Non è quantitativa la differenza tra riforismo "debole" e riformismo "forte". Si tratta di scegliere tra normalizzazione della democrazia e critica dell'economia politica
La campagna elettorale in atto è dominata dagli «equilibrismi della mistificazione», dalla «fraudolenza retorica», da un meccanismo accelerato di distruzione della lingua, la risorsa profonda del legame sociale. (P.P. Portinaro, la Repubblica 3 febbraio). È del tutto illusorio, quindi, pensare che le dichiarazioni fatte dalla grande maggioranza degli uomini politici in questa contingenza possano modificare lineamenti di fondo, iscritti nelle logiche di più lungo periodo. Ad esempio, non ha niente di realistico credere che in seguito alle polemiche della campagna elettorale, i corposi incroci, nei fatti, delle agende di Monti e di Bersani, finiranno per scomparire nella nuvola della retorica funzionale al breve respiro delle tattiche di posizionamento. Quanto aderenti, invece, all'immanenza dei percorsi già sedimentati i molti contributi che il manifesto ha sempre continuato a pubblicare (Gianni, Pizzuti ed altri) sui processi della trasformazione economica, della trasformazione sociale. Contributi fortemente ancorati alla «realtà effettuale» tramite analisi ed argomentazione sulle «cose» e non sulle «parole». Non è, forse, il momento migliore per porre l'accento sulle questioni che la politica deve affrontare in combinazioni temporali assai più complesse. Tuttavia bisogna sforzarsi di ragionare anche sugli incroci dei tempi brevi e dei tempi lunghi, sul senso che assume in questo presente il nostro venire «da lontano» Nella prospettiva della costruzione/ricostruzione di una sinistra che si ponga davvero come «erede della storia del movimento operaio» i risultati delle prossime elezioni avranno certamente un peso. Saranno in grado di rallentare o accelerare un percorso. Un percorso, comunque, già iniziato ancor prima della pur positiva fase di aggregazione rappresentata dalla lista di «Rivoluzione Civile». I tempi di un processo così complesso sono ben lungi dall'esaurirsi in una tornata elettorale. Torniamo a riflettere, dunque, su questa storia del movimento operaio. Sulle lezioni di questa storia in un diverso ciclo di accumulazione capitalistica. Sul senso delle cesure e delle continuità. ERIC HOBSBAWM, l'eminente storico recentemente scomparso, ci ha lasciato quello che può essere considerato il più vasto e complesso cantiere, costruito ed in costruzione, concernente la storia del movimento operaio. Non solo i suoi studi hanno coperto il percorso quasi bisecolare di questa vicenda essenziale della nostra modernità, ma si sono svolti in un arco temporale di circa sessanta anni. Hobsbawm, cioè, ha vissuto sia la temperie culturale e politica dei primi anni cinquanta che quella del primo decennio del nuovo millennio. Il suo sguardo critico in un lungo periodo fatto di mutamenti di orizzonte ci è, dunque, particolarmente prezioso per ragionare su quella «eredità». In un saggio scritto ancora negli anni Cinquanta, quando cioè il termine «riformista» era oggetto di rifiuto da tanta parte delle forme organizzate del movimento operaio, in particolare da quelle di ispirazione comunista, il grande storico, che pure era comunista, scriveva che i movimenti socialisti e i sindacati «debbono, nelle loro attività quotidiane, agire come se il capitalismo fosse permanente». «Fatta eccezione per i rari periodi di crisi rivoluzionaria», dunque, la storia del movimento operaio finiva per declinarsi all'interno di una pratica riformista. Senza nessuna velleità di improbabili paragoni, nei miei lavori sul «riformismo» ho avanzato questa tesi: «nella lunga storia del movimento socialista ed operaio il riformismo è stato l'ordinaria normalità, la normalità strutturale delle pratiche organizzative e politiche. Le rivoluzioni in atto, non il discorso sulla rivoluzione, ne sono state le contingenze extraordinarie, le cesure dell'ordinario svolgimento strutturale» ( Riformismo alla prova ieri e oggi, Milano, 2009). Quali sono i nessi che hanno collegato ieri le prospettive di lungo periodo su un ordine sociale diverso e la necessità di agire « come se il capitalismo fosse permanente»? In che misura questi nessi possono avere senso nella fase che stiamo attraversando? Sul primo aspetto i tempi della storia del movimento operaio ci hanno dato risposte chiare. In ogni momento del conflitto (sindacale e/o politico) nel capitalismo supposto permanente devono essere ricercati, insieme, il risultato immediato e il mutamento di equilibrio, anche se minuscolo, nei rapporti sociali. Gli elementi di un rapporto economico-sociale considerato naturale devono esser continuamente messi alla prova. La sinistra ispirata alle teorie critiche del capitalismo - scrive ancora Hobsbawm - «ha sempre avuto una funzione reale se non rivoluzionaria nel movimento, cioè quella di rendere il riformismo effettivamente riformista .È necessario uno sforzo speciale, per impedire al movimento di scivolare nel riformismo puro e semplice ». Questo è il punto. Questo il risultato storico della secolare vicenda del movimento operaio: la civilizzazione del capitalismo come premessa per ulteriori percorsi. Sulla «funzione reale se non rivoluzionaria» durata per quasi due secoli non ci sono dubbi storiografici. La ricerca a proposito continua a confermare le proposizioni di Hobsbawm. Come può funzionare, però, quel meccanismo in una fase in cui il riformismo non è più riformismo ? Il riformismo socialista , infatti, è stato un modo particolare di declinare l'«antitesi» di cui era parte integrante. Il neoriformismo è un modo particolare di declinare le ragioni necessarie della normalizzazione dell a democrazia . Il neoriformismo di oggi è il rovescio del riformismo socialista. (Per il problema mi permetto di rimandare ad uno studio in cui ho analizzato più a fondo la questione: Il riformismo e il suo rovescio , Milano, 2009). In tale contesto manca la condizione di fondo perché possa essere espressa la suddetta «funzione reale». Quello che divide la sinistra ispirata alle teorie critiche del capitalismo dal neoriformismo è, appunto, il rifiuto netto da parte del neoriformismo della critica dell'economia politica in qualsiasi forma. Non si tratta di una questione teorica, o, peggio, di dottrina, bensì di questione di estrema rilevanza per i comportamenti pratici delle forze politiche. Quasi vent'anni di storia reale del neoriformismo (teorico e politico) hanno un peso rilevantissimo, rappresentano una prova decisiva. Questi vent'anni hanno fissato un baricentro di forze che è del tutto illusorio pensare di modificare, nella sostanza, con le retoriche a sfondo elettoralistico. La differenza tra la cultura politica, tra gli strumenti di analisi economica e sociale dei neoriformisti e quelli di coloro che si muovono nell'ambito delle teorie critiche del capitalismo è netta e profonda. La consapevolezza di tale dato di fatto non esclude la possibilità di rapporti politici, e, in caso, anche la necessità di rapporti politici. Tali rapporti politici possono dare buoni frutti soltanto se avvengono tra «forze» che fanno della loro autonomia culturale la leva essenziale della loro autonomia politica. Il meccanismo così bene messo in luce da Hobsbawm non può funzionare nel contesto attuale. Non ci troviamo all'interno di una differenza quantitativa tra riformismo debole e riformismo forte. La differenza è qualitativa e quindi la costruzione/ricostruzione della sinistra non è possibile se non fuori dal quadro del neoriformismo. Del resto anche l'antitesi politica e sociale dell'età del movimento operaio si è costruita fuori (spesso contro) i presunti affinismi del progressismo generico. La tornata elettorale che ci apprestiamo ad affrontare è anche uno di quei momenti di conflitto politico, che, come dice Hobsbawm, deve esplicarsi tramite compresenza di realismo e di volontà positiva per una prospettiva altra. Chi sceglie di vivere tale conflitto all'interno della gabbia neoriformista rifiuta nei fatti, e nei fatti che contano, di sperimentare davvero le potenzialità di futuro insite nel momento attuale.