizzare la conversazione
stessa. Intendo dire: si tratta di intelligenza, quella è la parola.
Credo che nella musica improvvisata i musicisti cerchino di rimettere
assieme i pezzi di un puzzle emotivo o intellettuale, e in
ogni caso si tratta di un puzzle nel quale il tono è dato dagli strumenti.
Il pianoforte più o meno sempre è servito come base per la
musica, ma ora non è più indispensabile: infatti gli aspetti più propriamente
commerciali della musica sono diventati molto incerti. Peraltro la musica
che passa attraverso il mercato non è necessariamente più accessibile,
ma ha dei limiti.”
Quando
inizia a provare, tutto è pronto e scritto, o già prevede
di lasciare spazi aperti?
“Supponiamo di
essere nel momento in cui si suona e tu capti qualcosa che potrebbe
essere sviluppato. A quel punto dovresti dirmi, ‘Proviamo questo’. La
musica non ha leader, per quanto mi riguarda.
Cosa
ne pensa della relazione tra il concerto, che è poi l’evento, la musica
scritta e la musica improvvisata? Ritiene che la musica scritta impedisca
all’evento di accadere?
“No. Non so se sia
vero per le questioni che attengono alla lingua ma nel jazz si può prendere
un pezzo molto antico e farne una nuova versione. La cosa eccitante
è il ricordo che se ne trasmette al presente. Comunque ciò di cui
parla, la metamorfosi di una forma in una forma diversa è qualcosa di
assai sano, ma molto rara.”
Forse
sarà d’accordo con me sul fatto che al cuore dell’improvvisazione è la lettura,
dal momento che spesso ciò che capiamo dall’improvvisazione è la creazione
di qualcosa di nuovo, ma che tuttavia non esclude la matrice scritta che la
ha resa possibile…
“Vero”.
Non
credo di essere un esperto sulla sua musica, ma se provo a tradurre ciò
che lei fa in un ambito che conosco meglio, quello del linguaggio scritto,
l’evento unico — che si produce una volta sola – è cionondimeno qualcosa
di ripetuto nella struttura stessa. C’è dunque una ripetizione, nella
struttura, intrinseco alla creazione iniziale, che compromette
o comunque complica il concetto di improvvisazione. La ripetizione
è già nell’improvvisazione: dunque quando la gente tende a intrappolarti
tra improvvisazione e scrittura alla base, è in torto…
“La ripetizione
è naturale esattamente come il fatto che la terra ruota”.
Lei
pensa che la sua musica e il modo in cui la gente reagisce possa
o debba cambiare le cose, ad esempio a livello politico, o in
una relazione sessuale? Il suo ruolo di artista e compositore può (o
dovrebbe) avere un effetto sullo stato delle cose?
“No, non lo credo,
ma ritengo che molte persone ne abbiano già fatto esperienza prima di me,
e se comincio a lamentarmi, mi diranno, ‘Perché ti lamenti? Non
siano cambiati a causa di questa persona che ammiriamo ben più di te,
perché dovremmo cambiare grazie a te?’ Dunque di fondo non la penso
così. Vivevo nel sud degli Stati Uniti quando le minoranze erano oppresse,
e mi identificavo con loro attraverso la mia musica. Ero in Texas,
cominciai a suonare il sassofono e a guadagnarmi da vivere per
me e la mia famiglia suonando alla radio. Un giorno capitai in un posto
pieno di gente che giocava d’azzardo e di prostitute, gente che litigava,
e mi capitò di vedere una donna accoltellata. Pensai di dover scappare
da lì. Allora dissi a mia madre che non volevo più suonare la musica, che
era come aggiungere sofferenza alla sofferenza. Mi rispose, ‘Che ti
è preso, vuoi che qualcuno ti paghi per la tua anima?’. Non ci avevo pensato,
e quando me lo disse, e come se avessi ricevuto un nuovo battesimo”.
Sua
madre aveva le idee molto chiare…
“Sì, era una donna
intelligente. Ho provato da quel giorno stesso a cercare il modo per
non sentirmi in colpa nel fare cose che le altre persone non fanno.”
E
ha avuto successo?
“Non lo so, ma nel
frattempo era venuto fuori il bebop, e lo vidi come una via d’uscita. E’
musica strumentale non connessa specificatamente a una scena, che
può esistere a prescindere dal luogo. Dovunque io suonassi il blues,
c’erano frotte di persone senza lavoro che non facevano altro che giocarsi
i soldi. Allora mi scelsi il bebop, la cosa nuova che stava succedendo
a New York, e mi dissi che dovevo andar là. Avevo appena diciassette
anni. Me ne andai di casa, mi diressi a sud”.
Prima
di andare a Los Angeles?
“Sì, avevo
i capelli lunghi come i Beatles, era l’inizio degli anni Cinquanta.
Dunque me ne andai a sud, e tutti provavano a menarmi, polizia
e gente nera; non gli piacevo. Avevo un look troppo bizzarro per loro.
Mi prendevano a pugni e cercavano di rompere il mio sax. Era
dura. Inoltre ero con un gruppo che suonava quella che più o meno chiamavamo
“musica con i fiati da menestrelli” e cercavo di fare bebop, stavo
anche facendo progressi e avevo trovato ingaggi. Ero a New Orleans,
me ne sono andato a visitare una famiglia molto religiosa, e ho
cominciato a suonare in una chiesa nera. Quand’ero piccolo, suonavo
sempre e solo in chiesa. Da quando mia madre mi disse quelle parole, sono
andato alla ricerca di una musica che potessi suonare senza sentirmi in colpa
per aver provato a fare qualcosa. E a tutt’oggi non l’ho ancora
trovata”.
Quando
è arrivato a New York, ancora molto giovane, ha avuto qualche tipo
di premonizione su quelle che sarebbero state le sue scoperte musicali,
l’armolodia, o è successo tutto dopo?
“No, perché quando
sono arrivato a New York mi trattavano grossomodo come un tipo del
sud che non conosce la musica, che non sa né leggere né scrivere. Non ho mai
provato a controbattere. Ho poi deciso che avrei cominciato
a sviluppare le mie idee, e senza l’aiuto di nessuno. Mi sono
affittato il teatro Town Hall, era il 21 dicembre del 1962, per 600 dollari,
ho ingaggiato un gruppo rhythm’n’blues, uno classico e un trio. La sera
del concerto ci sono stati: una tormenta di neve, uno sciopero dei giornali,
uno sciopero dei medici e uno della metropolitana, così è andata
finire che le sole persone che sono arrivate al Town Hall sono state quelle
che erano riuscite ad arrivarci. Avevo chiesto a qualcuno di registrare
il concerto, ma quel qualcuno s’è suicidato, ed è successo che qualcun
altro ha registrato il concerto, fondato la sua etichetta con quella registrazione,
ed è sparito nel nulla. Tutto ciò mi ha fatto capire, una volta di più,
che lo avevo fatto per la stessa ragione per cui avevo detto a mia madre
che non avrei suonato più lì. Ovviamente la situazione da un punto di vista
di tecnologia, finanziario, sociale e perfino di rischio criminale
era davvero peggio di quando ero nel sud. Bussavo a porte che rimanevano
ostinatamente chiuse.”
Qual
è stato l’impatto di suo figlio sul suo lavoro? E ha a che fare
con l’uso di nuove tecnologie nella sua musica?
“Da quando Denardo
è il mio manager, ho capito finalmente che la tecnologia è semplice,
e ne ho compreso il significato”.
Ha
avuto la sensazione che l’introduzione della tecnologia abbia portato
cambiamenti violenti nel suo progetto, o è stata cosa facile? E,
d’altra parte, il suo progetto Civilization ha che fare con quanto viene
definito globalizzazione?
“C’è qualcosa di
vero in entrambe le affermazioni, nel senso di poter chiedere a te
stesso se siano esistiti ‘uomini bianchi primitivi’: la tecnologia sembra
sia in grado di coprire solo l’area di senso di ‘bianco’.
Mi sembra di capire che lei non creda al concetto di globalizzazione,
e ritengo sia nel giusto… Se consideri la musica, i compositori
che sono stati realmente ‘inventori’ nella cultura occidentale sono forse
una mezza dozzina. Lo stesso vale per la tecnologia, gli inventori dei
quali ho sentito davvero parlare sono indiani di Calcutta e di Bombay.
Ci sono un sacco di scienziati indiani e cinesi. Le loro invenzioni sono
come delle inversioni di idee di inventori americani o europei, ma la
stessa parola ‘inventore’ ha assunto un connotato di dominazione razziale
che è diventato più importante dell’invenzione stessa, cosa ben triste,
perché è l’equivalente di una qualche specie di propaganda. Quello che
intendo dire è che le differenze tra uomo e donna o tra le
razze sono in relazione alle educazioni e alle credenze. Dal momento
che io sono nero e discendente di schiavi, non ho alcuna idea di quale
fosse il mio linguaggio d’origine”.
Se
fossimo qui a parlare di me (e non è questo il caso) direi che, in
modo differente ma analogo, mi succede esattamente la stessa cosa. Sono
nato in una famiglia di ebrei algerini che parlavano francese, che non era
la loro lingua d’origine. Ho scritto un piccolo libro su questo argomento,
e in un certo senso sono sempre nel processo di parlare in quello che
definisco ‘il monolinguismo dell’Altro’. Non ho contatti di sorta con la
lingua d’origine o, meglio ancora, con quella dei miei supposti antenati.
“Non si chiede mai
se la lingua in cui parla ora interferisce, condiziona il suo vero pensiero?
Un lingua d’origine può influenzare i pensieri?”
E’
un enigma per me. Non lo so. Credo che qualcosa parli attraverso di me, una
lingua che io non capisco, una lingua che a volte cerco di tradurre
più o meno facilmente nella ‘mia lingua’. Ovviamente io sono un intellettuale
francese, insegno in scuole dove si parla francese, ma ho sempre
l’impressione che qualcosa mi forzi a far qualcosa per la lingua
francese…
“Ma lei sa che, per
quanto riguarda le mie vicende, negli Stati Uniti esiste lo ‘ebonics’, che
sarebbe l’inglese che parlano i neri: che è poi poter usare
un’espressione che significa qualcosa di diverso rispetto all’inglese standard.
La comunità nera ha sempre usato un lingua a doppio significato.
Quando sono arrivato in California, è stata la prima volta che mi sono
trovato in un posto dove un bianco non mi diceva che non potevo sedermi in un
certo posto. Poi qualcuno ha cominciato a farmi moltissime domande,
e io non riuscivo a rispondere, allora sono andato da uno psichiatra
per vedere se riuscivo a rispondere. E quello mi ha prescritto del
valium. L’ho preso e buttato nella tazza del water. Non sempre mi rendevo
conto di dove fossi, così sono andato in una biblioteca e ho fatto ricerche
in tutti i libri che ho trovato sul cervello, mi son letto tutto.
E i libri dicevano che il cervello in fondo è conversazione. Non
dicevano a proposito di che, ma mi ha fatto capire che il fatto di pensare
e apprendere non dipende solo dal posto dove sei nato. Credo di capire
sempre meglio che quello che chiamiamo cervello, nel senso di conoscenza
e essere, non è la stessa cosa del cervello che ci fa essere ciò
che siamo.”
Questo
è sempre un fatto di convinzione: noi conosciamo noi stessi in base
a quanto crediamo. Naturalmente nel suo caso è tragico, ma
è un fatto universale: noi crediamo (o supponiamo di credere) che
siamo quel che siamo attraverso le storie che ci raccontano. Un fatto rilevante
è che abbiamo esattamente la stessa età, siamo nati lo stesso anno.
Quando ero giovane, durante la guerra (non sono mai stato in Francia prima dei diciannove
anni) vivevo in Algeria, e nel 1940 sono stato espulso da scuola perché
ero ebreo, come risultato delle leggi razziali, e non riuscivo neppure
a capire cosa stesse succedendo. L’ho capito molto tempo dopo,
e questo attraverso storie che mi hanno fatto capire chi fossi, per
così dire. E perfino per quanto riguarda sua madre, noi sappiamo chi
è e che è in un certo modo solo attraverso la narrazione. Ho cercato
di capire in quale momento storico lei fosse a New York e a Los Angeles,
ed è stato prima che venissero riconosciuti i diritti civili ai
neri d’America. La prima volta che sono stato negli Stati Uniti, nel 1956,
c’erano cartelli ‘solo per bianchi’ ovunque, mi ricordo la brutalità del
messaggio. Lei ne ha avuta esperienza diretta?
“Certo. Sia come
sia, quello che mi piace di Parigi è che non puoi essere snob e razzista
allo stesso tempo, non funziona. Parigi è l’unica città che io conosca
dove il razzismo non appare mai in tua presenza, è qualcosa di cui
senti solo parlare.”
Ciò
non significa che non ci sia razzismo, ma che sia commisurato obbligatoriamente
al contesto in cui si trova ad essere. Qual è la strategia alla base
della sua scelta musicale per Parigi?
“Essere un innovatore
per me non significa essere più intelligente, più ricco. Non è una
parola, è un’azione. E dal momento che tale azione non s’è ancora prodotta,
non ha senso parlarne.”
Ho
capito che lei preferisce il fare al parlare. Ma come si comporta lei con
le parole? Qual è la relazione tra la musica che fa e le sue parole,
o quelle che le persone cercano di sovrapporre a quello che lei
fa? Prendiamo ad esempio il problema di scegliere un titolo, come lo
concepisce?
“Una mia nipote
è morta a febbraio di quest’anno e sono andato al suo funerale.
Quando l’ho vista nella bara, ho notato che qualcuno le aveva messo degli
occhiali. Lì mi è venuta l’idea di chiamare un mio pezzo ‘Lei dormiva,
morta, nella bara e indossava occhiali’. Poi ho cambiato idea,
e quel pezzo l’ho chiamato ‘Appuntamento al buio’.”
Vuol
dire che quel titolo s’è imposto da solo?
“E’ che cercavo di
capire il fatto che qualcuno avesse messo gli occhiali a una donna
morta..avevo una qualche idea di cosa significava, ma è molto difficile
capire il modo di concepire la vita femminile, quando tale modo nulla
a che fare con quello maschile”.
Lei
ritiene che il suo modo di scrivere musica ha a che fare con il modo in
cui si relaziona con le donne?
“Prima di essere
conosciuto come musicista, quando lavoravo in un grande magazzino un
giorno, durante la pausa pranzo, sono capitato in una mostra, e lì c’era
un quadro che aveva dipinto qualcuno che ritraeva una donna bianca
e ricca, una di quelle persone che hanno assolutamente tutto nella
vita, ed aveva espressione più solitaria che abbia mai visto, in volto. Non
mi ero mai imbattuto con una tale solitudine, e quando sono tornato
a casa ho scritto il pezzo che si intitola ‘Donna solitaria’”.
Intende
dire che la scelta del titolo non è stata una scelta di parole ma un riferimento
diretto all’esperienza vissuta? Le faccio queste domande sulla lingua,
sulle parole, perché per prepararmi all’incontro con lei ho ascoltato la
sua musica e ascoltato quello che ne hanno scritto i critici.
E la scorsa notte ho letto un articolo che era infatti un’analisi per una
conferenza fatta da un mio amico, Rodolphe Burger, un musicista che ha un
gruppo che si chiama Kat Onoma. L’analisi era costruita su sue affermazioni.
Per tentate di analizzare il modo in cui lei concepisce la sua musica, ha
preso spunto dalle sue affermazioni, la prima delle quali era, ‘Per ragioni
delle quali non sono certo, sono convinto che prima di diventare musica,
musica era solo una parola’. Si ricorda di averlo detto?
“No”
Ma
lei come interpreta o capisce le sue stesse affermazioni? Sono cose
importanti?
“Mi interessa
assai di più avere una relazione umana con lei piuttosto che una relazione
musicale. Voglio verificare se riesco a esprimermi con le parole, con
suoni che hanno a che fare con una relazione umana. Allo stesso tempo, mi
piacerebbe essere in grado di parlare della relazione tra due talenti, tra
due azioni. Per me, la relazione umana è la cosa più bella, perché ti
mette in condizione di guadagnarti la libertà che desideri, per te
e per l’altra persona.”
(traduzione
e cura di Guido Festinese)
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