Lidia Ravera
Me lo racconta tutte le volte. Non c’è compleanno,
onomastico, che non sia celebrato come un anniversario di lutto. E’
sovreccitata fin dal mattino, nervosa, beata. Sorride da sola. Io la
riconosco,oramai, in ogni forma di pazzia benigna, benedicente, euforicamente narcisistica,
malinconica e medium. La riconosco nei preti che dal pulpito parlano di un
regno dei cieli cui non avrò accesso. La riconosco nella grassa americana alcolista che legge i tarocchi in piazza Navona. Vaga e
vaticinante. Mia madre è così. Come lei, soltanto più magra. E marxista.
Nonostante il volgere del mondo ad altre dottrine oppure a un mercantile
appagamento del disordine. Mia madre è marxista. Lo era da ragazza. Non riesce
a smettere. E’ marxista e odia il
governo (in generale, in particolar quello presente, ma in generale tutti),
odia la polizia. Odia le armi. Odia la guerra. Da due mesi , ogni sera, si
incaponisce in complicate macumbe. Sta cercando di colpire il pancreas di
George doppio vu Bush. “Hai idea di quanto si soffre con la pancreatite?”….Forse
stasera non lo farà. Stasera è il mio compleanno. Ne faccio 25, di anni. Sono
nata il 12 maggio 1977 alle 23 e 45,
con un mese di anticipo sulla data della mia nascita, le doglie, a mia madre le
ha provocate una carica della polizia fra via Arenula e Ponte Garibaldi. Me lo racconta tutte le
volte.
Una carica della polizia: da bambina immaginavo cavalli
schiumanti e alabarde. Dillo ancora, mamma, dillo, dai, dimmelo di nuovo.
Riprendeva come una fiaba, tono cantante.
C’era una volta il movimento delle donne. C’era una volta. C’era
una volta il Partito Radicale. No, non come adesso. Più chiaro, più giusto, più
forte. C’erano le Grandi Battagli Civili. Si lottava.
Da bambina immaginavo mia madre in calzoncini di raso su un ring appoggiato al fiume, dalle parti dell’isola
Tiberina. I pugni chiusi nei guantoni.
Che cos’è lottare?
C’erano le lotte. Un tempo. Una volta. C’erano.
“Che cos’erano le lotte mamma?”
Si vuole forte forte qualcosa e si chiede tutti insieme.
“Come la Barbi trapezista?”
“No deve essere qualcosa che serve a tutti. Come mandare un
cargo pieno di Barbie trapeziste ai bambini del terzo mondo.”
Immaginavo bambini neri che giocavano con le Barbie trapezista
fuori dalla Capanna dello Zio Tom.
E mia madre con i guantoni. E tutte le sue amiche anche loro
con i guantoni. Mentre grossi cavalli grigi con i fianchi sudati si impennavano
contro i loro corpi svestiti.
Fra la polizia e mia madre c’era, quel giorno, qualcosa di
astratto e utilissimo per l’umanità. Un referendum. Il divorzio. La legge 194.
“Si tratta di diritti tesoro. Non te li danno volentieri”
Quand’ero bambina mi immaginavo mia madre a capo di una
delegazione che va dal Re e chiede pane,
lavoro pace e libertà.
A dodici anni, il giorno del compleanno in cui uscii dall’età
pediatrica , incominciai ad immaginarmi mia madre con una grossa pancia a forma di uovo mentre corre incontro a uno sbarramento di
cattivi in tuta mimetica. Niente cavalli, ormai vedo carrarmati e fucili.
“Mamma perché andavi a fare cose pericolose come le lotte
con me dentro l’utero? E se morivo?”
Per tutta l’adolescenza abbiamo litigato il giorno del mio
compleanno.
“La mamma di Cristina ha fatto sei mesi di ginnastica
perparto, tu andavi alle manifestazioni.”
“Io non sono un animale addetto alla riproduzione come quella
vacca idiota della madre di Cristina.”
La madre di Cristina preparava cenette meravigliose, era
gentile, non si dava arie, aveva licenziato la gioventù con discrezione attorno
ai 35 anni. Ed era riuscita a tenersi un marito.
Ma naturalmente era una vacca idiota.
Mia madre ha rischiato di ammazzarmi prima della nascita, perché
quella giornata di sole e di battaglia non se la sarebbe persa per niente al
mondo.
“Correvo con la pancia. E allora?”
Mia madre non era una vacca idiota.
E poi non avrebbero dovuto esserci incidenti. Era una festosa
manifestazione di maggio.
“C’era il palco in piazza Navona. Eravamo in tanti. C’era
anche tuo padre. Mi infilava continuamente dentro i portoni, prima quando
scappavamo nella stradine attorno a Campo de’ Fiori. Mi spingeva nel buio,
crucciato. Come è sempre lui. Vai vai vai! Ricordo il tonfo del portone alle
mie spalle. L’odore del cibo cucinato a pranzo. Era giovedì c’era quest’umidità
delle case vecchie, e odore di uova, peperoni. Aglio nell’aria, aglio fritto .
Appoggiavamo le spalle a muri scrostati e tuo padre mi metteva una mano sulla
pancia”.
Me lo racconta tutte le volte.
Me lo racconterà anche stasera.
“Tuo padre sentiva i tuoi piedini. Al riparo della polizia,
nel portone. Scappando.”
Quanto mi perseguiterà ancora quel pomeriggio di sole? Quel
presepe iconoclasta, di madonne scarmigliate e san Giuseppe accigliati e gioia
e morte.
Quanto ancora?
E’ un quarto di secolo oggi.
“Sai, tesoro, si sentiva sparare,piccoli secchi palpiti,
patùc, patùc, ti guardavi attorno, giravano vestiti come noi, a imitazione
della nostra sbandierata povertà di esteti dell’usato rivoltato sfilacciato e
lurido. Ci copiavano i calzoni e le
magliette i fazzoletti a coprire il
viso. Si fingevano noi, per sparare e far credere che eravamo noi che era fra
noi che si annidava la violenza.”
…. Patùc, patùc….
Me lo racconterà ancora.
Ha imparato a distinguere il palpito della pistola dal
fischio del lanciarazzi, dal tonfo della scacciacani, dal botto del
lacrimogeno.
Ha imparato.
Aveva la mia età.
Venticinque più venticinque cinquanta.
Io non so distinguere il patùc di una pistola dal puf del
lancio di un lacrimogeno dal tatatà di
una mitragliatrice.
Non mi vesto tutti i giorni nello stesso modo. Sarebbe
difficile copiarmi. Adesso, per esempio, mentre salgo le scale della sua casa, ho
una gonna di tela bianca e le espadrillas e una camicetta di seta.
Lei mi apre la porta e ha questi pantaloni militari largotti
e pieni di tasche. Tutte le tasche sono piene , le spuntano oggetti dappertutto.
“Sembri un magazzino mamma.”
Mi bacia ha gli occhi lucidi .
E’ ancora così sottile, così
svagata, ha gli occhiali da presbite, un metro da sarta, una ghirlanda di lecca
lecca. Tutto appeso al collo.
Ha piccole rughe sotto gli occhi.
Ha sicuramente pianto.
Lo capisco da come mi abbraccia
stretta.
“Buon Compleanno Giorgiana”
E’ una bella responsabilità chiamarsi come una
ragazza che è morta tre ore e quarantacinque minuti prima che tu nascessi, che
è arrivata, già morta, nello stesso ospedale in cui sei nata, che correva
vicino a tua madre, più giovane ancora di lei, che forse le ha anche dato una
mano, perché a correre la gravidanza di sbilancia, che prima di aiutare tua madre ha mandato a casa una bambina di 11
anni che era finita in quel subbuglio per caso uscendo dalla lezione di danza e che l’ha poi riconosciuta sui giornali del
giorno dopo e che ha testimoniato della
sua gentilezza e senso materno….. è una bella responsabilità, nascere con una
morte addosso.
Mia madre ha cucinato un risotto
colloso e un arrosto stopposo. Ma il vino è buonissimo.
Beviamo.
Gli occhi di mia madre spaziano
inquieti fra la finestra aperta percorsa dal volo delle rondini la libreria sovraccarica di volumi.
“Lei avrebbe ancora , 50 anni”
dice.
“No” convengo, “ne avrebbe 44.”
“Chissà com’è…..rimanere per
sempre giovani…..”
“Brutto.”
“Tu sei già più vecchia di lei…..”
“Per questo lo so che è brutto,
rimanere per sempre giovani, io sono già stufa, vorrei averli anch’io i tuoi brutti ricordi. Se il male è
già successo non tocca aspettarne altro.”
La prima bottiglia è finita. Mia
madre apre la seconda. Abilmente, rapidamente , la annusa, ne sbocca un po’, ne
versa un po’, fa girare il liquido e beve.
“Diciotto euro e cinquanta”
recita, chiude gli occhi “però: valeva la pena.”
Bevo.
A lei scivolano fuori due lacrime
dagli occhi socchiusi per l‘estasi alcolica.
“Questo vino è un poema epico”
dico.
Lei piange silenziosamente, senza che alcuna contrazione del viso contrasti il fluire del liquido, giù per le gote, sul mento.
“Il vino… deve essere buono…. Se no è inutile.”
“Infatti.”
Le porgo un kleenex.
Si soffia il naso ride.
“Tu sei il tipo di ragazza che ha
sempre i kleenex nella borsetta.”
Sorrido, in attesa.
“Questa notte ho fatto di nuovo
il sogno…”
Le lacrime si disordinano, adesso
il viso di mia madre è chiuso a pugno, naso, zigomi, mento, bocca, tutto è in
lotta contro il pianto. I singhiozzi le scuotono le spalle magre. Mi alzo da
tavola ad abbracciarla. La fragilità del suo scheletro mi impensierisce.
“Mamma mangi?”
La domanda è incongrua, sono
incongrui i ruoli come si disegnano ogni tanto fra noi. Ma lei è una donna
ferita, figlia di una generazione ferita. Io no, sono figlia di tempi ottusi.
Noi si fatica a provare emozioni, possiamo indossare tute virtuali, custodie
che scaldano il cuore, possiamo rimpinzarci di dolcezze , ma viviamo la nostra
primavera di plastica. Senza ossessioni.
“Raccontamelo mamma, il sogno.”
“Oh è sempre il solito”.
Si accende una sigaretta. Sbuffa
il fumo con decisione.
“Non avrei dovuto chiamarti come
lei. Ogni tuo compleanno è un rintocco funebre.”
“E’ giusto non dimenticare.”
Mi guarda con tenerezza, più che
guardarmi mi contempla.
“Tu sei il tipo di ragazza che
dice sempre la cosa giusta.”
“Non è vero.”
“Non dovevo chiamarti Giorgiana,
Giorgiana, mi sono appropriata della tua vita, sei nata sotto il segno di un
crimine e Freud mi punisce….”
Torno a sedermi, il livello del
vino scende nella seconda bottiglia.
Mia madre porta in tavola una
crostata di frutta, che, per fortuna, è stata prodotta dal pasticcere e non dal
suo disordine culinario.
Accende venticinque candeline,
tutte un po’ corte, sporche di vecchie torte, sporche.
“Soffia!”
Si è dimenticata di invitare mio
padre, non si è dimenticata di farmi un regalo: un bellissimo paio di occhiali da
sole, lenti Persol, montatura Armani.
“Mamma proprio tu che detesti le
firme…”
“Almeno questo son riuscita a non
fartelo pagare, povera bambina.”
Gli occhiali sono bellissimi, e
poi nascondono gli occhi, li metto, la guardo non vista.
Potrei raccontarlo io il sogno.
……Davamo le spalle al fiume,
correvamo avanti, patùc patùc, la ragazza che corre accanto a me ha i capelli
lunghi la scriminatura li divide in due, dondolano castani, danzano compatti,
spessi come nastri attorno al suo viso piccolo, picchiano sulle spalle, la vedo
cadere. Ricordo benissimo l’inerzia. Non cade così chi prende una storta, chi
inciampa. Cade così chi è, momentaneamente, senza vita. Mi chino su di lei .
Nel sogno mi chino su di lei…..
Non nella realtà. Nella realtà la
mia madre reale , di anni venticinque, studentessa universitaria fuori corso,
incinta di otto mesi, vede cadere Giorgiana Masi, di anni diciannove, lei pure
studentessa, la sente dire distintamente “Oddio che male”, e continua a
correre.
“Nei sogni si è sempre un po’
migliori che nella vita vera. Apposta si sogna. Non un futuro radioso, ma un
più radioso io, un io più eroico”.
“Quando la smetterai di
tormentarti per non esserti fatta sparare, per aver difeso me, che ero un
grosso girino innocente, che nuotavo ignara dentro di te, quando la smetterai
mamma? Non avresti potuto fare altro che spostare la morte un po’
più in là, cosa che altri hanno fatto…… mamma, dai….”
Si accende un’altra sigaretta,
mentre la precedente invecchia di cenere sull’orlo del piatto.
“Nel sogno la salvo.”
Sorride , come per una decisione coraggiosa.
Mi consento di sdrammatizzare.
“Io nel sogno trovo lavoro.”
Mi sono laureata due anni fa. Filosofia. Centodieci, lode, bacio
accademico. Stretta di mano del Preside di facoltà. Mi mancava soltanto lo
stupro del rettore, poi avevo collezionato tutte le carnalità simboliche della perfetta studentessa.
A parte tre mesi ad insegnare step dance alle amiche della nuova donna
di mio padre non ho mai lavorato. Nei sogni colleziono proposte per posti ad
elevata qualificazione teorica. Si sogna quello che non si è disposti a
desiderare nello stato della veglia.
“
…..è da quando hanno ammazzato
Carlo Giuliani.”
Ho perso l’inizio della frase.
“Che cosa?”
Mia madre si alza da tavola e
incomincia a sparecchiare. Non è un buon segno, quando la cena è andata bene,
quando sta bene, mia madre sparecchia il
giorno dopo, quando si sveglia, ascoltando la lettura dei giornali.
La aiuto meccanicamente, ci
muoviamo fra il salotto e la cucina, silenziose.
Ho ancora sugli occhi gli
occhiali da sole.
L’azzurro carico che segna la
fine dei pomeriggi di quasi estate è diventato
nero. Mia madre ha acceso la luce, mi striscia una carezza sui capelli.
“E’ buio. Togliteli o andrai a
sbattere.”
Non so com’è che finiamo abbracciate.
E poi sul divano. Le offro una
canna che ho preparato per lei a casa, prima di venirmi a farmi festeggiare.
Fuma con un complicato sistema che ha imparato negli anni settanta.
“Buona. Pakistano nero?”
“Macchè pakistano, la fa crescere
Peppe nel giardino di sua nonna all’Eur.”
“Fuma anche sua nonna?”
“Ma dai…. Peppe si scoccia
perfino che fumo con te, a sua nonna ha detto che è hierba buena, quella che usano a Cuba per fare il mojito.”
“Perché si scoccia che fumi con me?”
“A lui piacciono le madri regolari”
“Come la madre di Cristina, te la
ricordi?”
“La vacca idiota?”
Ridiamo.
“Lo sai che Cristina è incinta’”
Finisce la canna in un unico
avido respiro. Ed è di nuovo triste.
“Ti secca che non ho invitato
papà?”
“Ma no figurati….”
“E’ che proprio non lo sopporto ,
non sopporto quando si pavoneggia di questa scema col botto che ha sposato.”
“Prima o poi dovrai digerirla.”
“Ma io a lei la digerisco….è lui
che mi è rimasto sullo stomaco.”
Ridiamo ancora un po’, beviamo
una grappa, un’altra,un caffè, finiamo il vino.
“Tuo padre non me l’ha mai
perdonata di aver rischiato di non farti
nascere.”
“Digli di prendersela con
Cossiga, è lui che ha vietato la manifestazione
no? Che ha coperto l’operato della polizia, tu eri soltanto una ragazza di
sinistra che manifestava in piazza in un pomeriggio di sole.”
“Quando ho sentito le doglie mi
sono appoggiata al muro del cinema Reale…..te l’ho già raccontato?”
“Ventiquattro volte, ma ricordo
soltanto le ultime diciotto.”
“Da quando è morto Carlo Giuliani
ho capito che il tempo non passa mai. Patùc, patùc…..fine. Io ho una figlia che
avrà dei figli che avranno dei figli. Giorgiana no. Neanche Carlo. C’è quacosa
di osceno nella morte dei giovani. Vite interrotte prime di entrare nel ciclo
della ripetizione. Della riproduzione. Prima che il lusso estremo della noia
abbrevi i tempi della nostalgia, l’ansia della rappresentazione. Chissà se se
ne rendono conto, quelli che premono il grilletto, perché così hanno avuto
ordine di fare, perché hanno imparato a sparare, chissà se se ne rendono conto
che stanno creando questo terribile squilibrio, che stanno interrompendo una vita?”
La guardo: ha soltanto due rughe,
ma sono profonde, le chiudono il sorriso in una parentesi tonda, anche quando
non sorride.
Anche adesso, che va a prendere
dal lavello un mazzo di fiori di campo, umidi, saturi di profumo, e dice: “Andiamo,
ti va?”
Mi va.
Mi deve andare. Mi va tutti gli
anni, da quando ho memoria.
Camminiamo con un passo assurdamente
atletico, come se qualcuno volesse fermarci , come se dovessimo sfuggire a
qualcosa. Che abbiamo detto, oppure
sottinteso.
Arriviamo al punto esatto in cui
Giorgiana è caduta e sono io, come tutti gli anni ad appoggiare i fiori.
Ce ne sono degli altri, molti
altri. Ce ne saranno sempre, tutti i 12 maggio. E continuano a essercene, anche
quando quelle dell’età di mia madre saranno morte di vecchiaia. Ci penserò io, e
dopo di me….?
Sono passati venticinque anni.
Tutta la mia vita, tutta la vita che lei ha vissuto.
“Sarebbe ora che facessi un
figlio anche tu, se c’è riuscita quella deficiente di Cristina….”
“D’accordo, mamma, lo farò….. se
Peppe è d’accordo.”
Mia madre fa una piroetta.
“Oh Peppe non è mica l’unico
portatore sano di spermatozoi di questo mondo!”
Si allontana da me quasi
correndo, mi saluta con un ondeggiare della mano. Una ragazza che licenzia i
suoi fantasmi e torna a casa a disperarsi. Come se andasse ad una gita.
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Il testo è tratto dal libro “In
ordine pubblico, 10 scrittori per 10 storie” curato da Paola Staccioli, pubblicato
nel 2005 in collaborazione con l’Associazione Walter Rossi.