“L’arte contro il femminicidio” è
l’evento organizzato dalla rete la Fenice con Bonaviri, l’Associazione
Collettivocinque con Maccotta, e il
contributo di altre realtà associative, intellettuali, artiste-i. Nel dettaglio
domenica 22 settembre presso la Villa
Comunale di Frosinone, si svolgeranno nel corso di tutta la giornata una serie di eventi culturali e artistici legati al tragico tema del
femminicidio.
E’ un primo passo quanto mai necessario
per sensibilizzare un’opinione pubblica che per retaggi culturali è refrattaria
alla corretta comprensione di un vero e proprio allarme sociale. L’iter di
conversione del decreto legge sulla
materia inviato alle camere dal
consiglio dei ministri, con la Camera dei deputati semi deserta nella
convocazione del 20 agosto, e gli
insulti volati da esponenti della lega, del Movimento 5 Stelle all’indirizzo
del presidente della Camera Laura
Boldrini, danno la dimensione di quanto
spinosa sia la questione.
Quando si tende a minimizzare un
problema ad esorcizzarlo, significa che se ne ha paura, si mette in atto quasi
una campagna negazionista. Ma perché a parole il femminicidio è aborrito da
tutti poi, nei fatti, quando si prova a chiedere un impegno concreto contro
tale orrendo crimine, proliferano distinguo e titubanze? La risposta è quanto mai semplice, perché la
questione investe il problema mai risolto della differenza di genere. La pari
dignità umana fra uomo e donna esiste solo in teoria, ma nella pratica sconta
pregiudizi culturali sedimentati in millenni di organizzazione patriarcale della società. A
questa si è sovrapposto il pesante fardello costituito dalla ferrea determinazione dei ruoli
specifici fra generi insiti nella
famiglia borghese.
E’ infatti l’organizzazione familiare
classica della borghesia cattolica che, in virtù della sua funzione di
organizzazione sociale intermedia fra il potere e i cittadini , ha definitivamente sancito nel corso dei
decenni la differenza di genere,
condannando la donna a soccombere rispetto al maschi e a subirne la tirannia.
Sin dalla nascita certi ruoli sono già
ben definiti come riproduzione dell’ideologia dominante borghese maschilista. Se nasce un maschio il papà si riempie di orgoglio perché
la sua schiatta può sopravvivere, il seme non si perde, sull’erede sono riposte le speranze affinchè raggiunga
quei traguardi che il genitore non è riuscito ad ottenere. Se nasce una
femmina ci si consola pensando che le donne restano in casa, si occupano dei
figli e su di loro si può contare per l’assistenza nella vecchia.
La scelta di giocattoli è
predeterminata, al maschio si regaleranno, pistole, robot, finti arnesi da
lavoro e auto modelli, la femmina dovrà invece giocare con bambole, pentoline,
piccoli articoli per toilette. La famiglia ha la necessità di assegnare ai
nuovi nati ruoli funzionali al rispetto del modello imposto dall’ideologia
dominante, che nel secolo scorso, ma
anche oggi, pur con le diverse declinazioni imposte dalle accelerazioni ultra
liberiste è quello borghese.
In realtà l’ingresso prepotente della
tirannia del mercato nell’organizzazione della società, ha prodotto ancora più
sconquassi nella determinazione della condizione femminile. La sottomissione
della attività umane alla dittatura del Pil, ha determinato la necessità per la
donna di trovarsi un lavoro retribuito, ossia di diventare soggetto produttivo,
oltre che riproduttivo.
Nel contempo però, le attività
inerenti alla cura dei figli, della casa, sempre in nome del retaggio culturale
borghese, pur in presenza di una organizzazione familiare maggiormente
rarefatta, non sono mai passate di mano,
sono sempre rimaste prerogativa del genere femminile il quale si è ritrovato ad
assolvere compiti produttivi e riproduttivi insieme con un’imponente aggravio
di stress fisico e mentale. Oppure a subire lancinanti sensi di colpa nel caso
in cui l’attività lavorativa retribuita, sostituisse completamente l’attività
di cura delle persone. Come se il lavoro anziché elemento di emancipazione per
la donna fosse causa di vergogna perché la distoglie dai
ferrei compiti a lei assegnatigli dal modello borghese.
Inoltre la stagione ultra liberista,
iper -consumista ha spostato i valori di stima della persona, dalla qualità del
soggetto alla quantità degli oggetti che possiede, di conseguenza gli oggetti acquistano valore in quanto
strumento di esaltazione della propria autostima. Si vale per ciò che si ha e
non per quello che si è.
In questa ottica, grazie a martellanti operazioni di mistificazione
culturale orientate alla mitizzazione del possesso, si è spacciato un processo
di oggettivizzazione della donna come emancipazione femminile. Ossia se la donna
per i motivi che ho descritto prima non può essere stimata come soggetto, può
sicuramente essere apprezzata come oggetto. In pratica viene valorizzata come
mezzo utile all’autostima del maschi che la possiedono.
Essa si apprezza secondo un valore puramente
commerciale che spesso costa molto, anzi più costa e più esalta le doti di chi la
possiede. Da qui si realizza
il successo anche economico di una donna che vende il suo corpo all’uomo,
come fosse merce. Questa non è
emancipazione, è ulteriore deterioramento della dignità umana che si sminuisce attraverso il degradarsi da soggetto a
oggetto.Tale dinamica purtroppo è ormai acquisita, è sedimentata, è divenuta senso comune anche per colpa di molte donne che hanno accettato il nuovo stato e anzi cercano
il successo attraverso questa dinamica, che è assurta ad entità valoriale
all’interno della stessa famiglia. Quanti genitori spingono le figlie a mostrarsi, a partecipare
ai provini delle immonde trasmissioni televisive che hanno inquinato e devastato
lo sviluppo culturale della società’.
Ma un oggetto, per quanto prezioso
possa essere, è sempre un oggetto, un entità completamente succube della persona che lo
possiede. Un oggetto non si ribella, un oggetto si può buttare via quando non
serve più e la cosa non è immorale. Ecco perché l’uomo che riceve un rifiuto da
una donna, percepita come oggetto di sua proprietà, non lo accetta. Una donna oggetto, può essere
buttata via quando diventa obsoleta, quando stanca. La cosa non è immorale. Ecco
quindi la reazione violenta al rifiuto.
Infine a questi aspetti si aggiunge
una profonda modificazione dei rapporti relazionali interpersonali. Ovvero la consuetudini di affermare le
proprie ragioni non dimostrandone, secondo logica, la bontà, ma semplicemente urlando più di chi
queste ragioni contesta e ne propone di alternative. Negli scambi dialettici si impone, non chi riesce a dimostrare la
giustezza delle proprie idee, ma chi
urla di più, chi sovrasta gli altri con i decibel dalla propria
voce, chi di fatto usa atteggiamenti prevaricanti e violenti. E qui si chiude
il cerchio.
Su un’atavica concezione di
inferiorità femminile imposta dal retaggio patriarcale e dall’organizzazione
borghese della collettività , si sovrappone l’oggettivizzazione mercificante
del corpo femminile frutto avvelenato della società consumistica, e l’uso
sistematico e acquisito della violenza come unico modo di imporre la propria
volontà.
In questo quadro l’approvazione di una
legge, pur sacrosanta, non è sufficiente. Le azioni da mettere in campo
dovevano essere assolutamente rivoluzionarie. Lasciare liberi i bambini di scegliere con
quali giochi trastullarsi. Forse ad un maschio poteva capitare di divertirsi
più con le pentoline e a una femmina di preferire le automobiline. Non sminuire
le attività riproduttive rispetto a quelle produttive. In una società basata
sul benessere e non sul pil, la cura delle persone e dell’ambiente è altrettanto importante se non più
importante dell’acquisizione di un reddito. Entrambi i generi debbono essere ritenuti in grado di
espletare con un uguale dignità sia l’una che l’altra funzione. Combattere l’individualismo sfrenato tipico
delle società ultra liberiste. Un individualismo che coinvolge in maggior
misura l’egolatria e il machismo maschile, a fronte della mercificazione del
corpo femminile. E infine ricondurre i rapporti interpersonali nel solco del
reciproco ascolto e del reciproco rispetto.
E’ utopia? Forse si, intanto
cominciamo a promuovere e ad aderire a manifestazioni come quelle di domenica
prossima alla Villa Comunale organizzata dalla rete la Fenice e dal
Collettivocinque, chissà dalle scarpette rosse può nascere un fiore.