Diritti del lavoro:
nessuna discontinuità coi precedenti governi
Fabiana Stefanoni
Quello che Di Maio chiama, a fini propagandistici, “Decreto dignità” ha in realtà un altro nome. Il Decreto legge varato dal Consiglio dei ministri il 4 luglio è titolato “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”. Un titolo di per sé già emblematico: sappiamo bene che non esiste nessuna possibile dignità comune tra capitalisti e lavoratori, dato che il profitto degli uni si basa sullo sfruttamento degli altri. Basta leggerne i contenuti per rendersi conto che gli unici beneficiari di questo decreto sono ancora una volta le imprese e i grandi capitalisti.
Una rispolveratina al Jobs Act
Ciò che immediatamente salta all’occhio è che, a dispetto della propaganda elettorale del M5S, il Jobs Act non verrà abolito. Tutto l’impianto di quella legge - che ha azzerato decenni di diritti conquistati dai lavoratori con dure lotte – resta in piedi, a partire dall’abolizione dell’articolo 18. Il Jobs Act viene solo “rispolverato”, con qualche ritocco che lascia immutata la sostanza per limitarsi a qualche aggiustamento nella forma.
Più nel dettaglio, restano in vigore i licenziamenti senza giusta causa (effetto dell’abolizione dell’art.18), ma aumenta di un po' il risarcimento in caso di licenziamento illegittimo: l’indennità massima sale a 36 mesi rispetto ai precedenti 24. Come dire: ti licenzio lo stesso anche se non te lo meriti, ma, forse, ti do una pacca sulla spalla in più. Va ricordato, tra l’altro, che il risarcimento massimo si applica, col Jobs Act, solo su una fetta ristretta di lavoratori. Per tutti gli altri, cioè per la maggioranza dei lavoratori assunti col Jobs Act, non cambia assolutamente nulla.
Noi pensiamo che per ridare dignità al lavoro sia necessario abolire il Jobs Act, reintrodurre ed estendere l'articolo 18 nelle grandi e piccole imprese, nazionalizzare senza indennizzo e sotto controllo dei lavoratori le imprese che licenziano.
Ciò che immediatamente salta all’occhio è che, a dispetto della propaganda elettorale del M5S, il Jobs Act non verrà abolito. Tutto l’impianto di quella legge - che ha azzerato decenni di diritti conquistati dai lavoratori con dure lotte – resta in piedi, a partire dall’abolizione dell’articolo 18. Il Jobs Act viene solo “rispolverato”, con qualche ritocco che lascia immutata la sostanza per limitarsi a qualche aggiustamento nella forma.
Più nel dettaglio, restano in vigore i licenziamenti senza giusta causa (effetto dell’abolizione dell’art.18), ma aumenta di un po' il risarcimento in caso di licenziamento illegittimo: l’indennità massima sale a 36 mesi rispetto ai precedenti 24. Come dire: ti licenzio lo stesso anche se non te lo meriti, ma, forse, ti do una pacca sulla spalla in più. Va ricordato, tra l’altro, che il risarcimento massimo si applica, col Jobs Act, solo su una fetta ristretta di lavoratori. Per tutti gli altri, cioè per la maggioranza dei lavoratori assunti col Jobs Act, non cambia assolutamente nulla.
Noi pensiamo che per ridare dignità al lavoro sia necessario abolire il Jobs Act, reintrodurre ed estendere l'articolo 18 nelle grandi e piccole imprese, nazionalizzare senza indennizzo e sotto controllo dei lavoratori le imprese che licenziano.
La presunta stretta sui contratti a termine
Ma veniamo a quella che Di Maio sbandiera come la “Waterloo del precariato” ovverosia la “stretta” sui contratti a termine. Anzitutto, lo stesso ministro del lavoro ha precisato che questa presunta stretta “non potrà prescindere dall’abbassamento del costo del lavoro nella legge di Bilancio”: per non spaventare i grandi imprenditori, che potrebbero mal digerire un aumento dei vincoli sull’utilizzo del lavoro precario, annuncia ulteriori attacchi ai salari. Quando si parla di “abbassamento del costo del lavoro” sappiamo bene che cosa si intende: minori spese per le aziende nell’erogazione dei salari. Significa, in parole povere, un attacco alle già misere retribuzioni di chi lavora.
Proviamo a capire esattamente in cosa consiste questa “stretta”. Rispetto agli attuali 36 mesi, un contratto a termine potrà essere stipulato solo fino a 12 mesi (fino a 24 mesi con il rinnovo, che dovrà essere giustificato). Le proroghe possibili dei contratti a termine passeranno da 5 a… 4 e per le imprese ci sarà un costo di “ben” 0.5 punti (sic!) per ogni rinnovo. Tutto questo senza che vi sia alcun obbligo di assunzione dopo i 12 (o 24) mesi di lavoro precario! Insomma, con una disoccupazione alle stelle (che arriva fino al 50% per i giovani) e quindi con un enorme esercito di riserva in cerca di lavoro, sai che sacrificio per le imprese lasciare a casa un lavoratore dopo 12 o 24 mesi ed assumerne uno nuovo!
Nemmeno il lavoro interinale viene abolito: viene solo ridotto al 20% il tetto massimo di assunti interinali in una fabbrica. Di fatto è solo una ratifica di quello che già avviene: è questa la percentuale di assunzioni interinali utilizzate di norma dalle grandi industrie.
La verità è che il “governo del cambiamento” non cambia proprio nulla: resta il precariato, resta la possibilità per gli imprenditori di utilizzare e poi disfarsi della forza lavoro a proprio piacimento senza alcun obbligo di assunzione a tempo indeterminato.
L’unico reale contrasto al lavoro precario si ottiene con l’abolizione di tutte le leggi che hanno esteso il lavoro a tempo determinato (dal Pacchetto Treu alla Legge Biagi), con l’assunzione a tempo indeterminato di tutto il personale precario, con la scala mobile delle ore lavorative (riduzione delle ore di lavoro a parità di salario per chi già lavora a tempo indeterminato al fine di assumere nuovo personale).
Ma veniamo a quella che Di Maio sbandiera come la “Waterloo del precariato” ovverosia la “stretta” sui contratti a termine. Anzitutto, lo stesso ministro del lavoro ha precisato che questa presunta stretta “non potrà prescindere dall’abbassamento del costo del lavoro nella legge di Bilancio”: per non spaventare i grandi imprenditori, che potrebbero mal digerire un aumento dei vincoli sull’utilizzo del lavoro precario, annuncia ulteriori attacchi ai salari. Quando si parla di “abbassamento del costo del lavoro” sappiamo bene che cosa si intende: minori spese per le aziende nell’erogazione dei salari. Significa, in parole povere, un attacco alle già misere retribuzioni di chi lavora.
Proviamo a capire esattamente in cosa consiste questa “stretta”. Rispetto agli attuali 36 mesi, un contratto a termine potrà essere stipulato solo fino a 12 mesi (fino a 24 mesi con il rinnovo, che dovrà essere giustificato). Le proroghe possibili dei contratti a termine passeranno da 5 a… 4 e per le imprese ci sarà un costo di “ben” 0.5 punti (sic!) per ogni rinnovo. Tutto questo senza che vi sia alcun obbligo di assunzione dopo i 12 (o 24) mesi di lavoro precario! Insomma, con una disoccupazione alle stelle (che arriva fino al 50% per i giovani) e quindi con un enorme esercito di riserva in cerca di lavoro, sai che sacrificio per le imprese lasciare a casa un lavoratore dopo 12 o 24 mesi ed assumerne uno nuovo!
Nemmeno il lavoro interinale viene abolito: viene solo ridotto al 20% il tetto massimo di assunti interinali in una fabbrica. Di fatto è solo una ratifica di quello che già avviene: è questa la percentuale di assunzioni interinali utilizzate di norma dalle grandi industrie.
La verità è che il “governo del cambiamento” non cambia proprio nulla: resta il precariato, resta la possibilità per gli imprenditori di utilizzare e poi disfarsi della forza lavoro a proprio piacimento senza alcun obbligo di assunzione a tempo indeterminato.
L’unico reale contrasto al lavoro precario si ottiene con l’abolizione di tutte le leggi che hanno esteso il lavoro a tempo determinato (dal Pacchetto Treu alla Legge Biagi), con l’assunzione a tempo indeterminato di tutto il personale precario, con la scala mobile delle ore lavorative (riduzione delle ore di lavoro a parità di salario per chi già lavora a tempo indeterminato al fine di assumere nuovo personale).
Delocalizzazioni? Sì, ma senza fretta
L’altro spot del governo, che sembra impegnato in una campagna elettorale permanente, è la presunta stretta sulle delocalizzazioni. Presunta, appunto: alle imprese viene lasciata piena libertà di chiudere e licenziare e di trasferire la produzione all’estero, alla faccia degli operai licenziati nel nostro Paese. L’unico “vincolo” che viene introdotto riguarda le imprese che hanno ricevuto contributi, finanziamenti agevolati, aiuti fiscali: queste dovranno aspettare 5 anni prima di spostare la produzione all’estero (nella bozza iniziale si parlava di 10 anni, ma le richieste di riduzione da parte di Confindustria sono state subito accolte).
Al di là della propaganda, significa che le imprese potranno continuare a licenziare e delocalizzare senza vincoli di sorta e che potranno persino tenersi i soldi pubblici ricevuti: gli basterà aspettare 5 anni prima di ufficializzare il trasferimento della proprietà all’estero. Senza contare che, come hanno notato persino alcuni commentatori del Sole24ore, ci sono molte imprese che spostano di fatto la produzione all’estero ma in fabbriche che non appaiono della stessa proprietà e che quindi non dovranno restituire proprio nulla: basta un semplice trucchetto.
Se consideriamo che sono migliaia le imprese manifatturiere italiane già delocalizzate (per un giro d’affari di più di 240 miliardi di euro) per le quali non sono previsti né obblighi né norme retroattive, è evidente che per gli operai tutto resta come prima: i capitalisti italiani che hanno già de localizzato continueranno a godersi i loro profitti, gli altri potranno continuare a licenziare a loro piacimento per spostare la produzione nei Paesi dove la forza-lavoro costa meno (magari facendo lavorare donne e bambini in condizioni di lavoro schiavistiche, come in alcuni Paesi asiatici, africani e sudamericani). Aggiungiamo il fatto che questa norma non prende in considerazione tutte le forme di finanziamento indiretto erogate dallo Stato alle industrie, come la cassa integrazione (ordinaria e straordinaria), che prevede l’utilizzo di soldi pubblici per garantire gli affari a capitalisti miliardari dispensandoli dall'erogazione degli stipendi.
La verità è che l'unico modo per impedire le delocalizzazioni e garantire i posti di lavoro è l'esproprio delle grandi aziende, a partire da quelle che licenziano o annunciano di trasferire la produzione all'estero. Tutto il resto è fumo senza arrosto.
L’altro spot del governo, che sembra impegnato in una campagna elettorale permanente, è la presunta stretta sulle delocalizzazioni. Presunta, appunto: alle imprese viene lasciata piena libertà di chiudere e licenziare e di trasferire la produzione all’estero, alla faccia degli operai licenziati nel nostro Paese. L’unico “vincolo” che viene introdotto riguarda le imprese che hanno ricevuto contributi, finanziamenti agevolati, aiuti fiscali: queste dovranno aspettare 5 anni prima di spostare la produzione all’estero (nella bozza iniziale si parlava di 10 anni, ma le richieste di riduzione da parte di Confindustria sono state subito accolte).
Al di là della propaganda, significa che le imprese potranno continuare a licenziare e delocalizzare senza vincoli di sorta e che potranno persino tenersi i soldi pubblici ricevuti: gli basterà aspettare 5 anni prima di ufficializzare il trasferimento della proprietà all’estero. Senza contare che, come hanno notato persino alcuni commentatori del Sole24ore, ci sono molte imprese che spostano di fatto la produzione all’estero ma in fabbriche che non appaiono della stessa proprietà e che quindi non dovranno restituire proprio nulla: basta un semplice trucchetto.
Se consideriamo che sono migliaia le imprese manifatturiere italiane già delocalizzate (per un giro d’affari di più di 240 miliardi di euro) per le quali non sono previsti né obblighi né norme retroattive, è evidente che per gli operai tutto resta come prima: i capitalisti italiani che hanno già de localizzato continueranno a godersi i loro profitti, gli altri potranno continuare a licenziare a loro piacimento per spostare la produzione nei Paesi dove la forza-lavoro costa meno (magari facendo lavorare donne e bambini in condizioni di lavoro schiavistiche, come in alcuni Paesi asiatici, africani e sudamericani). Aggiungiamo il fatto che questa norma non prende in considerazione tutte le forme di finanziamento indiretto erogate dallo Stato alle industrie, come la cassa integrazione (ordinaria e straordinaria), che prevede l’utilizzo di soldi pubblici per garantire gli affari a capitalisti miliardari dispensandoli dall'erogazione degli stipendi.
La verità è che l'unico modo per impedire le delocalizzazioni e garantire i posti di lavoro è l'esproprio delle grandi aziende, a partire da quelle che licenziano o annunciano di trasferire la produzione all'estero. Tutto il resto è fumo senza arrosto.
Le maestre "congelate"
Non possiamo, infine, non ricordare che un altro leitmotiv della campagna elettorale del duo populista è stato il sostegno alle maestre diplomate che rischiano il licenziamento di massa (55 mila licenziamenti se verrà applicata la vergognosa sentenza del Consiglio di Stato che le esclude dalle graduatorie ad esaurimento). Come da subito abbiamo denunciato – essendoci impegnati in prima fila a sostegno della lotta di queste lavoratrici – la solidarietà dei partiti di destra e populisti era solo strumentale: oggi ne abbiamo la dimostrazione. Contestualmente all'approvazione del “Decreto dignità”, il Consiglio dei ministri ha approvato la proposta del neo-ministro dell'istruzione Bussetti di “congelare” per 120 giorni la condizione di queste maestre. Una vera e propria presa in giro, che serve solo per scongiurare il rischio di un avvio dell'anno scolastico senza insegnanti e che lascia nella totale incertezza i diplomati magistrali: come hanno giustamente denunciato le maestre dei comitati più combattivi è un affronto a decine di migliaia di donne.
Ribadiamo il nostro sostegno attivo alla lotta delle maestre: rivendichiamo un decreto che garantisca il posto di lavoro a tempo indeterminato a tutte le maestre e a tutti i maestri che insegnano nelle scuole. Chiediamo anche l'abolizione della legge 107 (“Buona scuola”) in tutte le sue parti, inclusa la vergogna dell'alternanza scuola-lavoro.
Non possiamo, infine, non ricordare che un altro leitmotiv della campagna elettorale del duo populista è stato il sostegno alle maestre diplomate che rischiano il licenziamento di massa (55 mila licenziamenti se verrà applicata la vergognosa sentenza del Consiglio di Stato che le esclude dalle graduatorie ad esaurimento). Come da subito abbiamo denunciato – essendoci impegnati in prima fila a sostegno della lotta di queste lavoratrici – la solidarietà dei partiti di destra e populisti era solo strumentale: oggi ne abbiamo la dimostrazione. Contestualmente all'approvazione del “Decreto dignità”, il Consiglio dei ministri ha approvato la proposta del neo-ministro dell'istruzione Bussetti di “congelare” per 120 giorni la condizione di queste maestre. Una vera e propria presa in giro, che serve solo per scongiurare il rischio di un avvio dell'anno scolastico senza insegnanti e che lascia nella totale incertezza i diplomati magistrali: come hanno giustamente denunciato le maestre dei comitati più combattivi è un affronto a decine di migliaia di donne.
Ribadiamo il nostro sostegno attivo alla lotta delle maestre: rivendichiamo un decreto che garantisca il posto di lavoro a tempo indeterminato a tutte le maestre e a tutti i maestri che insegnano nelle scuole. Chiediamo anche l'abolizione della legge 107 (“Buona scuola”) in tutte le sue parti, inclusa la vergogna dell'alternanza scuola-lavoro.
L'unica dignità è quella socialista
L'unica vera possibilità di ridare dignità al lavoro, sempre più colpito dagli attacchi dei governi borghesi di tutti i colori, è quella di costruire un'economia socialista. E' un dato di fatto che tantissimi operai hanno votato M5S e Lega: è anche il frutto di fallimentari politiche governiste della sinistra riformista (da Rifondazione comunista a tutte quelle forze politiche confluite nel cartello elettorale “Leu”). Il sostengo dei partiti di sinistra alle politiche padronali, col conseguente immiserimento delle masse popolari, ha aperto la strada alla diffusione di populismi e razzismi, che ora trovano in questo governo la loro espressione più cruda.
E' necessario battersi per un'alternativa di governo e di sistema, che parta dalle lotte dei lavoratori e delle lavoratrici e applichi un programma anticapitalista. Non esistono governi buoni nel capitalismo: esiste solo la barbarie. Costruiamo il partito rivoluzionario internazionale che serve per abbattere questo sistema economico e costruire un mondo socialista.
L'unica vera possibilità di ridare dignità al lavoro, sempre più colpito dagli attacchi dei governi borghesi di tutti i colori, è quella di costruire un'economia socialista. E' un dato di fatto che tantissimi operai hanno votato M5S e Lega: è anche il frutto di fallimentari politiche governiste della sinistra riformista (da Rifondazione comunista a tutte quelle forze politiche confluite nel cartello elettorale “Leu”). Il sostengo dei partiti di sinistra alle politiche padronali, col conseguente immiserimento delle masse popolari, ha aperto la strada alla diffusione di populismi e razzismi, che ora trovano in questo governo la loro espressione più cruda.
E' necessario battersi per un'alternativa di governo e di sistema, che parta dalle lotte dei lavoratori e delle lavoratrici e applichi un programma anticapitalista. Non esistono governi buoni nel capitalismo: esiste solo la barbarie. Costruiamo il partito rivoluzionario internazionale che serve per abbattere questo sistema economico e costruire un mondo socialista.