di Francesco Ricci
Cento anni fa, in gennaio, si svolgeva nel teatro Goldoni a Livorno il 17° Congresso del Partito socialista italiano.
Nei palchi di destra sedevano i delegati dell'ala guidata da Filippo Turati, sostenitori di posizioni revisioniste che vedevano il socialismo come un orizzonte storico, non attuale, da realizzarsi attraverso una lenta marcia di conquista elettorale dello Stato borghese, che passava se possibile per un un sostegno ai governi borghesi. Per Turati l'Internazionale comunista, costituitasi nel 1919 sulle fondamenta del bolscevismo, era solo «un miraggio» destinato a un rapido fallimento.
Nei palchi opposti del teatro, a sinistra, stavano i delegati della Frazione comunista capeggiata da Amadeo Bordiga.
Nella platea di mezzo, la maggioranza del Psi, i «massimalisti» guidati da Giacinto M. Serrati e Costantino Lazzari: come la Frazione comunista sostenitori dell'Internazionale comunista e del suo programma di dittatura del proletariato; ma, a differenza della Frazione, intenzionati a mantenere il Psi unito e dunque a non applicare una delle famose «21 condizioni» per essere ammessi nell'Internazionale guidata da Lenin e Trotsky.
Le tre anime del partito si erano spartite i voti dei militanti nei congressi locali. Ai «comunisti unitari» (così si chiamava il centro di Serrati) erano andati 98.028 voti, la maggioranza. La Frazione diretta da Bordiga aveva raccolto 58.783 voti. I restanti 14.495 voti erano andati ai riformisti di Turati.
I comunisti organizzati da Bordiga
La Frazione comunista di Bordiga si era costituita nei mesi precedenti in una serie di assemblee e col Convegno tenuto a Imola alla fine di novembre del 1920, in una Camera del lavoro difesa da eventuali attacchi fascisti da giovani operai armati.
A Imola la Frazione si era dotata di una piattaforma programmatica e di una direzione che raccoglieva settori di diversa provenienza: la componente guidata da Bordiga, da tempo dotata di una propria struttura organizzata attorno alla rivista Il Soviet; poi un corposo settore di «massimalisti» di sinistra; quindi i cosiddetti «milanesi» (in quanto maggioritari nella Federazione lombarda) guidati da Fortichiari, con posizioni simili a quelle di Bordiga ma, a differenza di quest'ultimo, non astensionisti; infine il gruppo torinese guidato da Gramsci che editava l'Ordine Nuovo, e che apporterà al Congresso solo una piccola parte di quei 58 mila e rotti voti della Frazione: circa 4500.
La Frazione sosteneva l'applicazione delle 21 condizioni della Terza Internazionale e dunque voleva la rottura coi riformisti del Psi. Questo era però solo uno dei motivi di contrapposizione alla maggioranza di Serrati, che chiedeva all'Internazionale una applicazione «flessibile» delle 21 condizioni, intesa come un mantenimento del Psi unito, riformisti inclusi. Al fondo della costituzione della Frazione c'era soprattutto un bilancio giustamente impietoso del ruolo svolto dal Psi nel «biennio rosso» del 1919-1920, quando grandi lotte rivoluzionarie avevano infiammato le fabbriche e le campagne del Paese con lo slogan «fare come in Russia».
Il bilancio del «biennio rosso» che veniva condiviso dai partecipanti al Convegno di Imola era lo stesso fatto nell'Internazionale e che è perfettamente riassunto nelle parole pronunciate (un anno dopo) da Trotsky: «(...) Nel settembre del 1920 la classe operaia italiana aveva assunto il controllo dello Stato, della società, delle fabbriche, degli impianti, delle imprese. Che cosa mancava? Mancava un’inezia, mancava un partito che, poggiando sul proletariato rivoluzionario, ingaggiasse una lotta aperta con la borghesia per distruggere i residui delle forze materiali ancora nelle mani di quest’ultima, prendere il potere e arrivare alla vittoria della classe operaia. In realtà, la classe operaia aveva conquistato, o virtualmente conquistato il potere, ma non c'era alcuna organizzazione capace di consolidare definitivamente la vittoria e così la classe operaia venne ricacciata indietro».(1)
La necessità di un partito rivoluzionario
Nel 1920-1921 non erano certo mancate in Italia lotte rivoluzionarie, culminate col grandioso movimento di occupazione delle fabbriche del settembre 1920, a cui fa riferimento Trotsky nella citazione riportata qui sopra. Ciò che era mancato era un partito rivoluzionario in grado di portare queste lotte alla loro logica conclusione: la rottura rivoluzionaria dello Stato borghese, la conquista del potere e l'instaurazione, anche in Italia, come già avevano fatto i bolscevichi in Russia nell'Ottobre 1917, di una dittatura del proletariato, cioè di un dominio dei lavoratori, primo passo nella costruzione di una società liberata dallo sfruttamento, dal lavoro salariato e, in prospettiva, dall'esistenza delle classi.
Questo era l'obiettivo del nuovo partito: un obiettivo incompatibile con la coabitazione coi riformisti di Turati; un obiettivo che non poteva realizzarsi senza una correzione delle oscillazioni centriste di Serrati che avevano paralizzato il Psi a un passo dalla conquista del potere.
Per questo, il 21 gennaio del 1921, i delegati della Frazione comunista guidati da Bordiga, al canto dell'Internazionale, lasciarono il teatro Goldoni per andare a celebrare nel teatro San Marco, un chilometro più in là, la fondazione del Partito comunista d'Italia, sezione dell'Internazionale comunista.
Al teatro San Marco
Il San Marco era un teatro in disuso, per anni era servito come deposito di munizioni. Pioveva dal tetto costringendo i delegati a coprirsi con gli ombrelli.
Il Congresso di fondazione fu breve. Si trattava di votare i principi statutari e la direzione. In essa erano largamente maggioritari i bordighisti o i settori più vicini a Bordiga, come i «milanesi». Le posizioni di Bordiga erano peraltro condivise anche dai settori provenienti dal massimalismo di sinistra. Quanto all'Ordine Nuovo, di Gramsci, si discostava dal bordighismo solo per la non condivisione dell'astensionismo e per l'originale elaborazione teorica e pratica dei Consigli di fabbrica, che aveva ricevuto l'apprezzamento di Lenin.
Il nuovo partito
Nella ricostruzione storiografica fatta dallo stalinismo fin dagli anni Trenta, a Livorno sarebbe nato il «partito di Gramsci e Togliatti». Ma, a parte i numeri minoritari del gruppo dell'Ordine Nuovo, in realtà Togliatti non era nemmeno presente a Livorno e Gramsci c'era ma non intervenne. Nell'Esecutivo di cinque membri eletto al San Marco c'erano, a fianco di Bordiga, dirigenti politicamente a lui molto vicini: Grieco, Repossi e Fortichiari; per l'Ordine Nuovo c'era Terracini, che tuttavia era, di questo gruppo, il più vicino alle posizioni di Bordiga.
Il nuovo partito aveva una forte composizione operaia (oltre il 90% dei militanti) e per questo aveva le sue roccaforti nel nord operaio: a Torino e in Piemonte (dove erano circa un quarto dei militanti), a Milano, Genova, Emilia (dalla Toscana in giù i numeri si abbassavano). Ed era un partito guidato e composto da giovani: la quasi totalità dell'organizzazione giovanile del Psi aveva seguito gli scissionisti.
Il contesto in cui nasce il Pcd'I
Il contesto in cui nasceva il Pcd'I era segnato da sei elementi che possiamo qui solo elencare: primo, la fine recente della guerra imperialista; secondo, la vittoria dei bolscevichi in Russia; terzo, il soffocamento ad opera dei riformisti della rivoluzione del 1918-1919 in Germania, guidata da Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht (assassinati dal governo borghese «di sinistra» che avevano cercato di rovesciare); quarto, la costituzione nel marzo 1919 dell'Internazionale comunista e di sue sezioni nei diversi Paesi, in rottura (con scissioni spesso maggioritarie) delle sezioni della Seconda Internazionale che aveva capitolato ai governi borghesi allo scoppio della guerra; quinto, il fallimento della rivoluzione italiana nel «biennio rosso»; sesto, l'inizio del «biennio nero» in cui si affermava il movimento fascista di Mussolini, che iniziava ad attaccare con una violenza organizzata le organizzazioni del movimento operaio.
Una scissione minoritaria
Come si è visto dai numeri, la scissione avveniva in Italia (a differenza ad esempio di quella francese di Tours dell'anno prima) come rottura minoritaria, per quanto di una minoranza consistente.
La maggioranza dei militanti restava nel Psi. Un Psi che, ricordiamolo, non era su posizioni riformiste. Al di là delle oscillazioni centriste del suo gruppo dirigente, e delle conseguenti esitazioni in momenti cruciali, il Psi era un partito maggioritariamente composto da comunisti che si riconoscevano nell'Ottobre, nel programma della dittatura del proletariato e nell'Internazionale di Lenin e Trotsky. All'Internazionale il Psi aveva aderito e ne verrà espulso solo al III Congresso, nell'estate seguente ai congressi di Livorno, quando verrà riconosciuto il Pcd'I come sezione. Ma anche una volta espulso, all'Internazionale continuerà a rivolgersi, partecipando come invitato al successivo Congresso internazionale del 1922, quando finalmente Serrati si decise a rompere coi turatiani (che costituiranno un altro partito: il Ps unitario con Matteotti segretario).
Da parte sua, il gruppo dirigente dell'Internazionale non aveva rinunciato a cercare di guadagnare la maggioranza del Psi, appunto perché non voleva rinunciare a quella fetta larga di lavoratori che continuavano a restare nelle sue file. Come dimostrano alcuni numeri: al Congresso della Cgl del febbraio 1921, le posizioni espresse dal Psi raccolsero 1,4 milioni di sostenitori, quelle del Pcd'I 430 mila; alle elezioni del maggio 1921 i comunisti raccolsero 300 mila voti, contro il milione e 600 mila del Psi.
Gli sforzi dell'Internazionale per recuperare la parte migliore del Psi avranno esito positivo alla fine del 1923, quando Serrati (2), rimasto in minoranza nel Psi (ora diretto da Nenni), deciderà infine di uscire dal partito per fondersi, nel 1924, con il Pcd'I insieme ai «terzini».
Un partito ammalato di settarismo
Dunque il Pcd'I nacque come partito diretto da Bordiga. E questo comportò, come ebbe a dire in varie occasioni Trotsky, che la tattica del partito era ammalata di «tutte le malattie infantili» del comunismo. Cioè imbevuta di quelle posizioni contro cui Lenin e Trotsky diedero battaglia nei primi congressi dell'Internazionale. In sintesi: una concezione «illuminista» (la definizione è sempre di Trotsky), la convinzione cioè che fosse sufficiente proclamare le verità del comunismo, rifiutando ogni tattica per guadagnare a queste verità ampi settori del proletariato. Il tutto combinato con una forte impronta che nella Seconda Internazionale aveva accomunato, seppure con orizzonti opposti, riformisti e rivoluzionari: una concezione meccanicistica del marxismo, un oggettivismo anti-dialettico, positivista, che riduceva il marxismo a un dogma (da abbandonare per i riformisti, da contemplare per i rivoluzionari). Fu appunto Bordiga a parlare di «invarianza del marxismo» trasformandolo così da «guida per l'azione» (Lenin) in un insieme di «leggi» da applicare, una «filosofia della storia», ancella di un socialismo «inevitabile» in una Storia con la «s» maiuscola che, all'opposto di quanto teorizzato da Marx, si fa da sé determinando in senso meccanico l'azione delle classi.
Su queste basi si comprende il rifiuto bordighista di utilizzare un programma di tipo transitorio (rifiuto delle parole d'ordine democratiche) per guadagnare ampi settori proletari, l'anti-parlamentarismo, l'incomprensione della tattica di «fronte unico» per la distruzione politica del riformismo, eccetera.
Perché rivendichiamo la scissione di Livorno
La stampa borghese ha iniziato in queste settimane a dedicare pagine intere ai cento anni della scissione di Livorno. Gli argomenti sono riassunti dall'immancabile libro di Ezio Mauro, ex direttore di Repubblica che da qualche tempo si è riscoperto storico del comunismo (alla sua penna dobbiamo, si fa per dire, anche un libro sui cento anni dell'Ottobre 1917, raro concentrato di banalità). Il titolo del nuovo libro di Mauro è tutto un programma: «La dannazione. 1921, la sinistra divisa all'alba del fascismo». Tutti i quotidiani borghesi stanno pubblicando articoli imperniati su questo stesso canovaccio: «la scissione fu il peccato originale della "sinistra" italiana che aprì le porte al fascismo; fu un atto sciagurato, ispirato dal bolscevismo; a Livorno la ragione stava dalla parte di Turati».
Partendo da un punto di vista opposto a quello di Mauro (quello del proletariato), il nostro giudizio è evidentemente ben diverso. La scissione di Livorno fu un atto necessario per dotare la classe operaia italiana del partito che era mancato nel «biennio rosso». Certo, il partito che nacque a Livorno nacque da una scissione minoritaria e, certo, aveva molte deviazioni settarie. Ma è bene ricordare almeno quattro cose a questi «storici» che deformano la storia per asservirla, guarda caso, agli interessi dei padroni che li stipendiano.
Primo, come ripeteva Lenin, la scissione fu minoritaria principalmente per l'errore (corretto tardivamente) di Serrati di voler rimanere nello stesso partito coi riformisti di Turati da cui invece, giustamente, Bordiga e l'Internazionale si separarono.
Secondo, attribuire alle deviazioni settarie di Bordiga l'onda nera fascista, significa non comprendere cosa fu il fascismo: prodotto del combinarsi della crisi del capitalismo e della radicalizzazione a destra di una piccola-borghesia inferocita, sullo sfondo della sconfitta del «biennio rosso» e con un proletariato che non aveva potuto (proprio per il tradimento dei riformisti) egemonizzare questa semi-classe, sottraendola all'egemonia della grande borghesia.
Terzo, ciò che impedì una evoluzione positiva del nuovo partito (liberandolo dal settarismo) fu il combinarsi della repressione fascista e dell'affermarsi nella metà degli anni Venti nell'Internazionale dello stalinismo e della sua linea di collaborazione di classe con la borghesia. Stalinismo che negli anni Trenta uccise decine dei migliori quadri rivoluzionari, anche italiani, accusandoli di presunti complotti «trotsko-bordighisti al servizio dei fascisti». Tra i fondatori del Pcd'I colpiti dalla repressione stalinista che soffocò il partito, lasciando la classe operaia priva di una direzione anche nella successiva ondata rivoluzionaria del 1943-1948, ricordiamo qui almeno i nomi di Pietro Tresso (fondatore del trotskismo italiano, fatto uccidere da Togliatti in Francia durante la Resistenza), Antonio Gramsci (di fatto espulso dal partito e lasciato morire nel carcere fascista, in quanto in dissenso con la linea di Togliatti e Stalin) e Amadeo Bordiga (espulso dal partito nel 1930 per essersi schierato a difesa di Trotsky e della rivoluzione internazionale).
Quarto, giova ricordare, a chi fa ricadere sulla scissione le responsabilità del Ventennio fascista, che furono gli scissionisti del 1921 i principali oppositori del regime mussoliniano e coloro che, anche col sacrificio della vita, lo rovesciarono poi con la Resistenza. A disarmarli e a fermarli a metà dell'opera pensò invece quel Togliatti, braccio destro di Stalin, che tradì anche questa rivoluzione e con essa la scissione di Livorno: e lo fece appunto riportando nel movimento operaio la collaborazione di classe e di governo con la borghesia che già aveva predicato e praticato Turati. Quel Turati che oggi ci vorrebbero indicare come il più «realista» tra i protagonisti di Livorno, colui che avrebbe compreso, a differenza dei comunisti, l'impossibilità di fare rivoluzioni.
In conclusione, l'eredità di quei giovani operai rivoluzionari che nel gennaio 1921 fondarono il Pcd'I appartiene ai lavoratori e ai giovani che oggi, cento anni dopo, portano avanti la stessa lotta, l'unica davvero realistica se non si vuole che l'umanità resti prigioniera della barbarie di questo sistema: costruire un partito rivoluzionario per rovesciare il capitalismo.
È questa una eredità che sapremo difendere dal fango della borghesia e dei suoi pennivendoli.
Note
(1) L. Trotsky, "Settembre 1920: la rivoluzione mancata" in Scritti sull'Italia (Massari editore, 1990). Per un approfondimento sul tema del «biennio rosso» rimandiamo all'eccellente "Il Biennio rosso (1919-1920): la rivoluzione italiana tradita dai riformisti" di Salvo de Lorenzo, su Trotskismo oggi n. 16.
(2) Alla fusione col Pcd'I non partecipò Lazzari, che restò nel Psi. Serrati morirà nel 1927, dopo aver partecipato al Congresso di Lione del Pcd'I in cui Gramsci guadagnò, anche col suo sostegno, e con misure non democratiche, una ampia maggioranza contro le tesi di Bordiga. Su Gramsci rimandiamo al nostro "Gramsci tradito. Ottant'anni di falsificazioni di stalinisti, riformisti e liberali"