“Alt! Tornare alla partenza”. Questa è una classica casella
del gioco dell’oca, in cui il giocatore
che vi incappa dopo aver percorso il tabellone con la sua ochetta di plastica è
costretto a ripartire di nuovo. Nel gioco dell’oca elettorale gli
elettori, in vista di una tornata, politica o amministrativa che sia, incappano
sempre in questa casella e sono costretti a buttare a mare aspettative, e
speranze in una seppur minima acquisizione di valenza rappresentativa della consultazione . Puntualmente nella perfida casella siamo incappati anche
questa volta. Infatti il gioco dell’oca
elettorale è inevitabilmente e inesorabilmente truccato. Per cui alla fine al traguardo giungono i
potentati dei comitati elettorali. Le paperelle di plastica, in queste manche, hanno
occupato la casella dei referendum sui beni
comuni, vinti ma disattesi. Una
casella si, e una no, erano dedicate alla riforma elettorale, promessa fino all’ultimo
ma alla fine disattesa anch’essa . Fa
troppo comodo ai comitati elettorali poter decidere chi candidare. Scorrendo il tabellone si è passati sulla
messa in mora di Berlusconi per mano dei banchieri che hanno nominato un loro rappresentate
alla guida del governo italiano per gestire meglio i loro interessi. Con il risultato
che il consulente Goldman Sachs Mario Monti, supportato dai comitati elettorali
presenti in paramento, coadiuvato da una manovalanza di professori
bocconiani , dirigenti di banca, manager
buoni solo a tagliare teste e diritti, dopo aver ridotto allo stremo la popolazione, oggi è il fautore di una nuova
democrazia cristiana pronto a chiedere legittimazione elettorale per il suo attacco di classe, contro il lavoro, la scuola e l’istruzione
pubblica. E purtroppo anche Berlusconi è
resuscitato. Una ampia parte del tabellone era dedicata alle primarie. Un
sistema di coinvolgimento dei militanti nella scelta del candidato a presidente
del Consiglio stridente con il dettato
costituzionale, manipolato di fatto da chi lo propone in modo
che alla fine certe scelte, nonostante
il pronunciamento elettorale, rimangano sempre
a favore delle segreterie di partito.
Nel Pd il rischio che Bersani non fosse eletto candidato premier è stato
reso minimo da regole e apparati che hanno assicurato al segretario una vittoria certa. Anche le parlamentarie del Pd organizzate nel segno della
partecipazione democratica non erano altro che un modo per gettare fumo negli
occhi dei militanti attribuendo loro un
potere decisionale, a parole, ma nei
fatti ininfluente. Intanto perché agli
eletti nelle primarie si aggiungeranno i
nomi di un listino bloccato, nella completa disponibilità del segretario e dei
notabili del partito . Poi perché il sistema con cui i vincitori delle primarie
verranno inseriti in lista è a forte
rischio di essere squilibrato a favore dei candidati espresse nel listino bloccato. L’esempio
tipico è quello del responsabile per le questioni economiche del partito
Stefano Fassina, la cui vittoria plebiscitaria a Roma non gli eviterà la seconda piazza in lista dietro il segretario Bersani.
Infatti, bisogna sottostare alle minacce della nuova balena bianca
capitanata da Monti, la quale ha già sentenziato che Bersani per governare dovrà avere la maggioranza
sia alla Camera che al Senato. Se ciò non dovesse accadere ecco venire in
soccorso del Pd i il grande centro moderato , riunito sotto il nome di Mario
Monti . Gli ex democristiani supportati da poteri forti e dalla chiesa di Roma,
per dare il loro appoggio ai democratici
pretendono la testa di Fassina, un keynesiano moderato, non un pericoloso anticapitalista, e di Nichi Vendola, un riformista affabulatore, non un pericoloso
comunista. Anche fra i candidati eletti nelle primarie le
novità sono ben poche, si è assistito ad una passerella di sindaci ex sindacai,
consiglieri provinciali comunali, gente
che nel proprio territorio da anni comanda la politica attraverso la
gestione di un bacino elettorale conquistato
a forza di “SE MI VOTI TI FACCIO
RIPARARE LA BUCA DAVANTI A CASA”. Francesco
Scalia, eletto nel nostro territorio, può considerarsi uomo nuovo, dopo
decenni passati alla guida della Provincia e su un seggio di consigliere alla Regione Lazio ?
Proseguendo nel giro di tabellone ci si
imbatte nei movimenti alternativi e conflittuali alla tirannia delle banche e
dei loro condottieri. I professori di “Alba”,
il movimento “Cambiare si può” partiti
dai buoni propositi di proporre un
programma antiliberista e anticapitalista, sono stati invasi come corpi ospitanti,
dai vecchi parassiti della sinistra rimasta fuori dal parlamento. I Ferrero, Diliberto, Di Pietro, dopo aver a
vario titolo infettato questi movimenti, li hanno dissolti traghettando la loro
maggioranza silenziosa e meno
propositiva alla corte di Ingroia, pronto a concedere ai segretari parassiti l’ennesima
possibilità di ritornare in Parlamento. Il lancio dei dadi ha condotto le paperelle di
plastica nell’area del vaffanculismo grillino
del Movimento 5 Stelle. Il gruppo fautore
della democrazia telematica ha cominciato ad andare in crisi dopo che qualche suo iscritto, avendo vinto le elezioni in diverse realtà locali , ha
dovuto smettere di strillare per cominciare
a prendere qualche decisione politica vera attirandosi le ire del capo. Dopo aver percorso tutte queste caselle arrivata
alla soglia della campagna elettorale, il riquadro con scritto “Alt torna alla
partenza” ci aspetta inesorabile e ci costringerà a far finta di scegliere fra
i soliti noti e ad avvallare le peggiori alleanze. IO NON CI STO’. A questo gioco dell’oca truccato non voglio
giocare più. Che se la cantino e se la suonino i signori dentro i comitati
elettorali. Il primo gesto di una
protesta vera è quello di uscire dal gioco cominciando ad eroderlo con la delegittimazione.
Non è rifiuto del mio diritto-dovere di
scegliere, anzi è un modo per riaffermare che il diritto ad “associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”cosi come
costituzione comanda, non si esplica con
l’esercizio del voto una volta ogni 5 anni, ma si realizza con la possibilità
di partecipare alla definizione degli
indirizzi di governo tutti i giorni. Oggi non è più possibile. E non perché
siano spariti i partiti di massa, ma perché i partiti si sono liberati definitivamente della massa.
Le rovine
"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"
Buenaventura Durruti
sabato 5 gennaio 2013
Come uccidere una città a norma di legge
Rete per la tutela della Valle del Sacco
Italcementi Colleferro vuole bruciare plastica, pneumatici e fanghi:
come
uccidere una città a norma di legge.”
Nell’assoluto delirio della
gestione dei rifiuti nel Lazio, con dichiarazioni istituzionali sull’ipotesi di
incenerire negli impianti di Colleferro o smaltire negli impianti delle
province, quanto Roma Capitale non riesce a più a sostenere, restiamo
esterrefatti dalla richiesta di assoggettabilità a Valutazione di Impatto
Ambientale (VIA) relativa al nuovo progetto presentato da Italcementi Colleferro
in data 27 dicembre 2012 presso la Regione Lazio.
In una città in cui insistono una
discarica di Rifiuti Solidi Urbani, sostanzialmente fuorilegge, due inceneritori
di Combustibile Derivato da Rifiuti (CDR), un’area industriale con due siti di
stoccaggio definitivo per rifiuti tossici, un cementificio, due industrie che
devono rispondere alla legge Seveso Bis per i rischi da incidente rilevante, una
centrale a turbogas, occupazioni di suolo con parchi fotovoltaici per quella che
noi definiamo “militarizzazione energetica”, non ci saremmo mai aspettati
che qualcuno avesse ancora la faccia tosta di proporre nuovi impianti, per usare
un eufemismo, fuori luogo.
L’Italcementi di Colleferro
presenta la sua “becera idea di sviluppo sostenibile” con la realizzazione di
due linee di incenerimento rifiuti, la prima con “fanghi biologici essiccati
provenienti dal trattamento delle acque reflue”, la seconda con “pneumatici
fuori uso” e “fluff” ovvero plastica frantumata. Nel nuovo progetto, del costo
di 3,3 milioni di euro, è previsto l’incenerimento di 36.000 tonnellate annue,
circa 100 tonnellate al giorno di rifiuti, per alimentare i due forni esistenti
di cottura del clinker in sostituzione dell’attuale petcoke ovvero combustibile
fossile.
Il Ministero dell’Ambiente, già
nel mese di Aprile, aveva affermato che era nelle sue intenzioni con apposito
decreto, approvato in fase di regolamentazione dal Consiglio dei Ministri e in
attesa dei pareri del Consiglio di Stato e delle Commissioni Parlamentari,
«favorire e promuovere un accordo di programma tra il ministero
dell’Ambiente, alcune regioni italiane e Aitec (Associazione italiana tecnico
economica del cemento, ndr) sulla valorizzazione energetica del Css nelle
regioni italiane che sono maggiormente esposte e tutt' ora in una grave
situazione di emergenza», e affrontando quella di Roma, aveva chiarito che
la città «non entrerà in emergenza se avrà questa prospettiva, che poi e'
quella delle direttive europee e delle leggi nazionali».
In pratica il CSS - Combustibile
Solido Secondario - non è altro che una ridefinizione della tipologia di rifiuti
da avviare ad incenerimento che comprende materie plastiche, pneumatici fuori
uso, scarti in gomma, tessili e scarti del calzaturiero, frazioni secche
combustibili. Vengono quindi favoriti i processi di incenerimento consentendo di
bruciare anche frazioni che in passato venivano escluse. Ulteriore gravità è che
il ricorrere al CSS in luogo del combustibile fossile viene inteso come
“modifica non sostanziale” permettendo di evitare l’iter autorizzativo
solito mediante l’applicazione di un regime giuridico ad hoc.
In futuro, se passerà questo
progetto, la qualità dell’aria complessiva a Colleferro e in aree limitrofe di
certo non migliorerà, in quanto i limiti di emissione concessi ad un
cementificio sono molto superiori a quelli consentiti ad un inceneritore di
rifiuti classico.
Ad esempio con riferimento agli
impianti di Colleferro e per una sola delle sostanze emesse in atmosfera, il
biossido di azoto (NOx), è stato autorizzato un valore medio giornaliero in
uscita di 70 mg/Nmc per ogni linea di incenerimento rifiuti, di 800 mg/Nmc per
il cementificio.
La differenza è evidente, come è
plausibile che i riferimenti normativi, nazionali ed europei, che riguardano
l’industria del cemento, siano applicabili ad impianti situati lontano da nuclei
urbani e non in aree già altamente compromesse come la nostra. Attualmente in
nessuna parte del mondo sarebbe possibile insediare un’attività produttiva del
genere a pochi passi dalle abitazioni.
Italcementi si dimostra
rassicurante presentando scenari di emissione in atmosfera ridotti rispetto alla
situazione attuale, segnalando però in modo poco esauriente e visibilmente di
parte lo scenario di variabilità determinato dalle diverse sostanze introdotte
nel processo di combustione.
Il paradosso è che nella
stessa area prima si autorizza una centrale a turbogas funzionante a
combustibile fossile, giustificandola come migliorativa in sostituzione
dell’esistente; il giorno dopo si richiede l’autorizzazione per sostituire
un’alimentazione da combustibile fossile con combustibile derivato,
giustificandola sempre come migliorativa.
Evidentemente il legislatore
non ha previsto che potessero esistere situazioni folli come quella di
Colleferro.
Nel caso in cui il decisore
pubblico che verrà chiamato alla valutazione del progetto abbia la memoria
corta, siamo a disposizione per ricordare tutte le azioni che nel passato
recente sono state compiute con autorizzazioni che non hanno tenuto in alcuna
considerazione l’alta concentrazione di problematiche ambientali e
sanitarie.
Con estrema rabbia ci troviamo
per l’ennesima volta a fare ciò che qualsiasi amministrazione locale decente
dovrebbe fare, cioè informare la popolazione sui pericoli incombenti e far
valere i diritti dei cittadini. Come sempre questo silenzio è imbarazzante,
inquietante, assordante. Segno di una reiterata volontà ad occultare, unica
capacità che ci risulti essere peculiare.
Invitiamo pertanto,
nell’imminenza della consultazione elettorale, le forze politiche candidate ai
governi regionali e nazionali, nonché i rappresentanti locali , a dichiarare in
modo inequivocabile le loro intenzioni e la loro disponibilità ad aprire un
tavolo di confronto serio dove si possano esporre tutte le problematiche
ambientali in soluzione unica, al fine di stilare una serie di provvedimenti
volti al reale risanamento ambientale, sanitario, economico e sociale.
Senza questi presupposti i soggetti menzionati abbiano almeno il pudore di
evitare le nostre piazze per nominare, come in passato, il nome
“ambiente” invano.
Nel frattempo ci stiamo
organizzando per porre in essere tutte le azioni che riescano a far decadere
questo ennesimo schiaffo alla nostra dignità.
venerdì 4 gennaio 2013
SEI SCELTE PER IL VOTO POI PASSERÀ
Paolo Cacciari da "il manifesto" del 03/01/2013
Bene, ora la griglia di partenza per la prossima competizione elettorale è completa. Per noi (per quella certa sinistra ancora attiva che si è entusiasmata con i referendum sull'acqua, che si sente compartecipe dei movimenti per il lavoro e per la scuola, che si indigna per la povertà crescente e per le diseguaglianze sociali e che spera ancora di riuscire a cambiare le cose) quali sono le scelte che ci vengono prospettate?
Votare Bersani-Renzi-Vendola. Come dice Alberto Asor Rosa, per un «ragionamento semplicissimo»: per chiudere definitivamente l'era berlusconiana e per prendere le distanze dal governo dei banchieri. Il contro-ragionamento è altrettanto semplice: come si fa a «governare senza condizionamenti» se le dichiarazioni programmatiche del centro-sinistra giurano fedeltà alle politiche economiche liberiste? Già un paio di governi Prodi-D'Alema ci hanno insegnato che persino un Hollande in Italia sarebbe giudicato troppo di sinistra dal centrosinistra.
Dare allora fiducia alla novità della lista Ingroia. Avere in Parlamento una opposizione intransigente è una condizione imprescindibile per il buon funzionamento della democrazia. Ma basterà il collante giustizialista per riassemblare i frammenti della sinistra? Non ci aveva già provato Di Pietro? Non sarebbe necessaria anche una visione condivisa di società, un'idea positiva di socialismo per questo secolo?
Votare le persone scegliendo attentamente i primi candidati presenti nelle varie liste (attenti però agli scorrimenti dei nomi civetta delle candidature multiple che servono per far passare i fidati e gli affiliati prenegoziati). Un lavoro da veri esperti che rischia cocenti delusioni.
Mandare a "vaffa..." tutti e votare Grillo. È certamente espressione di una sottocultura qualunquista, ma meglio i suoi candidati naif piuttosto che la riproposizione del solito ceto politico cooptato e fidelizzato dai partiti.
Lavorare per l'astensionismo attivo. In fondo si tratta di una partita truccata dal porcellum, dall'anticipazione dello scioglimento delle camere pilotato da Napolitano per poter scegliere il prossimo presidente del Consiglio a prescindere dal risultato delle elezioni, dalla spettacolarizzazione e dai costi esorbitanti delle pubblicità elettorali... Le elezioni andrebbero sempre un po' disconosciute e delegittimate. Se non altro per rammentare che la democrazia è (soprattutto) altro.
Ultima scelta: disinteressarsene del tutto e pensare al dopo. In fondo si tratta di chiudere la tv e non comprare i giornali per poco più di un mese. È quello che già fa la maggioranza degli italiani. E non sarà per caso.
mercoledì 2 gennaio 2013
TRA IL DIRE E IL CAMBIARE C'E' DI MEZZO IL MARE
Andrea Cristofaro, collettivo ciociaro
anticapitalista
Girando in internet ho
trovato questo annuncio, e incuriosito l'ho letto: è il quesito al quale hanno risposto con un si o un no i militanti del
movimento cambiare#sipuò.
Risultati della Votazione telematica di
"Cambiare si può"
alle ore 00.00 del 1.1.2013
IL QUESITO IN VOTAZIONE era:
Ritieni che, nella mutata situazione di fatto rispetto
all’assemblea del 22 dicembre
(vedi report precedente), si possa
proseguire nell’iter di formazione di una lista comune, avente come
candidato premier non contendibile Antonio Ingroia (che ha dichiarato la disponibilità ad
accogliere nel programma i nostri
dieci punti irrinunciabili), con
attribuzione a un comitato di garanti della formazione delle liste, nelle
quali è comunque previsto l’inserimento dei segretari politici di IDV, Comunisti
italiani, Verdi e Rifondazione
comunista?
Hanno votato SI 4.468 pari al 64,7% dei votanti
Hanno votato NO 2.088 pari al 30,2% dei votanti
Si sono astenuti 352 pari al 5,1%
I voti validi sono stati 6.908 su circa 13.200
aderenti all'Appello
Il movimento non
mi aveva mai appassionato, però ne ho seguito il cammino. Senza entrare nel merito della lista, giudicando da
fuori, è stupefacente come nel
quesito si dichiari candidamente che le riunioni finora fatte non contano
più niente e che coloro che finora dovevano
essere i protagonisti delle scelte sono
stati invece chiamati a votare semplicemente un si o un no riguardo ad una
forzatura che ribalta tutto, non discussa in
assemblea ma decisa dai segretari dei
partiti che fino a ieri stavano elemosinando al Pd un posto in coalizione:
decisa da questi appunto, insieme a Ferrero e ad
Ingroia, alla faccia delle migliaia
di militanti che hanno partecipato alle assemblee locali e nazionali.
Cambiare#sipuò non esiste più, esiste invece una
cosa molto simile alla lista arcobaleno,
e si chiamerà Rivoluzione Civile: prendere o lasciare. I votanti a
maggioranza hanno telematicamente ceduto
al ricatto, quindi Diliberto e Di Pietro
hanno vinto: Io ci sto ha ufficialmente inglobato Cambiare si può. Un
particolare: in val di Susa i militanti hanno
tutti respinto la proposta,
significherà qualcosa? Personalmente arrivo a due
conclusioni. Punto primo: i 4468
si probabilmente sono riconducibili in gran parte ad iscritti al Prc,
visto che il partito si era schierato fermamente
per il si e anche le assemblee in
gran parte erano formate da iscritti al Prc. Nello stesso tempo viene fuori
l'inconsistenza numerica di coloro che dentro il
movimento chiedevano un passo indietro
definitivo al Prc. Infatti 4468 rappresenta un terzo degli iscritti a
votare, quindi il problema della vittoria dei si
è ribaltato: i professori di Alba
avrebbero avuto i numeri per vincere il referendum telematico, ma questi
numeri evidentemente non c'erano. La famosa
società civile che chiedeva il passo
indietro si è dimostrata incapace di fare il passo in avanti. E questo è
un primo elemento che viene fuori, visto che chi
aveva ottenuto il controllo del
movimento lo stava facendo senza essere l'espressione della maggioranza
della base del movimento stesso. E c'è da dire
che il prc pur sapendo di avere i
numeri dalla propria parte aveva comunque fatto il passo indietro. Ma la cosa
non era sfuggita a navigati politici come
Diliberto e Di Pietro, i quali dopo
aver ricevuto il rifiuto da parte del Pd hanno
provato il colpo di mano e tramite
"Io ci sto" sono entrati nel movimento "Cambiare si può" per
egemonizzarlo usando il nome di Ingroia per
tentare in seguito un nuovo approccio
con il Pd, una volta in possesso di un potere contrattuale maggiore
rappresentato dal movimento conquistato. E qua
arriviamo al secondo punto: senza
la collaborazione di Ferrero e del Prc questa operazione sarebbe andata
in porto? Qui entra in gioco il gruppo dirigente
del Prc, che si è trovato a poter
scegliere fra due opzioni. Continuare il percorso intrapreso con la
"società civile" rispedendo al
mittente l'approccio speculativo di Io ci sto, e
quindi scegliere di girare finalmente lo sguardo a
sinistra. Questa scelta avrebbe
anche rafforzato le potenzialità di due importanti movimenti nati a
sinistra: il No Debito e il movimento nato dal
No Monti Day. L'altra opzione era
invece cedere al richiamo delle sirene (metaforiche) Diliberto e Di Pietro,
e quindi fare la scelta di non differenziarsi
dal gretto ceto politico italiano,
che mischiando tattica e strategia si perde nella affannosa ricerca
di un posto in parlamento e uno a porta a porta
o a ballarò, dimenticando la ricerca
del consenso basato sui contenuti e sulla coerenza politica. Il Prc ha
fatto sicuramente i suoi conti, e ha scelto la
seconda opzione: ha scelto di dare
vita ad un secondo arcobaleno che avrà più di metà del proprio programma
elettorale incentrato sugli argomenti della
mafia e della legalità, senza accenni
alla lotta contro il capitalismo, cosa che fa storcere sicuramente il
naso a molti militanti. Secondo me il Prc ha
perso un'occasione unica per
tornare ad essere un partito credibile in grado di
essere sponda politica per i tanti
compagni dispersi e anche un soggetto in grado di dialogare con i
movimenti e i partiti organizzati alla sua
sinistra. Rimangono le assemblee locali
che Cambiare si può aveva indetto per i primi di gennaio: in tali
assemblee si incontreranno tanti militanti che
avranno il compito facilitato rispetto
a quanto avevano messo in conto alla fine dell'assemblea nazionale del
22 dicembre: molte decisioni sono infatti già
state prese da Ingroia e dai quattro
segretari di partito, compresi simbolo e nome del movimento, quindi le
cose su cui discutere e soprattutto le cose da
decidere saranno sicuramente
molte meno.
Cambiare si potrà
Pierluigi Sullo da http://www.democraziakmzero.org
Talvolta le coincidenze aiutano. E talvolta quel che accade molto lontano può suggerirci qualcosa di utile. Parlo in particolare del nodo che si era creato attorno all’appello “Cambiare si può”, del dilemma se coloro che lo avevano sottoscritto avrebbero dovuto partecipare alla “lista arancione” (quella che porta il nome di Antonio Ingroia) o no. Cioè se quell’esito fosse coerente con le premesse. Il nodo è stato sciolto grazie a un “voto telematico” in cui il 60 per cento degli aderenti all’appello ha detto sì, dobbiamo andare con Ingroia. Ma, proprio nei giorni in cui – in rete e via Facebook – si discuteva accanitamente di questo problema, gli zapatisti messicani, dopo un lunghissimo silenzio, sono tornati a farsi vedere e ascoltare: prima, con l’occupazione pacifica di cinque città del Chiapas, 40 mila indigeni “bases de apoyo” (cioè non militari dell’Esercito zapatista) ordinatamente schierate nelle piazze a dichiarare, passamontagna calati sul viso e bocche chiuse, “siamo qui”, “esistiamo”. Qualche giorno dopo, vigilia della fine dell’anno, l’Ezln ha reso noti alcuni suoi comunicati , annunciando per i prossimi tempi ulteriori iniziative e proposte.
Bene, cos’hanno a che fare, reciprocamente, queste due vicende? Nel comunicato firmato dal subcomandante Marcos, portavoce dell’Ezln, si dicono due o tre cose nuove. Ad esempio questa (riassumo con parole mie): in passato siamo stati famosi perché i grandi media parlavano di noi. Poi ci hanno dimenticati, tralasciati, in generale diffamati. Da ora in poi, scrive il “sup”, noi saremo visibili solo per i media indipendenti, quelli che nascono dai movimenti dal basso e sono in grado di entrare in sintonia con noi. L’allusione era anche alla stampa di sinistra o democratica del Messico, la quale, sei anni fa, decise che gli zapatisti non erano più così interessanti come erano stati per molti anni. Era accaduto che l’Ezln dicesse: non abbiamo interesse per le elezioni. Era il momento in cui, dopo la presidenza di Vicente Fox, già manager della Coca Cola, il centrosinistra messicano sperava finalmente di vincere le presidenziali, avendo per candidato Andrés Manuel Lòpez Obrador, già sindaco di Città del Messico.
Quando l’Ezln manifestò il suo scetticismo, i politici, i giornalisti, la quasi totalità degli intellettuali di sinistra che per molto tempo avevano simpatizzato per gli indigeni ribelli cambiò totalmente atteggiamento e divenne distratto, quando non apertamente ostile. Lòpez Obrador poi perse – grazie soprattutto agli eterni brogli – e la colpa ricadde proprio su quegli irresponsabili con il passamontagna, e in particolare del loro portavoce, Marcos.
Passati sei anni e trascorsa un’altra elezione presidenziale (nel luglio scorso), regolarmente persa dal centrosinistra e vinta questa volta dal risorto Pri (il partito regime che aveva governato per 70 anni) e dal suo candidato Enrique Pena Nieto, gli zapatisti – nel comunicato di qualche giorno fa – si tolgono un paio di sassi dagli scarponi: “Loro – si legge – non hanno bisogno di noi per fallire, noi non abbiamo bisogno di loro per sopravvivere”. Già, nel frattempo gli indigeni zapatisti hanno organizzato la loro democrazia (quella del consenso, che non contempla il dominio della maggioranza), nonché la loro economia, le loro scuole, i loro posti di salute, ecc. Tutte cose che funzionano tanto bene da respingere gli attacchi subdoli dei paramilitari addestrati dall’esercito federale e da attrarre gli indigeni non zapatisti che, nei villaggi “assistiti” dal governo, stanno molto peggio.
Ma l’Ezln insiste. Nel comunicato si legge che da ora in poi non solo l’Ezln parlerà solo con i media indipendenti, bensì che terrà relazioni con organizzazioni e movimenti – in Messico e in tutto il mondo – che lavorino per “un’alternativa non istituzionale di sinistra”.
Che cosa sia, esattamente, nel sud del Messico, un’”alternativa non istituzionale di sinistra” è ormai chiaro: è il fatto che i ribelli indigeni hanno voluto e saputo organizzare un altro modo di vita della società – alle loro condizioni ambientali e culturali – senza sentire il bisogno di affidare questo cambiamento a una qualche “rappresentanza” e a un cambio elettorale. Siccome un cambio elettorale è impossibile, in un paese come il Messico dominato dai grandi poteri economici e dal narcotraffico e dai media di massa (qualche mese fa vi fu una rivolta studentesca contro la televisione principale, Televisa, e le sue sistematiche menzogne e manipolazioni), allora – comunicano gli zapatisti con la loro esperienza concreta – il cambiamento ce lo facciamo da soli, autogovernandoci e creando un’economia utile a tutti, e ad esempio – dice sempre quel comunicato – “costruendo case che rispettino l’ambiente”.
Parrebbe molto lontano, il Messico. E tanto più lontana è la Selva Lacandona. Eppure questa vicenda dovrebbe far fischiare le orecchie a chi ha creduto di poter inaugurare un altro modo di fare politica, diverso da quello dei partiti. E di poter allo stesso tempo partecipare alle elezioni con questo nuovo stile (e i contenuti conseguenti). Bene, può essere che, di questa equazione valesse il primo enunciato, far politica in modo differente, ma non il secondo. Almeno, questo è quel che suggerirebbe l’esito dell’incontro con i partiti e del tentativo di fare con loro una lista elettorale. Come dice uno di quelli che – sulla pagina Facebook di Alba, promotore principale dell’appello “Cambiare si può” – spiegano perché hanno votato “no” al referendum telematico: “Non ci sto a vecchie forme di politica in cui le scelte sono calate dall’alto, avevo firmato un altro appello di una politica ‘dal basso’”.
Invece, ha prevalso la legge ferrea che ha ispirato i media e gli intellettuali di sinistra, sei anni fa in Messico, e la maggioranza dei firmatari dell’appello “Cambiare si può”, una massima che qualcuno, in quella pagina Facebook, riassume in modo efficace: “Andare a votare il meno peggio è comunque più efficace che astenersi”. Nessuna obiezione, nessun ragionamento e nessuna esperienza pratica (di quelle che si posso trovare qui in Italia, non parlo degli zapatisti) è riuscita a incrinare questa certezza ferrea. Andare a votare si deve. Votare per il meno peggio è obbligatorio.
Siamo proprio sicuri che sia vero? Intanto, è obiettivamente constatabile che al meno peggio non c’è fine. Io voto per Ingroia perché è l’opposizione di sinistra (va bene, facciamo lo sconto: Di Pietro è di sinistra?). Ma se si vuole essere ancora più realisti, allora è meglio votare il Pd, che è certamente (insomma, un po’) meglio di Monti. Anzi si deve votare per Vendola, che del Pd è la variante “di sinistra”. Ma se la gara fosse tra Monti e Berlusconi, per chi bisognerebbe votare?
Questo è il meno. Ammettiamo pure che con la “lista arancione” si possano eleggere venti o trenta parlamentari, e che tra essi non compaiano gli eterni capi e capetti di partito (ma non è così). Cosa potrebbe fare una tale pattuglia, poniamo venti deputati e dieci senatori, a voler essere ottimisti? Rifondazione comunista aveva, dopo il voto del 2006, ottanta parlamentari, che non sono riusciti a opporsi alla Tav, alla base di Vicenza, alle “missioni” militari all’estero, e non hanno saputo modificare la legge Bossi-Fini e cancellare i centri di detenzione per migranti, solo per citare i casi più clamorosi. E Rifondazione era al governo. Oggi, dopo l’affermazione della dittatura finanziaria, dell’”austerità” e del fiscal compact, che ha reso il parlamento (tutto intero) un’appendice inerte della Banca centrale europea e del Fondo monetario, trenta parlamentari “arancione” cosa potranno fare, se non gridare, sbracciarsi e andare in tv a protestare (cosa niente affatto certa, e comunque nei talk show tutti sembrano pazzi allo stesso modo)?
Viceversa, quale prezzo si è pagato per questo risultato? Un prezzo molto alto, il principale dei quali consiste nel fatto che un movimento nato per rovesciare modo d’essere e scopi della politica di sinistra ha finito con il contribuire – per quanto a maggioranza – a un lista elettorale creata a tavolino, con un leader inventato e con un simbolo in cui la sola cosa visibile è il cognome del “candidato premier”. E questo non potrà purtroppo che provocare delusione e depressione, tra le molte persone che non pensano che “votare il meno peggio è comunque più efficace che astenersi”.
C’è da sperare che queste persone, quasi sempre collegate a movimenti reali, sul territorio e nella società, sappiano guardare a questa vicenda attribuendole l’importanza che ha: molto scarsa. Alla fine di febbraio la febbre elettorale calerà bruscamente e si potrà riprendere a lavorare su quell’altro modo di far politica. Quello che appunto gli zapatisti – e con loro decine di movimenti sociali in tutto il mondo – hanno dimostrato che è possibile, anzi necessario, cercare.
martedì 1 gennaio 2013
Sbagliando ci si azzecca
Luciano Granieri
Il dado è tratto. Gli
iscritti di "Cambiare si può" hanno
deliberato con votazione in internet. Il neo movimento tenuto a
battesimo da Livio Pepino, Marco Revelli e Chiara Sasso - che rifiuta il leaderismo, che non
vuole riproporre l’esperienza della lista arcobaleno composta da Pdci, Prc e
Verdi, che non vuole più segretari di
partito protagonisti - deve confluire in
“Rivoluzione Civile”. La nuova forza è guidata
da un leader acclamato come il magistrato in aspettativa elettorale ,
Antonino Ingroia e candida
i segretari, di Rifondazione, Ferrero,
dei verdi, Bonelli e dei Comunisti Italiani,
lo schifato Diliberto, che dopo aver inciuciato
con il Pd ha scelto il cavallo di “ Ingroia” per provare a rientrare in Parlamento. Cioè la
maggioranza degli iscritti di "Cambiare si può", il 64,7%, ha deciso di confluire in un movimento
che è l’esatto contrario di quanto prefigurato nell’appello di adesione lanciato dai
promotori. Gli stessi iscritti decretando il dissolvimento di cambiare si può, in
Rivoluzione Civile, hanno deciso di accettare il decalogo, non propriamente
anticapitalista, che sta alla base del movimento di Ingroia, nonostante ne avessero preso le distanze fino a ieri, anzi lo avessero praticamente
bocciato. Ora questi iscritti dovranno “INGROIARE”
il decalogo tutto d’un fiato, compreso l’indigesto
articolo sei, che si preoccupa di difendere gli imprenditori dalla mannaia
delle tasse, dovranno digerire anche quello che non c’è ,
ossia l’abolizione del fiscal compact. A me francamente interessa il giusto, ma
quei compagni che , a chiacchiere, parlate e scritte sui social network, se la prendono con l’ondivago Diliberto, con
l’incoerenza dei comunisti italiani, con la possibilità di fare accordi con il
Pd, e poi si incaponiscono , dentro la
federazione della sinistra prima, e ora in Rivoluzione Civile, a stare insieme
con i suddetti reietti e a correre il
rischio di subire scenari indigesti , mettono
un po’ tristezza. Qualche giorno fa sono
stato severamente ripreso perché in un POST PRECEDENTE avevo scritto che “Cambiare
si può” era un tutt'uno con “Io ci sto” , il movimento guidato da Ingroia,
trasformatosi ora in “Rivoluzione civile” . Chissà forse gli iscritti di Cambiare si può si sono convinti che non meritavo quell’ignominia per l’errore commesso e dunque con il loro
voto, hanno pensato di rendere esatto
ciò che avevo scritto. Grazie di cuore compagni.
Dov’è la sconfitta?
Antonio Moscato. Fonte http://antoniomoscato.altervista.org
Assurdo parlare di vincitori e vinti in una contesa che ha coinvolto meno di 7.000 compagne e compagni. Parlo delle elezioni tra gli iscritti a “Cambiare si può” per decidere se accettare la trasformazione in “Rivoluzione civile” con simbolo e guida di Ingroia. Mi sembra assurdo esultare perché il SI si è conquistato il 64,7% dei votanti (cioè esattamente 4.468). Un po’ pochi per portare avanti un progetto che era giustamente apparso interessante e positivo, e che invece conferma la drammatica crisi dei quattro partiti che hanno fortemente sponsorizzato il voto a favore.
In realtà sarebbe meglio parlare di un solo partito, che a differenza degli altri tre esiste ancora e non solo sulla carta, e di cui abbiamo incontrato nelle assemblee generosi militanti (che magari scambiavano come un attacco preconcetto al partito in quanto tale quella che era solo legittima diffidenza per quei loro dirigenti che hanno effettivamente gravi responsabilità per la crisi della sinistra). Ma il PRC avrebbe fatto meglio se in questi anni avesse utilizzato le sue forze come le ha mobilitate in questi giorni con una campagna di mail e sms di denigrazione di chi non era convinto dell’imposizione di Ingroia.
Ingroia suscita diffidenze tra molti compagni, perché è un candidato leader che non solo si preoccupa più degli imprenditori che dei lavoratori, ma perché continua testardamente a riproporre un’alleanza con il PD, e a lamentare che Bersani rifiuta il dialogo. Non solo all’inizio, ma perfino nell’intervista a “Repubblica” di ieri, 31 dicembre, Antonio Ingroia ha ribadito che la “battaglia antimafia ha bisogno dell’unità di tutti”. E ha continuato a rivolgersi al PD, che logicamente non solo “risponde con freddezza”, ma gli contrappone un altro magistrato con la stessa valenza: Pietro Grasso. A cui Ingroia, certo mal consigliato, non è riuscito a rispondere senza la caduta di stile delle delegittimazioni offensive e quindi controproducenti.
Non occorre essere “puri e duri” (termine ereditato dal peggior repertorio burocratico dell’ultimo PCI, e non a caso usato largamente nelle mail di questi giorni) per temere di delegare la rappresentanza di un movimento largo e articolato a un leader assoluto, con tanto di nome scritto a caratteri cubitali, che usa per giunta a volte argomenti poco efficaci: la sua unica quasi ossessiva preoccupazione, è la mafia, come se tutti i mali dell’Italia e dell’Europa dipendessero dalla mafia e non dal normale funzionamento del capitalismo, che fin dai tempi di Marx era intrecciato largamente con svariate forme di criminalità. Eppure Ingroia, se si fosse fermato un po’ più in Guatemala, avrebbe scoperto che il fenomeno in forme diverse è presente in gran parte dell’America Latina, non necessariamente ad opera di baffuti esponenti siciliani. E non parliamo poi della Russia e dei Balcani. La mafia siciliana è solo una particolare variante, rispetto ad altre con diversa origine. Per giunta non è efficace ridurre le accuse al PD di voler solo arginare e non estirpare la mafia: a parole lo hanno detto tutti i governi, anche di centro sinistra, e la mafia e le altre forme di criminalità stan tutte lì… E c’è un Grasso a togliere forza a questi argomenti.
Il gruppo dirigente del PD non sa far politica, ma non al punto di non saper scovare alleati contro la concorrenza di Ingroia, da Grasso a Pisapia (vediL'ingenuo Pisapia)
Ed è possibile che i compagni, tanto attivi con le mail contro chi vuole “stare a guardare dalla finestra del salotto”, non sospettino che a molti compagni può legittimamente dar fastidio l’elogio che Ingroia, nella stessa intervista di ieri fa alla “magistratura e le forze dell’ordine”? Soggetti “che dovranno sentire rinnovato e ancora più forte il sostegno nel loro operato, che ha consentito gli straordinari successi che conosciamo”… Occorre essere puri e duri per non sentirsi rappresentati da queste parole?
Avevo scritto più volte che qualunque fosse stato l’esito del voto bisognava continuare a ragionare tutti insieme sulle cose da fare, ma anche sulle ragioni del progressivo sprofondamento delle sinistre. Ma come farlo con chi per delegittimare il NO, lo attribuisce alla “aristocrazia della casta giornalistica di Viale, Ginsborg ed altri”, mentre invita a “stare assieme e intervenire sull’aristocrazia, ma onesta, degli Ingroia, che ricorda il segnale di classe del codice penale”? Incredibile ma vero. Ovviamente l’altra “aristocrazia” sarebbe disonesta…
Ho pensato, leggendolo, che a scrivere questo sarà stato forse un poliziotto o un carabiniere (ne avevo trovati come segretari di circolo in qualche paese del Salento, ma credevo che fosse un’aberrazione locale). Ma come si fa dopo questi argomenti a trovarsi ancora insieme? La denigrazione non assumeva solo la forma ridicola di presentare come appartenenti a una presunta “casta giornalista” compagni che non sono neppure giornalisti di professione ma hanno solo la colpa di saper scrivere. C’era la contrapposizione sistematica tra “i poveri bidelli” e “i professori”, o i “nomoni” (traduco: chi ha un nome conosciuto, magari per decenni di militanza, mentre il criterio ovviamente non vale per Ingroia).
Lasciamo da parte il repertorio di critiche sprezzanti ai “professori col lapis rosso e blu” che farebbero “l’analisi grammaticale di ogni contributo” allo scopo di “ricercare in essi un purismo ideologico”. Si arriva perfino a considerare una bizzarra forma di settarismo la preoccupazione per il ruolo corruttore delle istituzioni borghesi (in cui dietro l’ironia, traspare che chi scriveva così aspirava evidentemente ad “infiltrarsi” nuovamente al loro interno), come se il discredito di un partito che era nato bene, e aveva fatto un buon passo avanti nel 1998 rifiutando di ingozzare altri rospi, non fosse stato potentemente alimentato poi dalla discordanza tra le enunciazioni programmatiche e la grossolana pratica di adattamento alle regole di lorsignori quando finalmente è arrivato al governo, o meglio nell’anticamera del governo…
Possibile che questi compagni non si rendano conto dell’effetto repulsivo del “ritorno di un ceto politico della sinistra già «radicale» che si ripresenta sulla scena senza aver mai davvero fatto i conti con le sue scelte degli anni passati”? Sono osservazioni del lucido articolo di Piero Maestri, Oltre le elezioni , che proseguiva notando quanto fosse “imbarazzante vedere che all’intervento di un’attivista contro la base Dal Molin come Cinzia Bottene” seguissero il 23 dicembre poi “quelli di ministri, viceministri e sottosegretari del governo Prodi che quella base militare ha accettato e sottoscritto (così come l’acquisto degli F35) senza fare nemmeno un briciolo di autocritica (e magari le loro scuse a quelle e quegli attiviste/i) e senza nemmeno chiedersi se in fondo l’assenza della «sinistra radicale» dal parlamento non sia avvenuta proprio per quella partecipazione al governo e l’incapacità di pensarsi davvero come alternativi al centrosinistra (siamo infatti ancora all’infausto detto «in politica mai dire mai» di bertinottiana memoria).”
lunedì 31 dicembre 2012
... e per finire, musica da ballo e cotillon
Luciano Granieri
Dal Savoy Ballroom di Harem, New York, la redazione di Aut
nella persona del sottoscritto, presenta una serata indimenticabile di musica da ballo. Con le
stupende voci di De De Bridgewater, dei Manhattan Transfer, fra i quali spiccano Janis Siegel e Cheril Quentyl,
chiudiamo l’anno vecchio e iniziamo l’anno
nuovo nel segno dello swing. Jazz a parte auguro a tutti un buon 2013. Non
nascondiamoci dietro a un dito, se il
2012 è stato un anno di lotta, il 2013 sarà ancora più duro. Godetevi la musica. Buon anno resistente a
tutti.
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