Per la Rifondazione di un Partito Comunista
unire la classe, organizzare il conflitto, costruire l’intellettuale collettivo
Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio. Mi sono convinto che bisogna sempre contare solo su se stessi e sulle proprie forze, non attendersi niente da nessuno e quindi non procurarsi delusioni. Che occorre proporsi di fare solo ciò che si sa e si può fare e andare per la propria via.
Antonio Gramsci (dalla lettera al fratello Carlo del 12/09/1927)
Premessa: perchè questo documento
I congressi nella vita di un Partito devono servire a fare un bilancio rigoroso del lavoro svolto, fissare la linea politica per il futuro e scegliere il gruppo dirigenteadatto a perseguirla. Soprattutto in una fase come questa segnata da pesanti sconfitte e arretramenti, che mettono a rischio la stessa sopravvivenza del PRC, c’è bisogno di un congresso davvero “straordinario” che segni una reale discontinuità di linea politica e quindi dei gruppi dirigenti. Come compagni provenienti da diverse collocazioni ed esperienze nel Partito, abbiamo richiesto che la discussione si concentrasse sulle principali scelte da compiere nell’attuale difficile contesto e che le diverse opzioni e tesi che si confrontano-scontrano nel Partito avessero medesima dignità (in termini di presentazione in tutti i congressi, verifica del consenso anche ai fini della elezione dei delegati e dei nuovi gruppi dirigenti, ecc…).
Abbiamo chiesto un congresso a tesi che con trasparenza valorizzasse le parti condivise e concentrasse al tempo stesso la discussione sul merito delle questioni controverse, evitando la proliferazione di documenti, ma dando sovranità-ruolo a tutti i compagni, al di là delle aree di riferimento o di provenienza, in un congresso che ripristinasse la dialettica e fermasse la degenerazione correntizia. Non solo è stata respinta questa impostazione nella commissione regolamento e nel CPN, ma è stato anche alzato il numero di componenti del CPN necessari per presentare un documento alternativo (dal 3 al 10%), introducendo una logica tipicamente maggioritaria, quella logica che contestiamo ai nostri avversari politici.
Altro che congresso “straordinario”! Per dare piena dignità alle nostre proposte e tesi alternative, fuori da accordi precostituiti tra aree e gruppi dirigenti, non avevamo quindi altra possibilità che utilizzare lo strumento del documento alternativo sottoscritto da almeno 500 iscritti,.un documento che non prefiguri la creazione di una nuova area interna, ma volutamente centrato sulle questioni oggetto di questo congresso.
La raccolta delle firme ha rappresentato un impegno faticoso, ma ci ha permesso di coinvolgere e motivare centinaia di compagni, molti dei quali scettici e delusi. (abbiamo raccolto più di 850 firme). Una esperienza importante per tutto il partito in questa fase difficile, una significativa inversione di tendenza rispetto alla crisi di militanza che rende diverso questo documento!
A partire da noi quindi intendiamo praticare da subito le proposte di funzionamento che proponiamo a tutto il partito e, in relazione al consenso ricevuto, ci impegniamo a garantire la piena sovranità dei compagni dei circoli nella proposta ed elezione dei delegati alle istanze superiori e dei componenti dei comitati politici, sulla base di criteri trasparenti e verificabili legati all’impegno ed alla partecipazione al lavoro politico, per favorire un concreto rinnovamento dei gruppi dirigenti e rimuovere qualsiasi fenomeno di autoconservazione e arroccamento.
I. La crisi economica e politica
1. La crisi del capitalismo
È ormai un fatto riconosciuto, anche dagli economisti classici, che la fase attuale è caratterizzata da una pesantissima crisi di sovrapproduzione che da anni scava nel tessuto produttivo dei Paesi a capitalismo avanzato. La crisi ha la sua origine profonda nella controrivoluzione neoliberista in atto a partire dal 1973, per rispondere all’avanzata del movimento operaio, attraverso la quale le classi dominanti del mondo occidentale hanno imposto nei propri Paesi un progressivo spostamento della ricchezza dal basso verso l’altro, ingenerando – soprattutto in Italia tra i Paesi europei – una spaventosa divaricazione tra salari e profitti, una continua perdita di potere d’acquisto e, come se non bastasse, un aumento dei tassi di disoccupazione soprattutto tra i giovani.
Un sistema di bassi salari che è riuscito a non collassare fino al 2008 solo grazie alle politiche di credito facile del sistema bancario, che tuttavia si sono convertite in un gigantesco e non solvibile debito privato delle famiglie. Tutto ciò ha prodotto tre fattori di risposta alla crisi e al progressivo restringimento dei margini di profitto per i capitalisti:
a) Un aumento della concorrenza internazionale tra i poli e le potenze capitaliste per la spartizione delle aree geo-strategiche e delle risorse del pianeta allo scopo di mantenere o conquistare posizioni di supremazia sul mercato globale internazionale. Questa concorrenza, dopo la dissoluzione del blocco socialista dell’Est europeo, è diventata competizione sempre più aperta con una scalata di posizioni dell’asse franco-renano sostenuto dai vincoli della moneta unica gravanti sui Paesi alleati della UE, una perdita progressiva di posizioni del polo a guida USA, compensata da una forte spinta alla militarizzazione di questa competizione e, sul versante asiatico, da un declino della potenza giapponese e una fortissima ascesa della Cina sui mercati internazionali.
b) L’affermarsi di un modello produttivo flessibile in tutti i Paesi capitalisti, basato sulle caratteristiche di una filiera produttiva distribuita ormai a livello internazionale (e non più concentrata solo su base nazionale), su forti incentivi alle delocalizzazioni e alla deregolamentazione del mercato del lavoro. In ogni singolo Paese, ovviamente, questo processo avviene con caratteristiche peculiari e tempi differenti dettati dalla posizione nella gerarchia internazionale e dalle politiche neo-liberiste adottate. Nel nostro Paese si produce una frammentazione estrema sia della produzione che della composizione interna alla classe lavoratrice che assume una connotazione più marcata con i processi di precarizzazione dispiegati dalla seconda metà degli anni ‘90.
c) Un aumento smisurato del capitale speculativo rispetto a quello produttivo. Con la saturazione dei mercati, le imprese monopoliste rispondono al restringimento dei margini di profitto nell’economia reale spostando capitali sempre più ingenti verso quella speculativa. In Italia questo processo è stato accompagnato da una politica di forte privatizzazione e svendita delle risorse e del patrimonio pubblico. Anziché investire in attività produttive, il capitale negli ultimi 20 anni ha privilegiato i movimenti di borsa, più proficui ed immediati. Al capitalista non importa se l’accumulazione avvenga attraverso profitti dar investimenti produttivi o attraverso semplici scambi in borsa di azioni e futures. Così avanza illusoriamente per anni l’idea di poter riprodurre all’infinito denaro dal denaro senza passare per l’economia reale. Il volume degli affari delle Borse diventa in ogni Paese 5-10-20 volte quello che si realizza nell’economia produttiva. Finché questa bolla non esplode nel 2007 negli USA con la crisi dei “titoli tossici” e la crisi deflagra in tutti i Paesi del mondo investendo l’Europa.
2. La gestione capitalistica della crisi
Disoccupazione di massa e licenziamenti, salari da fame, devastazione dei territori, militarizzazione e missioni di guerra… sono queste le direttrici lungo le quali i capitalisti cercano di uscire dalla crisi che li attanaglia, una crisi strutturale di sovrapproduzione di merci e di capitali che si avvita su se stessa da trent’anni.
Ma ben lungi dal risolvere la crisi, questi fattori stanno ridisegnando gli equilibri internazionali e interni dei singoli Paesi capitalistici in chiave regressiva senza poter dare più alcuna prospettiva di miglioramento delle proprie condizioni di vita alla stragrande maggioranza della popolazione.
Nei Paesi come l’Italia, il debito pubblico ed i vincoli della moneta unica vengono utilizzati come arma di ricatto sui lavoratori dipendenti e precari per imporre ulteriori restrizioni salariali, la cancellazione del welfare (il salario indiretto) e la svendita dei settori strategici. Nel nostro continente le politiche di austerity vengono imposte dalla Troika (UE-BCE-FMI), attraverso i trattati di Maastricht e di Lisbona, oltre che tramite misure come il Fiscal Compact, riducendo la sovranità popolare residua alla scelta di quale boia insaponi la corda per il collo del moderno proletariato.
Con il ricatto dello spread e dei rigidi vincoli della UE, si sta procedendo a un ulteriore gigantesco spostamento coatto di ricchezza dal lavoro al capitale per tamponare gli effetti della crisi sulla borghesia e il restringimento dei profitti. Quello di Monti prima e quello Letta-Alfano ora non sono governi meramente “tecnici” né provvisori, ma sono esecutivi apertamente “politici” a favore degli interessi del capitalismo monopolistico e finanziario nostrano ed internazionale. Stanno ponendo le basi costituenti di una nuova fase, dettando la linea programmatica (anticipata dalla lettera Draghi-Trichet dell’agosto 2011) per i governi futuri e di cui il PD è uno dei puntelli strutturali e non accidentali. A causa di queste politiche draconiane, tuttavia, la classe dominante nel nostro Paese si trova nel pieno di una crisi di consenso verso la sua funzione dirigente senza che questo produca tuttavia forme di rivolta sociale contro il capitalismo, anche per la marginalità e gli errori compiuti dai comunisti e dalla sinistra negli ultimi venti anni. Ci troviamo insomma anche noi nella situazione drammatica (e pericolosa) che Gramsci descriveva con le parole: “Il vecchio è morto e il nuovo non può nascere”.
La delegittimazione del sistema politico si rivolge così verso differenti forme di rifiuto populistico che si scagliano contro la degenerazione e la corruzione del sistema dominante, senza legarle alle questioni sociali che sono alla base delle sofferenze delle masse salariate che pagano i costi della crisi.
Le classi dominanti ridisegnano allora anche la geografia politica imponendo le ricette della BCE, attraverso governi di eccezione permanente (di “emergenza nazionale”, di “alternanza” o di “larghe intese”) che sembrano caratterizzare l’ingresso in questa sorta di Terza Repubblica.
3. L’analisi della composizione di classe
Per recuperare un rapporto organico con la nostra classe di riferimento, è indispensabile che il partito si doti di un’analisi del capitalismo contemporaneo, dei rapporti e della composizione attuale del blocco sociale di riferimento, di un’analisi di come oggi si articola la lotta di classe nei luoghi fisici e materiali del conflitto, in primis nelle fabbriche e nelle periferie metropolitane, ripristinando la pratica delle inchieste operaie
Nostro obiettivo dev’essere quello di riallacciare i legami con milioni di operai, lavoratori subordinati, precari e lavoratori immigrati che ogni giorno, consapevolmente o inconsapevolmente, mettono in discussione l’esistenza stessa del capitalismo.
Le varie forme di lotta, se lasciate sole e frammentate, non hanno vita facile e duratura, prive spesso di una direzione generale, di obiettivi precisi e di una identità autonoma, mentre le classi dominanti si sono dotate di tutti gli strumenti politici, organizzativi, giuridici e culturali per condurre una vera e propria lotta di classe dell’alto, con l’obiettivo di battere e dividere le lotte.
Da questo punto di vista, la vicenda FIAT di Pomigliano d’Arco è esemplare sia per l’attacco ai diritti dei lavoratori che per la resistenza da parte degli operai ai ricatti padronali. Con il piano Marchionne sono state introdotte nuove forme di sfruttamento e di vera e propria fascistizzazione dei rapporti di lavoro, che hanno fatto da apripista ad un attacco più generalizzato ai diritti dei lavoratori, al contratto nazionale, alla democrazia ed alla rappresentanza sindacale: un modello basato sul baratto tra diritti e occupazione che il capitalismo cerca di estendere a tutti i luoghi di lavoro.
Anche il precariato costituisce uno dei più potenti strumenti di frammentazione della classe, una condizione di perenne incertezza che ostacola la formazione di una coscienza e di una organizzazione collettiva, favorendo contrapposizioni tra non garantiti e garantiti, tra lavoratori nativi e immigrati.
Dagli anni 2000 la strada seguita dai governi è stata quella dell’abbassamento delle garanzie contro i licenziamenti, del superamento del principio di inderogabilità delle norme giuslavoristiche e dell’introduzione di massicce dosi di flessibilità rispetto al lavoro subordinato standard, ossia a tempo pieno e indeterminato. Il tutto, in risposta alle richieste di riduzione delle rigidità regolative del fattore-lavoro avanzate dalle imprese per ridurre costi retributivi e contributivi.
sociale e di classe nel nostro Paese. Per impedire divisioni e pericolose guerre tra poveri, che nella crisi soprattutto le destre cercano di alimentare, il nostro obiettivo urgente in questo contesto non può che essere una saldatura tra i lavoratori italiani e questa nuova massa di sfruttati.
Tutto questo ci permette di comprendere l’attuale fase storica, caratterizzata da una ristrutturazione neocorporativa del capitalismo che va ad incidere sulle forme di democrazia e di rappresentanza nei luoghi di lavoro, e sugli stessi strumenti di lotta dei lavoratori..
Il nostro compito, come Partito, non è semplicemente quello di avere una presenza nelle lotte, ma di contribuire alla ricomposizione di un ampio blocco sociale intorno alla classe lavoratrice, nelle sue varie e nuove articolazioni, dare un sbocco politico alle rivendicazioni sindacali, trasformando la lotta economica in lotta politica, far crescere una coscienza complessiva e di classe.
4. La necessità di un’alternativa di sistema.
La proprietà privata dei mezzi di produzione e l’appropriazione da parte di un pugno di monopoli della ricchezza prodotta da milioni di persone costituisce ormai un evidente ostacolo per la dignità e per il progresso umano. Noi pensiamo che questa crisi economica, sociale, ambientale e morale non si possa risolvere mantenendo le compatibilità con il sistema capitalistico e neppure semplicemente correggendo le politiche iper-liberiste di questi ultimi vent’anni, con semplici palliativi di sostegno al consumo, con nuove regole per contenere la competizione tra poli e interessi capitalistici concorrenti oppure riducendo i costi e la corruzione della politica.
Le ipotesi socialdemocratiche e neomoderate sono in crisi perché il capitale non ha oggi la possibilità di redistribuire il “surplus” che produce (per il disequilibrio tra capacità produttiva e possibilità di consumo, caratteristico del modello capitalista) ed è anzi in preda a una feroce guerra internazionale tra potenze e frazioni della borghesia per accaparrarsi fette dei profitti una a danno delle altre.
Tuttavia proprio la mancanza di una proposta di radicale alternativa, basata su una lettura di classe della crisi, alimenta nei settori sociali subalterni l’illusione che la soluzione risieda nelle ricette economiche e populiste fornite dai media borghesi.
L’unica via d’uscita a sinistra da questa crisi capitalistica è l’uscita dal capitalismo stesso e l’adozione di un nuovo modello sociale e di produzione.
Emerge sempre più l’inefficacia delle soluzioni neoliberiste e degli stessi modelli keynesiani o socialdemocratici. La lotta per la difesa del salario e per conquistare maggiori risorse da destinare ai bisogni sociali, sulla base di un preciso programma di fase, rappresenta oggi una necessità per resistere alla crisi e conquistare risultati concreti, ma occorre evidenziare che il tema riformista della redistribuzione della ricchezza non rappresenta in questo contesto una reale possibilità di fuoriuscita dalla crisi del capitalismo..
Tale impostazione, che ha caratterizzato il movimento dei lavoratori nella seconda metà del secolo scorso, veniva praticata, in un diverso contesto di crescente conflittualità e con rapporti di forza più favorevoli, da un forte movimento chiaramente anticapitalista, che poneva insieme alla espansione dello stato sociale la questione del potere. Se astratte da quella situazione, le stesse ipotesi riformiste finiscono per diventare temi puramente propagandistici (“la ripresa, l’uscita dal tunnel..”), senza alcuna possibilità di incidere sulle vere cause della crisi.. E’ anche possibile una piccola “ripresa”, ma senza un aumento dell’ occupazione e con un ulteriore attacco ai diritti sindacali e sociali.
Superare qualsiasi forma di subalternità rispetto al progetto “euro-capitalista” del PD, rompere con qualsiasi forma di internità o di ambiguità nei rapporti col centrosinistra, rappresentano condizioni essenziali per costruire quella alternativa di classe e di sistema, che non è più solo una giusta prospettiva ideale, ma che comincia già oggi ad essere una necessità pratica per continuare a vivere in maniera dignitosa.
5. Maggioritario, sovranità popolare ed istituzioni
Le istituzioni borghesi sono senza dubbio uno dei terreni della nostra lotta politica, ma bisogna essere consapevoli che ormai i parlamenti nazionali sono fortemente limitati nelle loro prerogative, mentre le scelte di fondo vengono decise in sedi extra-istituzionali e da pochissime famiglie monopoliste che muovono i fili del loro sistema imperialistico. Questo non vuol dire che i Parlamenti e gli stati nazionali siano oggi svuotati di responsabilità nell’imporre il dominio di classe del capitale finanziario. Anzi, oggi più che mai questi ne sono espressione diretta, seppur contraddittoria, per applicare i diktat di UE-BCE-FMI che cancellano salari, diritti e milioni di posti di lavoro. Proprio per questo motivo oggi la questione nazionale e quella internazionale sono strettamente legate, da un punto di vista di classe, a quella della cancellazione dei residui di sovranità popolare. E anche da questo discende la necessità di unire la difesa della democrazia residua alla lotta per una sua estensione con nuove forme di rappresentanza diretta e di classe, legando la lotta contro la corruzione delle classi governanti con quella per la giustizia sociale, il radicamento ed il lavoro politico di massa e nei movimenti.
Occorre una rinnovata analisi del capitalismo e dei nostri compiti di rivoluzionari nella crisi in una fase caratterizzata dal bipartitismo, dal maggioritario, dagli sbarramenti elettorali, dai governi di unità nazionale, da una crescente separatezza della politica ufficiale dalla vita quotidiana delle persone, dal continuo attacco alla Costituzione, insomma da una “democrazia autoritaria” tutta funzionale ai capitalisti ed al ceto politico, che, non a caso, limita la rappresentanza ai ceti subalterni ed al conflitto sociale.
Le istituzioni, e quindi le elezioni, riflettono i rapporti di forza nella società ed è a partire da questi che si misura il consenso. Troppe volte abbiamo dimenticato questo banale elemento di analisi marxista e abbiamo tentato l’autoconservazione a partire dalla presenza istituzionale. Dobbiamo invertire questa tendenza fallimentare e ripartire dal radicamento sociale e dall’internità ai conflitti, chiarendo una volta per tutte che il Parlamento è per noi un mezzo e non il fine. La presenza istituzionale, se correttamente utilizzata, può e deve rafforzare le lotte popolari e rappresenta una articolazione importante (ma non centrale) per far avanzare il nostro progetto politico. Battersi contro il sistema maggioritario e per il proporzionale è parte della lotta più generale per la democrazia, per il diritto alla rappresentanza del conflitto sociale e contro la separatezza della politica dalla vita quotidiana delle persone..
Per definire la rappresentanza è fondamentale il coinvolgimento dei territori, e dei luoghi della pratica politica, per segnare una concreta coerenza tra candidature ed esperienze di lotta, dimostrare una reale diversità dalla cosiddetta“casta”e rompere con la logica del “porcellum”.
6. Alternativi al centrosinistra
La situazione generale è tale da risolvere anche la tradizionale discussione sul problema delle alleanze politico-elettorali, che ha diviso la sinistra di opposizione e i comunisti, e che è stata spesso alla base di numerose scissioni.
Le motivazioni a sostegno delle alleanze col centrosinistra (in primis il fronte anti-Berlusconi) sono tutte venute meno man mano che il PD ha accentuato la sua complicità e organicità alle politiche neoliberiste, già negli anni passati. Il sostegno al Governo Monti ed alle sue politiche antipopolari insieme a Berlusconi (attacco all’art.18, controriforma del mercato del lavoro e delle pensioni, taglio della spesa sociale e patto di stabilità, politiche fiscali..), la manomissione della Costituzione per adeguarla ai diktat della BCE, fino ad arrivare all’attuale governo di larghe intese Letta–Alfano, che cerca di completare l’opera sotto la regìa presidenzialista di Napolitano, rappresentano un riposizionamento strategico del centrosinistra,
ncompatibile per chi intenda lavorare ad una alternativa di sistema. Non a caso, quasi tutte le esperienze di alleanza col centrosinistra stanno logorando, ormai da tempo, la nostra credibilità in ampi settori popolari e rappresentano uno dei fattori della nostra crisi politico-organizzativa.
Per uscire definitivamente dalla subalternità politica e dalle oscillazioni tatticistiche che ci hanno portato a continue sconfitte, occorre capire che l’attuale collocazione delle forze del centrosinistra, non solo ha antiche radici, ma non avviene affatto per caso: esse, nel pieno dell’aggravarsi della crisi capitalistica, riconoscono ormai una devota obbedienza ai “poteri forti” italiani, europei e internazionali, a cui rispondono e di cui fanno parte organicamente. È necessario che Rifondazione Comunista tragga da ciò le dovute conseguenze.
Ciò non significa affatto rassegnarsi o rinunciare ad agire sulle contraddizioni sempre più forti che si aprono tra le politiche del centrosinistra e le esigenze di larghe masse popolari e persino di parte della sua base di consenso. Infatti l’egemonia del centrosinistra e dello stesso PD sul suo elettorato è assai più fragile di quanto i recenti risultati elettorali potrebbero far credere (l’aumento dell’astensione, il fenomeno Grillo ma anche la clamorosa perdita di voti di PD e PdL in valori assoluti parlano molto chiaro). Inoltre, forze come SEL, che si sono posizionate strategicamente all’interno del centrosinistra, ottenendone in cambio visibilità e presenze istituzionali, andranno incontro a difficoltà crescenti e vedranno presto svelata la propria doppiezza.
II. La Rifondazione Comunista oggi
7. Imparare dalle sconfitte per ricostruire un ruolo utile dei comunisti
La sconfitta dei comunisti e della sinistra di alternativa nelle elezioni del 2013 rappresenta evidentemente un punto critico e di svolta che richiede ancora una volta una profonda autocritica e la mobilitazione di tutte le energie positive di cui disponiamo.
Anche se la linea di sostegno all’austerità ed ai sacrifici, è stata bocciata dalle urne, Rivoluzione Civile non ha saputo raccogliere i voti di quanti volevano esprimere un chiaro voto antisistema. L’assemblaggio di posizioni politiche fortemente eterogenee, unite solo dall’esigenza di entrare in Parlamento, l’improvvisazione della proposta elettorale e la caratterizzazione personalistica legata ad Antonio Ingroia hanno prodotto forti ambiguità su questioni centrali, come il rapporto col PD, ed una composizione delle liste, frutto per lo più di una spartizione tra i diversi soggetti promotori di Rivoluzione Civile, che non di reale rappresentanza delle esperienze più significative dell’opposizione sociale e politica.. .
Rifondazione Comunista ha pagato il maggior prezzo per questa sconfitta elettorale sia per essere stato il partito che più ha investito in questo progetto, sia per aver coltivato l’illusione di risolvere le proprie difficoltà politiche attraverso un’improbabile scorciatoia elettorale: una nuova cocente delusione per i militanti e gli attivisti, che ogni giorno si sono impegnati sul territorio con grandi sacrifici personali, e che rappresentano la ricchezza ed il patrimonio del partito. Più in generale Rivoluzione Civile non è stata percepita come abbastanza distinguibile dagli altri soggetti politici, sia sul terreno delle lotte sociali sia su quello della critica al ceto politico dominante.
Non è la prima volta che si rende necessaria la mobilitazione generosa e intelligente dei militanti comunisti: fu essa che ci permise di tenere aperta la prospettiva del comunismo critico nel lungo inverno degli anni ’80, che nei primi anni novanta reagì allo sciagurato scioglimento del PCI, rilanciando il processo della rifondazione comunista, che successivamente ci permise di resistere sempre alle ricorrenti scissioni, fino all’ultima di Vendola-SEL, scissioni sempre partite “dall’alto”, cioè da settori dei gruppi dirigenti istituzionali, quasi sempre sullo stesso tema: il rapporto con il centrosinistra e la questione del governo.. Anche in altre fasi della loro storia, i comunisti hanno conosciuto gravi sconfitte, ancora più drammatiche della nostra, nonché fasi di emarginazione e isolamento. Da queste però sono sempre riusciti a iemergere rilanciando la loro proposta e la presenza nella società italianai, come avvenuto con la Resistenza e la conquista della Costituzione dopo gli anni bui del fascismo, sulla strada indicata da Gramsci.
Ricostruire oggi un ruolo utile dei comunisti significa dotarsi di una rinnovata analisi del capitalismo e dei nostri compiti di rivoluzionari nella crisi. Non dobbiamo aver paura di andare alla radice dei nostri errori.
La batosta elettorale di Rivoluzione Civile, così come il fallimento della Federazione della Sinistra, prevedibili fin dall’inizio per i loro evidenti vizi di origine e per le profonde contraddizioni e debolezze di linea politica (vedi rapporti col centrosinistra), non sono il frutto di errori tattici e contingenti degli ultimi mesi, ma l’epilogo di una linea politica sbagliata, ondivaga e contraddittoria, che ha cancellato la svolta a sinistra decisa a Chianciano nel 2008 (“in basso a sinistra”), dopo la fallimentare esperienza del Governo Prodi e della Sinistra Arcobaleno.
La necessità di una svolta di linea e di gruppi dirigenti. Dopo il terremoto elettorale del 24-25 febbraio 2013, se davvero vogliamo salvare il patrimonio di esperienze e di militanza di Rifondazione Comunista, occorre voltare decisamente pagina in termini di linea politica e scegliere di conseguenza il gruppo dirigente che la deve sostenere. Non sono più accettabili atteggiamenti autoconsolatori, continuisti e di arroccamento che tendono a giustificare comunque le scelte fatte o capaci di fare “autocitica” solo a posteriori, senza rimuovere mai le ragioni profonde delle sconfitte.
Occorre marcare una netta discontinuità da un passato recente costellato di continui insuccessi, per ricostruire fiducia e credibilità nei confronti di tanti compagni/e oggi delusi e privi di riferimenti politici:.
Costruire uno schieramento anticapitalista ampio e plurale, un polo di opposizione politica e sociale, che, sulla base di una piattaforma e di pratiche sociali comuni, impegni i diversi soggetti, senza precostituite velleità da “partito unico”, in un processo di reale indipendenza ed alternatività al bipartitismo, alla logica delle larghe intese ed alla internità, ormai strutturale, del centrosinistra alle compatibilità del capitalismo. Non serve, in proposito, inventare un ennesimo soggetto politico finalizzato a superare lo sbarramento elettorale, né serve unire delle debolezze senza chiarezza politica per poi dividersi alla prima grossa questione che la scontro di classe ci pone.
La consistenza di questo polo e la sua capacità di connettersi ed organizzare il malessere sociale (oggi privo di riferimenti politici) dipendono soprattutto dalla nostra capacità di impegnare le nostre energie militanti nella società, promuovere conflitti, stabilire relazioni proficue con le lotte dei lavoratori, con le esperienze più avanzate del sindacalismo, con le realtà sociali ed i movimenti, unire nel lavoro politico radicalità, coerenza politica e consenso, fare tesoro dei fallimenti che abbiamo alle spalle, eliminare doppiezze, politicismi e settarismi.
In questo senso non deve mai più avvenire che i comunisti si debbano mimetizzare in generici contenitori o cartelli elettorali e si riducano ad una tendenza culturale invisibile all’interno di proposte altrui.
Siamo per la ricerca di alleanze più vaste nell’ambito di uno schieramento anticapitalista credibile e definito, ma i comunisti devono essere sempre visibili con una propria proposta politica e coi propri simboli, sia in caso di presentazione autonoma che all’interno di una coalizione.. Lo spazio in cui ci collochiamo è quindi fuori dall’opzione di fare la “sinistra del centrosinistra”, per costruire un alternativa di classe e di sistema. .
Per dare credibilità a questa scelta di fondo e non contraddire il nostro impegno nei conflitti sociali, poniamo di conseguenza all’ordine del giorno la necessità di rompere le alleanze politico-istituzionali col PD e col centrosinistra anche a livello locale, laddove siano incompatibili con la possibilità di praticare un programma di alternativa, anche alla luce dei vincoli posti dal Patto di Stabilità.(privatizzazioni, tagli alla spesa sociale..). Altrimenti non ha senso parlare di “autonomia ed alterità” rispetto al centrosinistra.
Solo con una forte ripresa delle lotte e con un lavoro di lunga lena – non con improbabili scorciatoie elettoralistiche – sarà possibile determinare cambiamenti importanti nel senso comune di larghi settori sociali, in questa fase confusi e disorientati.. Riteniamo che questo sial’unico ruolo utile e riconoscibile che i comunisti possano svolgere nell’attuale fase drammatica della crisi per risalire la china.
Parlare in modo generico di costruzione della sinistra di alternativa come contnua a fare dal 2008 il gruppo dirigente del partito non serve a niente e non ha evitato le continue sconfitte degli ultimi anni.
Proprio per il suo carattere “costituente”, l’opposizione al Governo Letta-Napolitano non può che caratterizzarsi per una forte azione di contrasto alla linea liberista di tutte le forze politiche che lo sostengono (PD-PDL-Montiani). Solo nell’ambito di questa chiara opposizione, ha senso ed efficacia lo sviluppo di un forte movimento per la difesa della democrazia e della sovranità popolare, contro le logiche del maggioritario e per fermare l’attacco alla Costituzione.
Definire un programma minimo di fase significa dotarsi di obiettivi che stanno fuori dalle compatibilità imposte dalla UE, ma che sono legati ai bisogni ed alle lotte sociali, definire quali alleanze sono necessarie per rilanciare un punto di vista di classe nella crisi del capitalismo, sviluppare il radicamento dei comunisti: la riduzione d’orario a parità di salario e la redistribuzione del lavoro, la nazionalizzazione/pubblicizzazione delle banche e delle imprese strategiche, di quelle che chiudono/delocalizzano, l’indicizzazione dei salari e delle pensioni, l’abolizione della controriforma Fornero su pensioni e mercato del lavoro, e di tutta la legislazione razzista contro gli immigrati (tra cui i CIE), la democrazia sui luoghi di lavoro, il ritorno ad una legge proporzionale integrale, la riconquista dell’art.18, il pieno riconoscimento dei diritti sociali e civili, la creazione di un fondo nazionale per il diritto alla casa, l’utilizzo del patrimonio sfitto contro gli sfratti e nuovi parametri per ridurre i canoni di affitto, la cancellazione del vincolo del pareggio di bilancio e del Patto di Stabilità, il ritiro immediato delle truppe, il taglio delle spese militari, una vera patrimoniale e lotta all’evasione fiscale, la cancellazione delle opere inutili e dannose (come ad esempio la TAV e gli inceneritori), il rilancio dell’istruzione e dei servizi pubblici , la ripubblicizzazione dei beni comuni e dei settori strategici privatizzati o in via di privatizzazione (energia, Poste, Ferrovie…), la creazione di nuovo lavoro stabile, la riconversione ambientale delle produzioni e dell’economia, la tutela del territorio.
Rifondare/ricostruire un partito comunista. Finché esisterà lo sfruttamento capitalistico esisterà anche la necessità di un partito comunista capace di radicarsi a livello di massa. Questa è la prospettiva che ogni compagno/a di buon senso ci chiede. Non possiamo attardarci ancora!
Non basta più parlare in modo generico della rifondazione comunista. Possiamo e dobbiamo salvare il patrimonio del PRC, mettere in sicurezza la sua autonomia politica ed organizzativa da ogni ipotesi liquidazionista. Ma questo sarà possibile solo rilanciando una forte iniziativa, un vero e proprio movimento per rifondare/ricostruire un partito comunista, degno di questo nome, quale indispensabile strumento politico-organizzativo, nel vivo dello scontro di classe, insieme ai movimenti anti-austerity e in alternativa a tutti i poli della governabilità nel nostro paese,. significa contribuire con un proprio autonomo ruolo alla riaggregazione di uno schieramento anticapitalista, quale terreno concreto nel quale i comunisti possono dimostrare un proprio ruolo utile e credibile. Significa porsi in netta alternativa a tutti i poli della governabilità capitalistica nel nostro Paese e non come la loro stampella sinistra..
Dobbiamo essere consapevoli che per questo difficile compito, oggi nessuna forza è autosufficiente: riteniamo necessario proporre unpercorso credibile di ricomposizione dei comunisti ovunque collocati, a partire dalla enorme diaspora di militanti, senza scioglimenti improvvisati e scorciatoie politiciste, ma avendo il coraggio di dialogare con tutte le componenti del movimento comunista che vanno nella stessa direzione, verificando nel comune lavoro e confronto politico, un percorso che ha bisogno per questo di organizzazione, di radicamento sociale e di concreta iniziativa nella realtà.
Unire i comunisti. Non servono fusioni a freddo o la mera unità di gruppi dirigenti, bisogna innanzitutto cominciare a unire le linee e le pratiche sociali prima dei contenitori.per risolvere in positivo i nodi di fondo, alla base di sconfitte e scissioni, come la rottura della subalternità al centrosinistra e delle compatibilità col capitale finanziario europeo, un indirizzo sindacale comune per tutti i comunisti/e, un investimento “nei” movimenti e non “sui” movimenti, una nuova democrazia operaia e comunista. ..
8. Un Partito nuovo: rifondare la coscienza di classe mentre rifondiamo il Partito
Un Partito parte integrante della classe, e non solo suo idealistico “organo”, è dunque quello che ci serve. Il Partito nuovo, che dobbiamo costruire, è assolutamente necessario affinché noi possiamo mettere mano al nostro vero compito storico che è rifondare la coscienza di classe, cioè, trasformare il lavoro dipendente e tutte le soggettività di classe espropriate del diritto all’autodeterminazione del proprio futuro, ora ridotte a essere solo merce fra le merci, in una classe sociale cosciente di sé e capace di egemonia sull’intera società.
L’attuale frammentazione della nostra classe, indotta intenzionalmente e con successo dal dominio capitalistico, può essere contrastata efficacemente e rovesciata solo da un Partito capace innanzitutto di capire i profondi cambiamenti che stanno attraversando il mondo del lavoro. Principale obbiettivo deve essere il radicamento, eventualmente elaborando opportune e inedite forme organizzative. A partire dalle condizioni di sfruttamento dei lavoratori, il Partito deve ricostruire una coscienza delle contraddizioni insite nel capitalismo, una coscienza di classe e da qui l’organizzazione politica autonoma del nuovo proletariato: un nuovo partito comunista.
Senza mai trascurare la classe operaia delle fabbriche o quella ancora concentrata nei trasporti, nei servizi, nel pubblico impiego, nel terziario, nella scuola, nell’università e nella ricerca, si tratta però adesso di riconnettere questi spezzoni di classe a una nuova presenza diffusa e organizzata dei comunisti nei luoghi del lavoro precario e precarizzato, nel lavoro part-time e a (false) partite IVA, nelle catene infinite del sub-appalto e delle “esternalizzazioni”, nelle cooperative più o meno vere e “sociali”, nella crescente presenza dei migranti, insomma nelle mille forme con cui si concretizza oggi l’antico e reazionario sogno padronale di serializzare, parcellizzare e isolare da se stesso il lavoro dipendente, per dominarlo.
Inoltre nella crisi stanno aumentando gli italiani migranti di età inferiore ai 40 anni, verso altri Paesi europei, alla ricerca spesso di un mero salario di sussistenza dopo anni di precarietà e di disoccupazione vissuti in Italia e che necessitano di servizi di patronato e di tutela. In questo scenario si apre la possibilità per il nostro partito, anche in collaborazione con altre forze comuniste ed anticapitaliste, sia italiane che autoctone, di organizzare un lavoro di radicamento all’interno delle comunità italiane di emigranti, che si basi sull’autorganizzazione di reti di mutuo soccorso.
L’organizzazione del Partito deve poter aderire plasticamente alle nuove forme di organizzazione del lavoro, e a tal fine abbiamo bisogno di forme organizzative nuove e antiche al tempo stesso, cioè cellule o collettivi o nuclei comunisti in ogni luogo di lavoro e anche in ogni “ambiente” in cui vive la nostra classe. Ovunque ci sono comunisti, lì sorga una cellula!
9. L’ organizzazione di classe
Dal punto di vista organizzativo, concepire il Partito come intellettuale collettivo pone l’esigenza di formare militanti per essere in grado di svolgere un ruolo di direzione politica sui territori e nel vivo delle lotte.
In questo modo è possibile eliminare la notevole separazione, oggi esistente, tra analisi, elaborazione politica e pratiche sociali e di lotta nei territori.
Questa separazione favorisce una disaffezione della base nei confronti del Partito, una inaccettabile distanza tra vertici e base militante, la sensazione dell’inutilità dell’azione politica che, quando assume dimensioni che oltrepassano il corpo militante del Partito, si esprimono anche nelle varie forme di rifiuto della politica.
Una verifica dell’attuale struttura territoriale si rende ormai necessaria. Occorre promuovere una vera e propria autoriforma politica ed organizzativa.
A) I Circoli e le Sezioni territoriali, oltre a svolgere una funzione peculiare e preziosa di “Case del popolo” per favorire ogni forma di aggregazione popolare e di classe, dovranno fungere da luogo che annoda e coordina queste nuove, necessarie, istanze di base nelle quali rifondare una presenza comunista organizzata interna alla società capitalistica attuale. Una revisione razionale dei luoghi e delle forme del nostro insediamento organizzativo dunque si impone, assieme a una politica di “cura” attenta della vita dei nostri Circoli e del loro tesseramento (una cura che è totalmente, e colpevolmente, mancata i questi ultimi anni). L’aspetto fondamentale di cui tener conto è dunque la necessità di tenere uniti i momenti teorico e pratico della politica. Una teoria staccata dalla prassi rimane un pensiero vuoto e nel peggiore dei casi un dogma.
Per contro, una prassi separata dalla teoria può soltanto agire nell’immediato in modo vertenziale e al massimo può strappare alla classe dominante qualche legittima rivendicazione, ma resta incapace di pensare l’abolizione dello stato di cose presenti. Occorre valorizzare gli attuali insediamenti dei comunisti, aprire nuove sedi, coinvolgere la vastissima diaspora dei senza tessera, per costringere tutti noi a uscire finalmente dalle stanze e far vivere il nuovo Partito “fuori di sé”.
B) Il metodo dell’inchiesta e le pratiche di radicamento. Una costante attività di inchiesta a partire dai territori e nel vivo delle lotte si rende necessaria per capire quale sia la composizione di classe, la struttura della produzione, il grado di integrazione sociale delle comunità migranti,…A seconda dei casi e dei livelli di analisi e di elaborazione necessari, le inchieste possono essere svolte su territori e livelli più o meno ampi (cittadino, territoriale, regionale). Ciò non toglie la necessità di una sintesi di analisi e di coordinamento a livello regionale.
Le occasioni di inchiesta possono tra l’altro trovarsi nelle pratiche sociali. Le compagne ed i compagni a livello territoriale devono mobilitarsi per sviluppare iniziative in tal senso, che siano ad un tempo utili alla quotidianità e reciprocamente formative: casse di resistenza operaia, gruppo di acquisto solidale, attività di solidarietà attiva, ecc. possono essere tutte attività che, se praticate con un buon grado di maturità politica, possono contribuire alla crescita di una coscienza politica ampia ed alla crescita del nostro Partito.
C) L’autofinanziamento. Il PRC era abituato a vivere per larga parte con i contributi economici versati dai propri parlamentari, con i rimborsi elettorali ed i contributi statali all’editoria. Una volta ridotte all’osso queste entrate, il Partito ha conosciuto un progressivo e netto arretramento sul piano finanziario che ha inevitabilmente compromesso l’attività politica ordinaria (l’esempio più esplicativo è stata la sofferta decisione di chiudere Liberazione nel suo formato cartaceo), portandoci verso un indebitamento piuttosto significativo. A tal proposito è di vitale importanza dare dimensione organizzata all’autofinanziamento: occorre creare un circuito centralizzato delle feste di Liberazione e utilizzare diversamente i circoli territoriali anche a scopo economico. Ovviamente le presenze istituzionali rimaste, soprattutto quelle che percepiscono indennità considerevoli, devono essere seriamente vincolate a versare ai relativi livelli del Partito le cifre previste dallo statuto.
D) Comunicazione, informazione, propaganda. Dopo la drastica riduzione della nostra presenza mediatica, dobbiamo imparare a sopravvivere politicamente pur in mancanza di tali strumenti informativi (anche in relazione alla chiusura di Liberazione in formato cartaceo, la cui riapertura deve comunque restare un obiettivo irremovibile). Occorre dotarci di un autonomo sistema di informazione e di comunicazione, e per questo lo sforzo di “Liberazione” non può continuare ad essere ignorato dal Partito.
Utilizzare la rete a fini propagandistici è giusto, ma la comunicazione politica in rete deve essere gestita in modo corretto esattamente come quella fatta su qualsiasi altro supporto. Si rende necessaria la costituzione di una struttura di connessione a livello nazionale che riproduca in chiave digitale l’organizzazione interna del partito, in modo che le comunicazioni interne siano recepite in tempo reale, il partito sia costantemente informato della propria attività e si muova uniformemente.
In relazione ai diversi strumenti e livelli di comunicazione, occorre usare forme di linguaggio ed approcci diversi.. La comunicazione è elemento di mediazione con le persone in carne ed ossa ed è importante farci capire.. Compito dei comunisti è quello di ricostruire un punto di vista di classe, individuando gli strumenti comunicativi più adeguati. Uno di questi rimane sicuramente il volantino, che, se rivisto nella sua funzione e nella grafica, è in grado di comunicare, in modo sistematico e non emergenziale, utilizzando un linguaggio immediatamente comprensibile e vicino al sentire delle persone alle quali ci rivolgiamo.
10. Il Partito e la questione del potere
Il problema dei marxisti in Italia non è solo organizzativo, ma essenzialmente di impostazione teorica. Gli ideali rivoluzionari alla base della Rivoluzione d’Ottobre non sono oggi assunti come riferimento dalle classi subalterne, principalmente, perché i comunisti non sono stati in grado di dare continuità e di compiere il processo della rifondazione di un partito ispirato alla teoria di Marx, Lenin e Gramsci.
Ciò lo si può osservare dalla mancata capacità di elaborazione di una cultura politica rinnovata del marxismo, che genera frazionismi, correnti, pratiche di suddivisione lobbistica dei gruppi dirigenti ed istituzionali, scissioni. Non avendo elaborato concretamente un bilancio dell’esperienza del movimento operaio novecentesco ed avendo praticato, da Chianciano ad oggi, un parlamentarismo senza stare nel Parlamento, non ci siamo resi conto dei nostri limiti.
Alle fondamenta di Rifondazione un tema rimane eluso, quello della presa del potere da parte del proletariato. I nostri discorsi abbondano di riferimenti al “superamento del capitalismo”, ma non ci poniamo mai il compito concreto di come attuarlo e costruirlo in termini di coscienza rivoluzionaria nella classe operaia e tra milioni di uomini e donne. Siamo troppo disponibili verso tesi riformistiche, come quelle della “redistribuzione della ricchezza” o teorie ambigue di marca borghese, come quelle sulla decrescita elaborate da Serge Latouche. Il vero tema che i comunisti devono porsi è di dare lettura di classe del capitalismo e preparare le condizioni per il suo superamento in senso rivoluzionario. Bisogna ridare all’elaborazione teorica marxista nuova dignità a cominciare dai moderni rapporti di produzione e sbarazzarci dei limiti che hanno caratterizzato sin qui la nostra impostazione. I più gravi sono l’aver sposato una “cultura del momento” ed un populismo di sinistra che ci portano costantemente ad inseguire vertenze, leader e movimenti, senza essere capaci di esprimere una reale egemonia fra le masse. Siamo stati ossessionati dall’estetica del conflitto (perpetrata, ad esempio, a mezzo di estenuanti comunicati stampa e campagne referendarie) piuttosto che dalla necessità della sua costruzione consapevole e conseguente fra le classi subalterne nelle fabbriche, nei quartieri popolari, nei territori e tra le nuove generazioni.
Negli ultimi anni il nostro Partito è stato nelle lotte più che altro con toni solidaristici o rivendicativi che di prospettiva; più sindacali che politici. Senza un approccio politico si rischia di correre appresso allo scadenzismo dei movimenti e di restarne alla coda, assumendo sempre più spesso un’impostazione che tende alla rimozione del nostro patrimonio culturale. Così i contributi di Marx, Lenin e Gramsci e l’esperienza storica dei comunisti vengono rimossi invece di essere tradotti ed elaborati per l’attualità dello scontro di classe oggi. L’abbandono del patrimonio della teoria rivoluzionaria marxista rischia di relegarci alla subalternità all’ideologia dominante, che fa della rimozione del nostro patrimonio culturale e della memoria storica, dell’imposizione di un eterno presente, un suo tratto fondamentale.
11. La democrazia comunista, pre-condizione necessaria
Il tema della democrazia non è un problema come tutti gli altri ma è la pre-condizione necessaria per poter affrontare la questione della ricostruzione del Partito e della formazione di un nuovo gruppo dirigente: la democrazia comunista è infatti il nome che prende la questione del rapporto contraddittorio che esiste fra classe e partito e fra la base militante ed i gruppi dirigenti, a tutti i livelli di responsabilità.
Un partito verticale e verticistico, retto di fatto da anni da una immobile alleanza fra piccoli ceti burocratici e istituzionali che si difendono a vicenda “lottizzando” gli incarichi col “manuale Cencelli”, un partito che non verifica mai le effettive capacità di lavoro e i risultati ottenuti (sostituendo tale criterio comunista con le appartenenze correntizie o la “fedeltà” ai gruppi dirigenti), un Partito che non discute mai e che vota (spesso sotto ricatto) solo in occasione dei Congressi, è anzitutto un Partito del tutto incapace di capire la società, di vivere dentro il conflitto di classe e di conseguenza incapace di rinnovarsi e radicarsi nel tessuto sociale.
La tutela del pluralismo interno e della dialettica ad ogni livello, che rappresenta un basilare diritto democratico ed un elemento di contrasto alle logiche del maggioritario, non ha niente da spartire con la degenerazione correntizia di aree politiche chiuse e cristalizzate in competizione tra di loro, avvenuta in questi anni per il controllo del Partito, che ha prodotto logiche spartitorie nella nomina dei dirigenti, basate sulla fedeltà alla “corrente”, a discapito delle capacità politiche e della puntuale verifica del lavoro svolto.
Occorre impegnarsi per il ripristino di una reale dialettica che non mortifichi la chiarezza delle posizioni politiche, ma senza sacrificare la rappresentatività dei compagni a partire dal lavoro di base nella società. Tutti i maggiori partiti comunisti della storia, in Russia come in Italia, erano costituiti addirittura da diverse frazioni che però funzionavano da centri di elaborazione del dibattito che poi era svolto e sintetizzato nelle istanze centrali, con mandati revocabili e verifiche costanti tra i militanti. Le attuali degenerazioni correntizie però non sono nulla di tutto questo, sono altra cosa da un confronto plurale sulle opzioni strategiche tra aree programmatiche, impegnate a ricercare sintesi e verifiche continue. Hanno assunto le caratteristiche di cordate funzionali solo ad autopromuovere un proprio mini-gruppo dirigente senza nessuna connessione con l’autocritica, la verifica del lavoro e delle capacità nella realtà, ma basate unicamente sulla logica della cooptazione. Per questi motivi la nostra lotta contro le degenerazioni correntizie è da intendersi unicamente per promuovere una rinnovata democrazia comunista, una coerenza di fondo tra organizzazione, stile di lavoro e finalità della nostra azione politica:
a) verifica periodica del lavoro svolto dai dirigenti da parte dell’organo che li ha eletti (vincolo di mandato);
b) ragionevole rotazione degli incarichi, limite ai mandati (specie istituzionali) ed al cumulo degli incarichi;
c) creazione a tutti i livelli delle condizioni di una effettiva partecipazione delle compagne per rimettere in discussione il carattere maschile e patriarcale, presente anche nella organizzazione del Partito;
d) pubblicità di tutti gli atti politici del Partito, per quanto possibile, e libero accesso di tutti i compagni/e ai luoghi di discussione politica e ai media di cui dispone il Partito;
e) formazione politica continua e ricorrente in ogni momento della vita di ciascun/a militante, soprattutto tra i giovani ed i neo-iscritti, per la promozione di una nuova leva di quadri comunisti;
f) autofinanziamento del partito sempre più legato al lavoro di massa e sempre meno alle presenze istituzionali.
12. Sindacalismo di classe e questione operaia
Questo Congresso deve affrontare la questione, più volte sollecitata, ma mai risolta, del rapporto tra partito e movimento sindacale.
Il nostro Partito non ha un sindacato di riferimento, come hanno altre forze comuniste europee, anche perché, in Italia, manca un sindacato che sia, al tempo stesso, di classe e di massa.
La CGIL rimane il più grande sindacato italiano, punto di riferimento di milioni di lavoratori, tra cui molti militanti comunisti. Tuttavia, le politiche concertative portate avanti dal sindacato confederale negli ultimi vent’anni (che hanno permesso l’erosione di diritti e salari dei lavoratori), la subalternità al quadro politico delle larghe intese, la rinnovata unità d’intesa con CISL e UIL, la normalizzazione interna, hanno reso la CGIL incapace di rispondere alle istanze dei lavoratori e, soprattutto, di svolgere un ruolo conflittuale e di classe. L’Italia, nel quadro europeo, costituisce un’anomalia, in quanto, proprio nel momento in cui la crisi morde di più e le politiche di austerity scaricano sui lavoratori il peso dei tagli alla spesa pubblica e allo stato sociale, non si è prodotto un aumento del livello di conflitto sociale e non sono stati proclamati scioperi generali capace di incidere nei rapporti di forza col padronato. Da questo punto di vista, l’assunto secondo cui “aumenta la crisi, aumenta la lotta”, che il nostro gruppo dirigente ha sostenuto per molto tempo, si è rivelato errato, poiché frutto di una lettura deterministica della realtà. Di fatto, non esiste alcun principio di automatismo fra la crisi capitalistica e l’aumento della coscienza di classe.
Bisogna prendere atto che la CGIL ha forti responsabilità e che, spesso, è stata un freno allo sviluppo di un movimento di massa dei lavoratori che, al contrario, rischiano di chiudersi nei confini della propria vertenza. Tuttavia in CGIL è importante tenere aperta la contraddizione con una opposizione netta e riconoscibile, che faccia tesoro delle esperienze e degli insuccessi della sinistra sindacale storicamente presente nella confederazione.
La FIOM, all’interno della CGIL, ha condotto, in questi anni, un’importante battaglia di resistenza agli attacchi del padronato italiano ed ha rappresentato un punto di riferimento non soltanto per gli operai metalmeccanici, ma per tutti i lavoratori che, di fronte alla crisi della sinistra, hanno cercato in essa, non soltanto una sponda sindacale, ma anche politica. Tuttavia, la non completa indipendenza politica dalla “sinistra del centrosinistra” e gli attacchi padronali subìti dalla FIOM, volti alla sua’estromissione dalle fabbriche,, stanno spingendo la FIOM verso un riposizionamento interno alla CGIL.
Occorre sostenere l’importante battaglia in difesa della Costituzione e del diritto al lavoro che la FIOM sta conducendo, anche sul piano legale, contro il comportamento discriminatorio ed antisindacale della FIAT, poiché riporta la Costituzione in fabbrica e riapre la questione della rappresentanza e dell’agibilità sindacale. Ma questo non è sufficiente:. la lotta non può essere condotta solo sul piano legale, ma necessita di uno sbocco politico.
I sindacati di base, a cui numerosi militanti del nostro Partito fanno riferimento, rappresentano un’esperienza importante di opposizione conflittuale alle politiche di austerity. Essi, soprattutto in alcuni settori dove raccolgono un ampio consenso, come i trasporti o il pubblico impiego, hanno saputo aggregare i lavoratori intorno a rivendicazioni radicali ed hanno avuto il merito di proclamare lo sciopero generale sia contro il governo Monti che contro il governo Letta. Tuttavia, un limite che il sindacalismo di base deve superare è un certo minoritarismo che rischia di renderlo autoreferenziale e di frenarne le spinte propulsive, la tendenza ad atomizzarsi, favorendo in tal modo ulteriore frammentazione del tessuto di classe che rappresentano.
Bisogna chiarire il rapporto che deve sussistere tra Partito e sindacato. Se quest’ultimo non può e non deve diventare un surrogato del partito, viceversa quest’ultimo non può ridursi al terreno rivendicativo e vertenziale, o delegare la questione lavoro al sindacato, ma ha il compito di svolgere un ruolo politico nelle lotte. Per svolgere questo ruolo, occorre che il partito definisca una propria linea di intervento sindacale, indispensabile alla costruzione di un radicamento nei luoghi di lavoro. La debolezza o inesistenza di una strategia sindacale del Partito la si è vista chiaramente all’ultimo congresso della CGIL. Infatti, non è emersa una linea unitaria in merito alla posizione da assumere nel dibattito congressuale e, in virtù di una tenuta degli equilibri interni e della necessità di tutelare postazioni dirigenziali, si è scelto di non scegliere, in un congresso decisivo in cui la FIOM apriva una contraddizione (che ora pare chiusa) in seno all’organizzazione. Così come il Partito non ha preso una posizione chiara in merito all’accordo del 31 maggio sull’esigibilità dei contratti – su cui esprimiamo un netto dissenso – che segna un arretramento sulle posizioni del 28 giugno 2011 ed inibisce gli strumenti di lotta dei lavoratori.
Occorre superare l’ingessamento costituito dalle burocrazie sindacali e rilanciare la democrazia in fabbrica e nei luoghi di lavoro. Se vogliamo ricomporre la classe lavoratrice, il partito deve rilanciare il tema della democrazia nei luoghi di lavoro, stimolando la discussione su nuove forme di rappresentanza che debbano tenere conto della nuova composizione e organizzazione del lavoro, dei nuovi assetti produttivi.
Per noi la parola d’ordine della “democrazia nei luoghi di lavoro” ha anche il significato forte di intervenire sui modi della produzione, sottraendo al padrone spazi di potere e di sfruttamento..
Sulla base dei contenuti e delle esperienze e più avanzate espresse dal mondo del lavoro salariato e del non lavoro, ivi comprese le mille forme della precarietà, bisogna lavorare alla rifondazione di un sindacalismo di classe, alla ricomposizione di un indirizzo sindacale di classe per i comunisti/e che sia trasversale alle attuali appartenenze organizzative nelle sue componenti conflittuali (Fiom, Rete28aprile-sinistra Cgil, sindacati di base, movimenti, realtà autoconvocate di lavoratori e lavoratrici.). Non una nuova cinghia di trasmissione, ma la capacità di esprimere un orientamento comune sulla questione sindacale, che rappresenta un aspetto importante del conflitto capitale-lavoro, superando la incapacità storica del Partito di essere all’altezza di questo compito per averlo di fatto delegato ai gruppi dirigenti sindacali (per lo più CGIL) che facevano riferimento al PRC.
L’unità delle lotte contrapposta all’unità delle burocrazie e per contendere la rappresentanza dei lavoratori dipendenti e precari al sindacalismo neocorporativo di CISL e UIL ed alla linea di cedimento dei vertici CGIL.
Ciò significa che il nostro principale lavoro deve essere quello di riproporre moderne forme consiliari e di democrazia diretta come espressione vera dei lavoratori (e non strutture controllate dalle centrali sindacali). Non dobbiamo abbandonare il progetto ambizioso di lavorare alla ricostruzione di pratiche vertenziali comuni, di un movimento sindacale unitario e di classe, e tutti i comunisti, ovunque organizzati, devono coordinarsi per avanzare nella realizzazione di questo progetto per superare la frammentazione attraverso orientamenti, obiettivi e pratiche sindacali comuni, svincolate dalla competizione tra diverse sigle.
Più in generale sui temi del lavoro e sulle iniziative lanciate in merito dal Partito, è necessario preparare e convocare almeno ogni anno unaConferenza nazionale dei lavoratori e delle lavoratrici comunisti.
13. Il radicamento sociale
Rifondare e ricostruire un Partito Comunista significa fare i conti con il radicamento nelle classi lavoratrici anche fuori dai contesti della produzione. Si impone una rinnovata iniziativa di presenza sociale con prospettive di massa.
Per troppo tempo abbiamo delegato a forme mediatiche e “sentimentali” la ricerca di consenso, affidandoci al carisma dei capi. Questo meccanismo debole e labile si è rivelato non solo insufficiente, ma persino dannoso: le scelte sbagliate prima e l’autoconservazione poi, hanno screditato in un colpo solo tanto i capi quanto l’intero Partito.
Eppure in Italia sussistono forme organizzative eredi della tradizione novecentesca, nelle quali Rifondazione in un primo momento poteva vantare un certo prestigio. Sono le associazioni di massa come l’Arci, l’Anpi, Italia-Cuba, le Case del popolo, i Circoli culturali, ecc… che sono state via via egemonizzate dal PD e catturate dall’alveo del centrosinistra.
La partita tuttavia non è persa! In primo luogo perché queste associazioni stesse vivono una grave crisi numerica e identitaria, nella quale i comunisti, se adeguatamente organizzati e consapevoli, possono mutare gli equilibri e ridefinire contorni e paradigmi. In secondo luogo perché l’adesione nei fatti acritica al programma del centrosinistra ha sostanzialmente scollegato queste organizzazioni di massa dagli interessi delle classi lavoratrici:, da associazioni del movimento operaio esse sono diventate cinghie di trasmissione della piccola borghesia progressista.
Il Partito della Rifondazione Comunista può e deve stimolare l’organizzazione operaia, dirigerne gli sviluppi culturali e darle una linea politica, e questo con l’obiettivo di allargare sempre più il fronte di consenso all’idea comunista e di preparare le classi popolari all’organizzazione del potere (e non solo per la ricerca del consenso elettorale!).
Le pratiche di mutualismo sociale (Brigate di Solidarietà Attiva, Gruppi di Acquisto Popolare, Arancia Metalmeccanica, Biblioteche popolari, ecc) sono esperienze importanti, se di sostegno al conflitto e strettamente collegate alla più generale iniziativa politica. Diversamente rischiano di configurarsi non come supporto ma come superamento dell’organizzazione comunista e di scadere in un generico volontarismo
Per questo occorre farne un primo bilancio. Le pratiche sociali possono e devono contribuire alla costruzione di movimenti anticapitalisti e forme di autoorganizzazione, all’interno dei quali i comunisti possono recuperare il contatto con ampi settori popolari, con il duplice obiettivo di fornire strumenti di resistenza immediata e di orientamento più generale. Pertanto l ‘iniziativa sociale non può essere lasciata alla spontaneità dei singoli compagni, ma va pianificata e coordinata a tutti i livelli, dandogli continuità e senso politico..
Rifondazione Comunista dovrà a breve dotarsi di un programma complessivo per il radicamento sociale, di ricomposizione della propria iniziativa sociale e di unità con le iniziative autorganizzate sviluppatesi in questi anni. Un Partito rinnovato in tutti i suoi aspetti dovrà saper fare i conti con l’infinita rete di esperienze culturali, mutualistiche, solidaristiche che, in questi anni, non solo non siamo stati in grado di egemonizzare efficacemente, ma nemmeno di unire e ricondurre verso obiettivi politici di ampio respiro. La ricostruzione delle “casematte” e la loro riconquista deve essere un binario sul quale si deve misurare tutto il Partito e sul quale si impernia la nostra capacità di attrarre forze alla nostra causa sul terreno della quotidianità e della concretezza.
Dobbiamo essere in grado di organizzare e promuovere protagonismo operaio in tutte le forme, stimolando partecipazione, socialità, collettività attorno e non lontano dal partito. Dobbiamo tornare ad essere partito di massa, che si nutre di un consenso biunivoco con le classi lavoratrici, autorevole e non autoreferenziale. Devono essere le alleanze sociali, e non quelle elettorali, la bussola della nostra iniziativa diffusa ed è per questo che dobbiamo saperle costruire con coerenza e sistematicità.
14. La formazione ed il partito come intellettuale collettivo
Per costruire e delineare un’alternativa di sistema, è essenziale ricominciare un lavoro di approfondimento teorico e culturale, di formazione politica dei quadri (per conoscere e saper fare), soprattutto dei giovani, e di rilancio della “battaglia delle idee” contro l’ideologia dominante per dare solide basi e strumenti analitici efficaci per interpretare e cambiare lo stato di cose presenti. Un terreno fondamentale il cui abbandono ha provocato anche nelle nostre fila crisi di militanza, impoverimento teorico-culturale, sfiducia nella possibilità della trasformazione sociale, svilimento del nostro patrimonio storico e, in ultima analisi, subalternità e minoritarismo, scarsa attenzione e conoscenza del grande patrimonio della teoria marxista e gramsciana.
La perdurante assenza di una rivista teorica comunista e la mancanza (forse ancora più grave) di una casa editrice organicamente vicina al partito, sono fatti che parlano da soli.
Occorre ripartire dallo studio delle categorie fondamentali del marxismo e del leninismo che, ancora oggi, costituiscono strumenti indispensabili per analizzare in maniera scientifica, ovvero critica, i processi reali. Lo studio della categorie classiche del marxismo è di fondamentale importanza per l’elaborazione di una nuova scienza materialista e dialettica della realtà.
Lungi da qualunque interpretazione o applicazione dogmatica del marxismo, la sua validità consiste proprio nel fatto che è in grado di fornire un metodo di analisi scientifica della società che va, però, sempre calato nel concreto di una specificità storica. È fondamentale che il Partito, nel suo complesso, ed i singoli compagni, abbiano un livello di analisi adeguato ai compiti che la fase ci pone, per evitare letture sbagliate o fuorvianti, e, soprattutto, per elaborare proposte efficaci e concrete, che ci permettano di recuperare un rapporto con la nostra classe di riferimento.
La formazione dev’essere lo strumento per dotare il Partito di un gruppo dirigente all’altezza della fase e della lotta di classe, abbandonando definitivamente i criteri di selezione adottati finora, basati sulla spartizione pattizia e sull’appartenenza a correnti o cordate.
Il Partito deve farsi, gramscianamente, “intellettuale collettivo”, fucina delle lotte e luogo di elaborazione teorica e di un’analisi di classe, indispensabile a guidarci nella prassi quotidiana. Si darebbe così una risposta alle istanze di maggiore coinvolgimento dal basso.
La fase che ci troviamo ad affrontare ci ripropone con forza l’attualità del conflitto capitale-lavoro ed i comunisti devono essere preparati, dal punto di vista politico, teorico ed organizzativo, alla lotta di classe.
Ora più che mai è necessario non solo stare nelle lotte, ma portarvi una proposta concreta e credibile, che torni a farci percepire come il soggetto di riferimento delle classi subalterne.
III. Conflitti e internità ai movimenti
15. Fuori dai diktat della Troika, contro l’Euro e per una strategia di uscita dal monetarismo euroliberista
Dalla firma del Trattato di Maastricht e soprattutto dall’entrata in vigore della moneta unica, si è andato articolando in maniera sempre più vigorosa un sistema economico e politico europeo fortemente gerarchico, in cui i Paesi dell’Europa centrale ed in particolare la Germania hanno sfruttato i vincoli monetari e fiscali imposti dagli assetti europei e, non a caso compatibili con il proprio sistema economico, per generare enormi surplus commerciali a discapito dei Paesi dell’Europa meridionale, che hanno acquisito nel frattempo enormi deficit commerciali, concorrendo ad aumentare con ciò la loro situazione debitoria generale. Ciò che dunque le istituzioni europee e i mercati stigmatizzano (con riguardo ai cosiddetti PIIGS) altro non è che l’effetto degli assetti stessi dell’Unione Europea, a causa dei quali i conflitti nella sfera capitalistica e le minacce di attacchi speculativi in sede finanziaria si scaricano drammaticamente sulle fasce sociali più deboli per mezzo di un aggressivo smantellamento del welfare e dei diritti economici e del lavoro.
Il contesto attuale rende ormai più che palese che parlare ad oggi di “Europa dei popoli” non fa alcuna chiarezza e semmai offusca il vero ruolo dell’Unione Europea. Nella coscienza di un assetto profondamente sbilanciato (di fatto a favore del capitale tedesco) che tale istituzione ha acquisito, il nostro scopo deve essere quello di mettere a profonda critica le logiche stesse su cui questa Europa si mantiene. Dobbiamo tornare a parlare con chiarezza di possibili alternative alla moneta unica, che facciano tornare in capo agli Stati ed alla sovranità popolare le scelte di politica economica ma anche monetaria e fiscale. Fin dalle loro origini (Trattato di Roma del 1957), le istituzioni europee hanno sempre seguito una modalità decisionale ademocratica guidata dalle élites politiche, del tutto scollegate dalle decisioni di sovranità popolare: l’accentramento dei poteri in seno a Commissione e Consiglio Europei ha espanso gli spazi per le classi dominanti nel determinare, attraverso gli strumenti politici, la predominanza dei loro interessi.
Parafrasando Marx, l’Unione Europea è ad oggi un vero e proprio vero comitato d’affari della borghesia.
È per questo che ai comunisti non deve né può interessare solo il mero discorso di un’integrazione culturale europea, ma il controllo sociale degli strumenti di potere economico. Oggi appare evidente che tale obiettivo passi attraverso un recupero della sovranità popolare, unica strada possibile per evitare la dittatura dei mercati e delle banche.
Di fronte a questo quadro, la mera “disobbedienza” ai trattati, magari sperando che qualche governo la tratti con le altre potenze capitalistiche, è un’alternativa debole e del tutto velleitaria.
A partire dunque da parole d’ordine come la decisa messa in discussione dell’Euro (che non può più essere un tabù se davvero pensiamo che non possa esistere sovranità popolare senza un’effettiva sovranità su moneta e economia), l’abolizione dei trattati di Maastricht e seguenti, la difesa del potere d’acquisto dei salari, dobbiamo lavorare per costruire un grande e unitario movimento di classe che travalichi i confini nazionali in un’ottica apertamente internazionalista, con particolare attenzione anche al Mediterraneo, impegnandoci a trovare sponde di dialogo anche al di fuori della Sinistra Europea, con i Partiti comunisti degli altri Paesi europei ed in particolare dell’Europa meridionale.
16. Solidarietà internazionale e antimperialismo
Dalla disgregazione del blocco comunista e la crisi di molti Paesi a regime socialista, abbiamo assistito ad un rinnovato impeto imperialista dei Paesi occidentali, di cui gli Stati Uniti hanno assunto in un primo tempo la guida indiscussa. Il processo di globalizzazione economica e finanziaria, iniziato nella seconda metà del ‘900, ha creato nuovi grandiosi spazi di espansione in Europa orientale come in Asia e in Africa, che ha colmato in brevissimo tempo. Ciò ha imposto un’accelerazione della competizione intercapitalista inedita nella storia dell’umanità, a danno delle classi lavoratrici di tutto il mondo.
L’apertura improvvisa di nuovi mercati ha naturalmente posto con forza la questione del controllo politico ed economico degli equilibri mondiali. Per conservare una superiorità in crisi, la NATO e i centri imperialisti occidentali hanno proceduto ad una escalation militare su larga scala, che ha coinvolto decine di Paesi e devastato nell’ordine la ex-Jugoslavia, la Somalia, l’Afghanistan, l’Iraq e la Libia, oltre ad altri Stati minori in tutti i continenti. I centri di potere del capitalismo occidentale stanno giocando la partita definitiva per un nuovo ordine mondiale dopo la dissoluzione della potenza sovietica. Contro questo progetto però si sono scontrati interessi geopolitici maturati in seguito allo sviluppo economico e tecnologico di Paesi un tempo periferici e colonizzati: è il caso dei BRICS, le grandi nazioni continentali di Brasile, India, Cina e Sudafrica, cui si aggiunge la Russia in uscita dalla regressione degli anni ’90.
È in particolare la potenza cinese ad aver seriamente messo in discussione l’egemonia nordamericana nel pacifico, in Asia e in Africa, e ad assumere, attraverso le enormi imprese nazionali, un ruolo sempre più strategico anche nei Paesi europei cosiddetti PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna). Cina e Russia, in particolare, hanno provato invano a bloccare l’intervento in Libia con una blanda azione diplomatica alle Nazioni Unite. Hanno poi deciso di usare più decisamente il potere di veto riuscendo finora ad ostacolare la nuova aggressione alla Siria, prodromo di un più ampio ventaglio di guerra in Medio Oriente auspicato da Usa, Francia, Regno Unito e Israele, oltre che da Turchia e dalle petro-monarchie della penisola araba, le quali hanno attivamente contribuito (fornendo ingenti risorse finanziarie) all’avanzata militare delle truppe “ribelli”.
Di segno più immediatamente identificabile è invece ciò che avviene in America Latina, dove ad una diversa politica delle relazioni internazionali corrisponde una profonda trasformazione in senso socialista delle società: la resistenza di Cuba e l’avanzata della rivoluzione bolivariana in Venezuela hanno strutturato l’alveo per l’emergere di governi socialisti anche in Equador e Bolivia e di movimenti e politiche volte all’emancipazione dal giogo statunitense in tutto il continente sudamericano. La creazione dell’ALBA e di organizzazioni per la cooperazione politica ed economica regionali indipendenti e autonome dal controllo del capitale occidentale ha segnato un ulteriore duro colpo alla supremazia di Washington.
Stiamo concretamente assistendo alla creazione di un equilibrio multipolare, contro il quale dobbiamo attenderci la reazione dei vecchi centri imperialisti e la resistenza delle potenze nascenti: la crisi del capitalismo occidentale può sempre sfociare in una nuova guerra mondiale.
In questo scenario internazionale, i comunisti devono rilanciare le categorie dell’internazionalismo e dell’antimperialismo, costruendo reti di solidarietà internazionale e dotandosi di un’adeguata consapevolezza geopolitica. La mancanza di un blocco esplicitamente comunista non ci deve indurre alla rassegnazione di una mera lotta testimoniale!
Dobbiamo lottare concretamente contro la propaganda mediatica occidentale e ricostruire relazioni e confronto con altre forze comuniste ed anticapitaliste nel mondo, con le associazioni progressiste di migranti, con le associazioni pacifiste e internazionaliste. Riprendere il filo della solidarietà alla resistenza palestinese, alla rivoluzione cubana, alle lotte popolari in America Latina, all’autodeterminazione dei popoli (sahrawi, curda, ecc…), approcciare con maggiore razionalità alle differenti e a volte contradditorie esperienze di socialismo a livello planetario, costruire reti di informazione e solidarietà con i processi di emancipazione.
In questa ottica, Rifondazione Comunista deve saper leggere la pericolosa situazione che si sta creando sullo scacchiere dell’oceano Pacifico sempre più militarizzato da USA e Giappone. Dobbiamo riconoscere la non sufficienza del progetto della Sinistra Europea che ha coinvolto negli anni solo la metà dei Partiti comunisti europei e che è stato talvolta fonte di rotture (e che ad esempio non ha saputo elaborare proposte per l’autodeterminazione del popolo basco o l’unità irlandese). Il PRC, nella lotta contro il polo imperialista europeo, deve saper interloquire con tutte le organizzazioni comuniste continentali, per costruire un movimento generale di solidarietà e cooperazione. Dobbiamo riconoscere l’impossibilità di un ruolo di garanzia per la pace dell’Unione Europea e dunque vigilare contro un’ulteriore militarizzazione della cosiddetta “fortezza Europa” che minaccia la sovranità nazionale e che è elemento costitutivo dei disequilibri di potere continentali. Dobbiamo ricostruire un movimento pacifista di classe, fondato sulla solidarietà internazionale del movimento dei lavoratori/tricii, che riconosca nella guerra imperialista un elemento costitutivo del capitalismo. La lotta contro la guerra è la lotta contro l’oppressione economica, declinata su un piano internazionale. In particolare il Partito della Rifondazione Comunista deve battersi per l’uscita dell’Italia dalla Nato, per lo smantellamento delle basi straniere su suolo italiano e per il mantenimento della pace nel Mediterraneo. L’Italia deve fermare le manovre militari nordamericane, francesi e inglesi che prendono il largo dai nostri porti sotto l’egida della Nato e deve ritirare ogni supporto a tutte le iniziative belliche e pseudo-umanitarie in corso.
Il PRC si batte per la ripubblicizzazione dell’industria bellica nazionale e per concreti progetti di riconversione, per estrometterla dal mercato internazionale degli armamenti indirizzato dai trattati Nato, e contro il ruolo imperialista del capitale italiano: dobbiamo pretendere il controllo popolare sulla industria bellica e la sua riconversione, la sospensione di pratiche di sfruttamento e di colonizzazione delle imprese italiane all’estero. Il movimento sviluppatosi contro le installazioni Muos in Sicilia, che segue di qualche anno quello contro la base militare di Vicenza e si accosta a quello storico contro le basi USA in Sardegna, offre l’occasione di riorganizzare e riaggregare il fronte pacifista su parole d’ordine generali che solo i comunisti possono elaborare: per questo il PRC se ne fa convintamente promotore in tutto il Paese.
Infine, il PRC rinnova il suo impegno all’interno dell’Incontro Internazionale dei Partiti Comunisti ed Operai e quello dei Giovani Comunisti nella Federazione Mondiale della Gioventù Democratica.
17. La questione meridionale oggi
Nel contesto della crisi già analizzata emerge con violenza inaudita il divario esistente tra le regioni centro-settentrionali e il meridione italiano. Più di 300.000 posti di lavoro distrutti e un tasso di disoccupazione al 17,2%, che diventa del 38,8% se si focalizza l’attenzione sul dato giovanile, rendono perfettamente l’idea di una situazione che mette a rischio non più la tenuta economica dell’area, ma quella sociale. La distruzione del tessuto produttivo del nostro Paese ha avuto una prima dimostrazione proprio nelle regioni del sud: la chiusura – la prima definitiva – dello stabilimento FIAT di Termini Imerese nel dicembre 2011, la progressiva smobilitazione degli impianti per la produzione di alluminio dell’ALCOA a Portovesme o ancora il drammatico ricatto che ha condotto a dover scegliere tra lavoro e salute con i sigilli imposti all’acciaieria ILVA di Taranto, solo per citarne alcuni, sono infatti, non soltanto il prodotto della mancanza dolosa di una politica industriale, ma il primo passo di un processo che, se sulla lunga durata interesserà l’intero territorio nazionale, nell’immediato genera una nuova povertà che costringe chi è rimasto senza lavoro a ripiegare, quando possibile, su soluzioni al limite dello sfruttamento, chi non l’ha ancora, nella migliore delle ipotesi, ad emigrare. A questo va aggiunto, da un lato un uso sconsiderato e clientelare della pubblica amministrazione attraverso cui una classe politica storicamente legata all’esperienza politica della Democrazia Cristiana (e successivamente a chi ne ha ereditato il bacino elettorale) ha saputo creare ammortizzatori sociali che mantenessero alto il consenso senza preoccuparsi delle conseguenze intervenute con il progressivo crollo degli standard qualitativi nel campo dell’istruzione, della sanità e più in generale della qualità della vita; dall’altro la trasformazione progressiva del meridione italiano nel terreno di uno sfruttamento privo di regole nel quale le contraddizioni vengono a galla con la drammaticità che solo i Paesi passati attraverso l’esperienza coloniale hanno conosciuto.
Una nuova questione meridionale investe, quindi, il nostro Paese e il Partito della Rifondazione Comunista deve avere la capacità di portarla al centro del dibattito politico con la consapevolezza che la possibilità di frequentare una scuola dignitosa, curarsi senza problemi e potersi realizzare nel lavoro non possono dipendere dalla parte del Paese in cui si nasce.
È in un contesto come questo, infatti, in cui l’assenza di occupazione è sintomo di una più generale assenza dello stato, che proliferano e affondano le loro radici ad una profondità sempre maggiore le organizzazioni che di volta in volta assumono i nomi di Cosa nostra, ‘Ndrangheta, Camorra o Sacra Corona Unita. Nomi a cui siamo abituati da anni di cronaca nera, dietro i quali si nascondono realtà che sorgono in aperto contrasto con lo stato proprio perché, scontrandosi sul terreno dalle stesse prerogative, riescono a garantire un controllo capillare del territorio. Non è un caso, ad esempio, che in determinate zone siano solo queste organizzazioni a poter garantire la fruizione del servizio idrico o la possibilità di ottenere un alloggio popolare o ancora l’eventualità di trovare un lavoro. A partire da queste considerazioni si impone, ancora una volta, per un’organizzazione comunista la parola d’ordine dell’antimafia sociale: un’antimafia che non si nutre di proclami televisivi, ma che, prima e dopo l’azione di contrasto fisico dei gruppi criminali, sia capace di mettere all’ordine del giorno la risoluzione dei problemi di cui le mafie si nutrono e da cui traggono consenso. Soltanto portando l’acqua in ogni casa, garantendo un alloggio a chi ne ha necessità e rispondendo alla fondamentale ed enorme domanda di lavoro, sarà possibile liberare il meridione italiano dal giogo mafioso. In questo senso il Partito della Rifondazione Comunista deve anche saper analizzare i nuovi metodi attraverso cui le organizzazioni mafiose sono in grado di mantenersi in vita e di espandersi. Un’attenzione altrettanto particolare meritano, infatti, le tecniche con cui esse hanno saputo valicare i confini storicamente e geograficamente noti attraverso i collegamenti con l’establishment finanziario settentrionale, penetrando nei nuovi luoghi di accumulazione del capitale italiani ed esteri: è questo il caso delle infiltrazioni mafiose su larga scala che riguardano i cantieri e i progetti della TAV e dell’Expo 2015. La lotta per una reale trasparenza del sistema degli appalti pubblici e per la sottrazione al privato di servizi primari per i cittadini sono, al pari della ricerca e dell’aggressione ai patrimoni fisici di queste organizzazioni, gli strumenti centrali di una lotta che altrimenti rischia di essere inutile.
18. La contraddizione di genere e l’emancipazione della donna
La prima oppressione di classe coincide con quella dell’uomo sulla donna Il sistema capitalistico è caratterizzato da rapporti di sfruttamento da parte di un popolo su un altro a livello internazionale, da una classe sull’altra all’interno dello stesso Paese e dall’uomo sulla donna nell’ambito della medesima classe. Così come i rapporti di produzione fanno pagare alle classi più deboli gli effetti della crisi economica, le relazioni fra i due sessi li riversano sulla donna, aggravando la sua condizione lavorativa e riportandola fra le mura domestiche. Da quando è iniziata la crisi ad oggi, la diminuzione di posti di lavoro qualificati occupati da donne, congiuntamente all’aumento delle posizioni non qualificate, ha comportato un complessivo e significativo deterioramento delle loro condizioni lavorative. In totale l’occupazione femminile nel 2012 è ferma al 47.1% e, in ambito industriale, durante la crisi è diminuita con una tasso doppio di quella maschile. La maggioranza delle donne occupa posizioni che richiedono un titolo di studio inferiore a quello posseduto e la differenza di paga fra i due sessi aumenta all’aumentare dell’età. Non si deve dimenticare che per tutti gli anni ‘90 e 2000, l’occupazione femminile a tempo pieno è rimasta pressoché stabile, mentre ha visto un forte incremento quella a tempo parziale.
Queste difficoltà nell’ambiente lavorativo sono conseguenza del ruolo femminile all’interno del suo ambito familiare, che la discredita agli occhi del datore di lavoro. La donna è spesso costretta, di fatto, ad avere due occupazioni: quella ufficiale e quella di cura della famiglia. In particolare, negli schemi imposti dalla società capitalista, è la donna che deve occuparsi quasi interamente delle questioni di assistenza familiare e di cura domestica: non è un caso che, nelle coppie con figli, quasi una donna su due sia ufficialmente disoccupata a fronte di una quasi piena occupazione maschile.
Inoltre, la stessa condizione biologica della donna comporta prevaricazioni e negazioni di diritti, con i frequenti casi di mobbing, ma anche con gli episodi di dimissioni in bianco: in questo modo si lede tanto il diritto al lavoro della donna quanto le tutela della gravidanza.
Un ruolo sociale della donna subalterno anche e soprattutto a causa del ruolo storico della cultura religiosa cattolica, di cui le gerarchie vaticane sono tutrici autorevoli e le cui responsabilità in questioni di repressione sessuale sono troppo spesso tangibili.
La più violenta conseguenza del ruolo sociale della donna e della sua “inferiorità fisica” è il fenomeno del femminicidio. Questo stesso termine è spesso al centro di discussioni teoriche da parte dei media borghesi che inculcano dubbi riguardo la sua legittimità. È pratica diffusa cercare di sostituirlo con termini come “delitto passionale”, più consoni a una rubrica di gossip e cronaca nera, ma che altro non sono che tentativi di negarne la valenza politica. Il Partito della Rifondazione Comunista, deve farsi promotore di una visione di classe del fenomeno. Considerata la condizione di emarginazione della donna nella nostra società, che si riflette anche nella impossibilità materiale e temporale di dedicarsi all’attività politica, il nostro Partito non deve dare risposte formali, tipiche dell’ideologia liberale e che risultano spesso inefficaci, come le quote rosa Occorre coinvolgere tutto il corpo militante per creare le condizioni di una effettiva partecipazione delle compagne e di una reale assunzione del loro punto di vista, a partire dai circoli, modificando le stesse modalità dell’attività politica..
Un partito comunista deve saper affrontare la questione di genere non come guerra fra sessi, ma in un’ottica di classe, come aspetto determinante della lotta contro il capitalismo e tutte le forme di sfruttamento.
Il proletariato non raggiungerà una effettiva liberazione, se non sarà contemporaneamente conquistata una completa libertà per le donne.
19. Per una nuova resistenza antifascista e antirazzista.
Il capitalismo ed il fascismo sono due facce della stessa medaglia. Lo insegna la storia del movimento operaio. Ogni giorno prolifera il terreno su cui si sviluppa la reazione squadrista, soprattutto nell’attuale fase di crisi economica, l’aumento della disoccupazione, della precarietà: e della marginalità sociale produce un humus di paura e insicurezza, favorisce la guerra tra poveri ed alimenta il razzismo xenofobo, su cui da sempre hanno agito le destre fasciste. Per questo antifascismo ed antirazzismo sono strettamente collegati.
Le guerre che il capitale scatena nei Paesi poveri, in uno scenario internazionale animato dalla corsa alle materie prime, dai conflitti finanziari e dal riarmo bellico, aumentano i flussi migratori verso i Paesi capitalisti. Qui le classi dirigenti accrescono la propria opulenza, a discapito di un vertiginoso impoverimento dei lavoratori. Quindi, il tipo di società in cui viviamo è sempre più povera e multietnica. A fronte di questi processi mondiali, generati dal capitalismo, la risposta naturale che produce la destra conservatrice, in Italia e nel mondo, è sempre più marcatamente populista, xenofoba, identitaria.
Nel nostro Paese, ormai, le aggressioni fasciste sono all’ordine del giorno ed assumono progressivamente i tratti di un richiamo al nazismo. A volte, se ne ricorda la stampa, che cita solo i casi di tentato omicidio. Ma complessivamente, il fenomeno è ampiamente sottovalutato, soprattutto dai partiti politici e dalle organizzazioni che fanno richiamo ad un antifascismo istituzionale e di facciata. È significativo notare come formazioni fasciste, prima destinate a raccogliere consensi nostalgici e marginali, si siano evolute accentuando tratti antisemiti ed intolleranti verso gay, rom, propugnando l’islamofobia e l’immancabile “caccia al comunista”.
I fascisti proliferano sul terreno della lotta di classe che i capitalisti stanno conducendo contro i lavoratori e le conquiste del movimento operaio. Non a caso, l’obiettivo dei governi susseguitisi negli ultimi anni è di stralciare la Carta costituzionale, fondata sul lavoro e sull’antifascismo. Costituzione che, c’è da dire, è sempre stata attuata soltanto in parte.
Se capitola la Costituzione, l’intero assetto democratico-istituzionale della nostra Repubblica verrà liquidato, a favore di un disegno golpista ed autoritario delle classi dirigenti italiane, che, per dirla con Gramsci, stanno accentuando il proprio carattere sovversivo a favore di una democrazia che sia solo di diritto e non di fatto, portando a svuotare lo stesso concetto di democrazia dal suo senso più profondo. In questo processo, il Presidente della Repubblica ed il Partito Democratico hanno delle responsabilità storiche pesantissime e si rendono complici di un progetto reazionario, che dobbiamo fermamente condannare. Dobbiamo fare appello alla mobilitazione anche alla base sociale della sinistra moderata che è attraversata da profondi turbamenti e spaccature. Dobbiamo essere capaci di incarnare la spinta più profonda ed avanzata per i diritti dei lavoratori e la difesa della nostra democrazia, scaturita dalla Resistenza antifascista.
L’ascesa di “Alba dorata” in Grecia, con gli efferati episodi di sangue a danno di militanti antifascisti ed immigrati, o i processi reazionari in Ungheria, dimostrano la deriva delle classi dirigenti continentali, di cui non conosciamo la durata, ma che ha sicuramente un’estensione profonda. La crisi economica coinvolge ampi strati della società, soprattutto i proletari ed il ceto medio, che, a seconda dei Paesi, sono divenuti permeabili alla propaganda di ideali reazionari.
Pur nella conservazione della sua pratica militante, l’antifascismo non può essere relegato ad uno scontro tra bande rivali in strada. Bisogna dare costanza ad un lavoro di educazione politica ed ideologica e fornire gli strumenti adeguati alle classi lavoratrici ed ai giovani per difendersi anche sul terreno della agibilità contro ogni provocazione fascista.In questo bisogna far tesoro dell’esperienza storica del comunismo italiano ed anche della capacità organizzativa odierna di alcuni gruppi antagonisti che sono riusciti a rispondere sul terreno nelle università, nelle scuole, nelle strade al dilagare di aggressioni di stampo neofascista e neonazista.
Contro il fascismo bisogna lottare ininterrottamente tutto l’anno, radicando il nostro Partito ad una visione anticapitalista e rivoluzionaria tra le nuove generazioni e tra i lavoratori con un intenso lavoro politico, culturale ed organizzativo, coordinando le proprie forze sui territori, nelle sezioni dell’Anpi, nelle reti antifasciste autorganizzate, nel tentativo di costruire il più vasto schieramento sociale contro i rigurgiti reazionari.
Il nostro obiettivo dev’essere quello di costruire una mobilitazione continua contro il fascismo ed i pericoli che incombono sulla nostra Costituzione, denunciando con forza anche la collusione di apparati repressivi dello Stato con le organizzazioni eversive della destra, destando le classi lavoratrici dal torpore di questi decenni e spingendole all’impegno politico, per contrastare le derive reazionarie del capitalismo e riaffermare nell’antifascismo la coscienza politica del popolo italiano.
Il PRC e tutto il movimento antifascista si deve assumere l’impegno di portare avanti in tutte le istanze la campagna per lo scioglimento delle organizzazioni neo-fasciste e neo-naziste senza concessioni alla politica della cosiddetta “riconciliazione nazionale”.
20. I movimenti sociali: saperi, acqua, grandi opere
L’attacco su larga scala, che vede convergere gli interessi dei poteri forti (Confindustria in primis) e delle maggiori lobbies economiche del Paese, punta all’asservimento di ogni aspetto della vita sociale alle logiche del mercato e del profitto.
Dalla “riforma Gelmini” in poi, passando per i governi Monti e Letta (ma senza dimenticare le gravi responsabilità del centrosinistra), la scuola pubblica statale è stata oggetto di una continua e sistematica opera di smantellamento, che l’ha privata delle risorse materiali, intellettuali ed umane necessarie, e di un processo di “marchionnizzazione”, che vede nell’introduzione del dogma neoliberista della produttività, nel crescente autoritarismo e nell’attacco ai diritti sanciti dalla Costituzione, a partire dal diritto allo studio, dal diritto al lavoro ed alla libertà d’insegnamento, i suoi perni. Questo attacco colpisce tutti i soggetti che vivono il mondo della scuola: insegnanti, personale ATA, studenti, genitori.
In questi anni, le mobilitazioni del mondo della scuola sono state tante ed alcune hanno assunto forme conflittuali: la lotta dei lavoratori precari che rivendicano il diritto all’assunzione e ad un lavoro stabile e dignitoso; le manifestazioni studentesche per il diritto allo studio; la mobilitazione scuola per scuola contro i vari tentativi di aziendalizzare la scuola, come il boicottaggio delle prove Invalsi e lo sciopero degli scrutini; il referendum di Bologna contro i finanziamenti alle scuole private. Queste lotte, però, sono rimaste frammentate e, spesso, minate dal meccanismo della “guerra tra poveri”. Occorre ricomporre tutti questi segmenti nell’ottica di costruire un ampio fronte di lotta in grado di legare il tema della difesa della scuola pubblica con quello, più generale, della lotta al neoliberismo, e che sappia connettersi con gli altri movimenti e, soprattutto, con le lotte degli altri lavoratori. Rifondazione Comunista deve dotarsi di un piano complessivo di intervento nelle associazioni, nelle assemblee e nei sindacati studenteschi, dei precari, dei lavoratori, degli insegnanti e dei genitori, al fine di rendere efficace e duraturo il movimento per una scuola pubblica e di qualità.
Ugualmente, la mobilitazione generale contro la privatizzazione della gestione integrata del servizio idrico, non ha maturato una iniziativa più generale contro il liberismo.. La battaglia che i monopoli delle multiutility stanno conducendo da anni in Europa per la privatizzazione dei servizi deve infatti essere letta alla luce delle normative europe sulle liberalizzazioni e la concorrenza e, in Italia, del tentativo progressivo di privatizzazione e smantellamento dell’apparato statale centrale e periferico, in auge sin dalla fine degli anni ‘80.
Nel movimento per l’acqua pubblica, che contro il governo Berlusconi era riuscito ad ottenere una storica vittoria referendaria, non si è sviluppata appieno l’iniziativa dei comunisti e, più in generale, di una sinistra consapevolmente anticapitalista. Rifondazione, infatti, si è accodata senza mettere in campo alcuna proposta organica per radicare la battaglia per l’acqua pubblica tra i lavoratori e per trasformarla in una battaglia generale
contro le privatizzazioni.
Lo stesso fenomeno di codismo lo viviamo nei confronti dei tanti movimenti locali e nazionali contro le grandi opere inutili e dannose. Dalla Tav, al Ponte sullo Stretto, passando per autostrade, alta velocità e inceneritori in diverse parti d’Italia, il Partito non ha saputo strutturare una lettura di classe del fenomeno e dei potenti interessi che stanno dietro a queste opere. . Abbiamo legittimato un approccio unicamente ecologista ed ambientalista, che ha lasciato terreno scoperto a teorie per la decrescita e per lo sviluppo dai forti connotati regressivi (delle quali è portavoce, tra altri, il M5S). Occorre un piano nazionale per la mobilità e la logistica, una strategia rifiuti zero che metta al bando l’incenerimento dei rifiuti ed il proliferare delle discariche, che promuova uno riconversione ambientale delle produzioni e dell’economia. Per questo denunciamo il carattere antipopolare delle grandi opere, cantieri annosi in cui privati e malavita si spartiscono grosse quantità di capitale pubblico, e che nella progettazione stessa rispondono a criteri di spostamento delle merci su scala continentale, cioè agli interessi padronali, piuttosto che dare risposta a basilari diritti sociali come il diritto alla salute ed alla mobilità.
In generale Rifondazione Comunista deve adeguare la propria analisi dei movimenti sociali, scegliere di lavorarci all’interno per superarne i limiti particolaristici e, spesso, la composizione interclassista, ma deve anche dimostrare coerenza con le scelte istituzionali (non di rado siamo alleati con il PD che è controparte di questi movimenti!).
Il compito di lunga lena dei comunisti deve essere quello di conquistare sul campo un ruolo dirigente ed egemonico dei fronti di lotta, lavorando per un loro concreto collegamento e adoperandosi per una ricomposizione di classe.
21. Una nuova politica energetica e ambientale
La comunità scientifica internazionale è sempre più concorde sul fatto che i sempre più frequenti disastri ambientali siano dovuti al crescente saccheggio perpetrato dall’attuale sistema economico, per il quale la legge del profitto viene prima del rispetto della natura e dell’ambiente. Qualcuno sostiene che il grosso della popolazione abbia vissuto al di sopra delle proprie possibilità e che in una certa maniera sia indispensabile un ridimensionamento del proprio livello di consumi, attraverso la logica dei sacrifici e di un’austerity condivisa. Nel pensiero dominante vige inoltre l’idea che il problema ambientale si possa risolvere attraverso un cambiamento culturale di massa ed una legislazione più severa, cui debbano sottostare le aziende. Il caso dell’ILVA di Taranto mostra però come questa proposta sia utopistica e irrealizzabile e in tempi di crisi la questione ambientale, strettamente collegata con quella della salute, viene abbandonata a sé stessa con la giustificazione di dover difendere la produzione e il lavoro. Occorre invece rimettere al centro della questione il fatto che serve un intervento pubblico diretto nel settore energetico e industriale, in grado di razionalizzare e pianificare la produzione e la distribuzione dei beni e dei servizi, senza contrapporre salute, lavoro e ambiente, una riconversione finalizzata a migliorare la qualità della vita dei lavoratori e delle popolazioni. Per eliminare gli enormi sprechi materiali e delle risorse naturali, caratterizzanti l’anarchia del mercato capitalistico, bisogna quindi rimettere all’ordine del giorno la questione della nazionalizzazione dei principali centri industriali del Paese, rendendo chiaro il messaggio che l’ecologismo e l’ambientalismo hanno senso solo in un’ottica anticapitalista e di classe, che rimetta in discussione i rapporti di produzione.
Uguale discorso va svolto per il settore energetico, il quale per troppi anni è stato lasciato in balia della sorte senza l’emanazione di un Piano energetico nazionale che permettesse di raggiungere degli obiettivi strategici di grande importanza per lo Stato, come l’indipendenza energetica (entro i limiti del possibile) e l’abbattimento sia delle emissioni inquinanti che dei costi dell’energia.
Conclusioni
Riteniamo fondamentale investire sulla costruzione teorica ed organizzativa della rifondazione comunista, valorizzandone il patrimonio di esperienze e militanza. Siamo comunisti, perché riteniamo assolutamente necessario sviluppare l’opposizione di classe e delineare un’alternativa di sistema, che punti all’abbattimento dello stato di cose presenti e ponga concretamente la questione del potere.
Rifondare un partito comunista degno di questo nome e costruire uno schieramento anticapitalista.
Per questo abbiamo bisogno di una svolta radicale di linea politica e di gruppi dirigenti, di una analisi aggiornata del capitalismo e di un programma di fase, per ricostruire con tenacia e coerenza autentici legami con i lavoratori e con un ampio blocco sociale, contribuendo ad elevarne la coscienza di classe.più generale.
Lottiamo per un nuovo socialismo, ispirato all’internazionalismo ed alla fratellanza universale dei popoli contro l’imperialismo, che guardi alle esperienze di questo nuovo secolo come ad una nuova linfa, che diventi patrimonio comune insieme all’esperienza ed all’eredità delle lotte rivoluzionarie dei secoli scorsi.
Lo spazio per restare in mezzo al guado non c’è più, spazzato via dalla crisi e dalla necessità delle classi dominanti di ridisegnare una nuova geografia del dominio politico e sociale con cui tentare di rilanciare i loro profitti e la competitività internazionale.