Forum Palestina
L’antisemitismo è cresciuto e
continua a crescere, ed io con esso.
Theodor Herzl1
L’Europa serve da terra natale a una parte
significativa del popolo ebraico da duemila anni [...].
Dopo di che, veniamo chiamati stranieri, allogeni,
e anche tra noi ci sono alcuni che sono disposti
ad accettare il sofismo dei nostri nemici e
giustificano con esso l’obbligo, per gli ebrei,
di lasciare l’Europa.
Shimen Dubnov2
Nel lontano 1994, ancora all’alba dell’era berlusconiana che oggi parrebbe volgere al tramonto lasciando dietro di sé un fardello di macerie materiali, morali e ideologiche, l’ascesa al potere del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale, partito di esplicita ispirazione fascista, destò viva preoccupazione sia in Italia che all’estero. Negli anni seguenti quindi il MSI-DN, ribattezzatosi Alleanza Nazionale, compì una serie di passi volti a rassicurare i benpensanti in Italia e all’estero sulla propria genuina accettazione delle regole delle liberaldemocrazie, sostanzialmente riuscendo nel proprio intento. Fra queste ‘svolte’, particolare rilevanza ebbe la
visita in Israele compiuta nel 2003 dal suo allora segretario Gianfranco Fini, visita che di questo percorso di ‘democratizzazione’ fu considerato il punto d’approdo. Al di là della questione della genuinità o meno della scelta di Fini, questo episodio è significativo perché in esso emergono alcuni nessi impliciti sui rapporti tra sionismo e mondo ebraico, e tra sionismo e antisemitismo che sono diventati senso comune, e che proprio per questo vanno esplicitati e demistificati, mostrandone la natura ideologica.
Il fine politico del segretario di AN era quello di rendere visibile l’aver portato a pieno compimento la presunta abiura dell’eredità fascista, condannando tout court il nazifascismo per il suo crimine più mostruoso, la Shoah. Ora, poiché le vittime della Shoah sono state gli ebrei europei, e poiché la maggior parte dei sopravvissuti hanno trovato poi rifugio negli Stati Uniti o nell’URSS, logica avrebbe voluto che Fini visitasse i sopravvissuti stessi o i luoghi-simbolo del massacro come Auschwitz.
Fini si era effettivamente recato ad Auschwitz nel 1999, ma in occasione di quella visita aveva minimizzato la portata politica dell’evento, affermando che “Non si può mescolare un sentimento con la politica” e che il suo era stato “un atto doveroso. Null’altro” : l’aspetto politico, l’abiura ufficiale dell’eredità fascista, venne riservata alla visita al Museo Yad Vashem di Gerusalemme, quattro anni dopo. Perché? Che Fini ne fosse cosciente o meno, il suo gesto più che un’abiura del fascismo fu un riconoscimento politico offerto al nazionalismo sionista, di cui egli confermava l’assioma fondamentale, ossia che lo Stato di Israele è lo stato di tutti gli ebrei del mondo, di cui sarebbe allo stesso tempo portavoce ufficiale e difensore d’ufficio (de facto riconosciuto come tale da diversi stati). Il presupposto che lo Stato di Israele sia l’erede morale e politico (nonché ‘esecutore testamentario’) dei sei milioni di ebrei sterminati dal nazifascismo e quindi unico autorizzato a parlare a nome delle vittime della Shoah è da tempo talmente parte del senso comune che nessuno mise in discussione il senso politico della visita, al massimo si discusse della sua maggiore o minore sincerità. Ma l’aver scelto di fare il suo atto di contrizione lì anziché ad Auschwitz fu significativo in quanto al tempo stesso confermava ed era la logica conseguenza di tale senso comune: Fini in sostanza riconobbe lo Stato di Israele come il “settimo milione”, per citare il titolo del libro di Tom Segev.
In realtà, tra sionismo ed ebraismo non vi è una relazione di identità, bensì di reciproca irriducibilità: il sionismo è una specifica ideologia politica emersa in tempi relativamente recenti, legata al variegato e spesso contraddittorio movimento nazionalista e colonialista che ha dato vita allo Stato d’Israele, laddove l’ebraismo è una religione dalla storia ben più lunga e a cui molti si sentono legati anche quando non sono veri e propri credenti e la considerano piuttosto un’eredità culturale. E la
storia dei rapporti tra ebraismo e sionismo, sebbene non lunga, è certamente frastagliata e lungi dall’essere univoca. Nel senso comune, però, i due coincidono: il sionismo è visto come l’incarnazione politica ‘naturale’ dell’ebraismo, e quindi, ça va sans dire, contrapposto all’antisemitismo; da questa deduzione implicita segue l’equazione secondo la quale l’antisionismo sarebbe automaticamente antisemitismo.
Allo stesso modo è un mito – ideologico quindi per definizione – l’idea che il sionismo sia, come movimento e come ideologia politica, intrinsecamente antitetico all’antisemitismo. È su questo mito che si basa la pretesa dello Stato d’Israele (che si vuole stato degli ebrei di tutto il mondo anche se la maggior parte degli ebrei non vive sul suo territorio) di essere il rappresentante e l’erede storico dei sei milioni di ebrei sterminati dai nazisti, rivendicazione da cui esso trae la propria legittimazione morale e politica. Si tratta però di una costruzione ideologica priva di qualsiasi fondamento storico e/o giuridico, frutto di un’appropriazione in chiave nazionalistica della memoria dello sterminio. Gli argomenti concreti a sostegno di questa rivendicazione si riducono in sostanza a due, ossia al fatto che Israele abbia accolto i sopravvissuti e
che lo sterminio lo abbia privato di sei milioni di futuri cittadini.
Entrambe tuttavia non reggono alla prova dei fatti: se è vero che Israele ha accolto alcune centinaia di migliaia di ebrei sopravvissuti (circa 1/5 della popolazione dello Stato nei primi anni dopo la sua nascita) le cifre mostrano che solo l’8,5% dei 2.562.000 ebrei che tra il 1935 e il 1943 scamparono alle grinfie di Hitler e dei suoi carnefici si rifugiò in Palestina, mentre la stragrande maggioranza trovò riparo in Unione Sovietica (il 75,3%), e in misura assai minore negli Stati Uniti (il 6,6%) e in Gran
Bretagna (l’1,9%) (4). In secondo luogo, i sei milioni di ebrei trucidati non possono più parlare, e nessuno ha evidentemente il diritto di arrogarsi il ruolo di loro portavoce: se si considera inoltre che gli ebrei massacrati nei campi di concentramento erano rimasti a vivere in Europa finanche in un periodo di terribili persecuzioni, è ragionevole pensare che la maggior parte di loro non fosse sionista e non sarebbe andata a vivere in Palestina.
A dispetto di ciò, l’Agenzia Ebraica prima e lo Stato d’Israele poi hanno cercato sin dalla fine della guerra di accreditarsi come gli eredi politici e legali dei sei milioni di vittime della Shoah e di dare a questa connessione un fondamento giuridico: se già nel 1945 il presidente dell’Organizzazione Sionista Chaim Weizmann aveva chiesto (invano) agli Alleati di riconoscere all’Agenzia Ebraica palestinese il diritto di disporre delle proprietà degli ebrei assassinati rimasti privi di eredi (5) , nel 1950 fu proposto che lo Stato conferisse a titolo commemorativo la cittadinanza israeliana ai morti della Shoah (6). Nei primi anni ’60 David Ben Gurion sostenne la tesi che la Germania Federale avesse accettato di pagare ad Israele le riparazioni perché aveva “riconosciuto che questo Stato parla per conto di tutti gli ebrei assassinati”(7), ma, come chiarisce Tom Segev, le cose non stavano affatto così: Bonn aveva accordato ad Israele le riparazioni semplicemente “perché aveva accolto i superstiti”(8); considerato
però che non era stato l’unico paese a farlo né era stato quello che ne aveva accolti di più, la tesi di Ben Gurion era del tutto infondata. La ragione di questa insistenza nel reclamare l’eredità giuridica e politica delle vittime è solo in parte economica, essa mirava e mira soprattutto a conseguire il risultato politico di conferire una legittimazione morale inattaccabile all’esistenza dello Stato sionista.
Contrariamente a quanto il senso comune suggerirebbe, l’imbarazzante storia dei rapporti di collusione del sionismo con l’antisemitismo in generale e con il nazismo e il fascismo in particolare presenta diversi capitoli. Quando nel 1933 Adolf Hitler salì al potere in Germania, l’avvenimento suscitò grande apprensione nella comunità ebraica palestinese,timorosa di ciò che sarebbe potuto accadere agli ebrei tedeschi. Ben diverse furono invece le reazioni dei vertici sionisti, cui la vittoria dei nazisti appariva come un’opportunità per incrementare l’immigrazione: “le strade sono lastricate di soldi […] si presenta un’occasione irripetibile per costruire e prosperare”, scrisse Moshe Beilinson del Mapai (i sionisti laburisti) (9) o, per dirla con Ben Gurion, “una forza fertile” (10) per l’avanzamento dell’impresa sionista. La ragione di questa valutazione
apparentemente schizofrenica era che poiché i nazisti intendevano espellere gli ebrei tedeschi, l’Agenzia Ebraica avrebbe potuto accoglierli in Palestina e incrementare il peso demografico della locale comunità ebraica a fronte degli arabi palestinesi. Questa logica aberrante non deve stupire: le priorità dell’Agenzia erano sviluppare la colonizzazione ed edificare lo Stato ebraico, quindi gli ebrei tedeschi potevano interessarla solo nella misura in cui erano funzionali a questi progetti. L’Agenzia Ebraica concluse quindi con il governo nazista un accordo che fu detto della haavarah («trasferimento»): un certo numero di ebrei tedeschi avrebbero potuto trasferirsi in Palestina, portando con sé merci e capitali fino ad un valore di 9000 dollari. Ad occuparsi delle operazioni finanziarie relative al trasferimento sarebbero state delle società miste tedesco-sioniste alla cui gestione presero parte il Mapai, il sindacato Histadrut, il Fondo Nazionale Ebraico, l’Agenzia Ebraica e un finanziere polacco legato ai revisionisti (11).
Quanti si trasferivano perdevano intorno al 35% del capitale iniziale, che finiva nelle casse dei succitati enti, per cui se è vero che per mezzo di questo complicato meccanismo l’Agenzia Ebraica salvò circa 20.000 ebrei tedeschi (selezionandoli in base al censo), è altrettanto vero che essa allo stesso tempo lucrò sulle loro disgrazie, ottenendone congrui profitti che furono investiti nell’acquisto di terreni da colonizzare. Il paradosso era che grazie a questo sistema i tedeschi trovavano fra gli ebrei di Palestina un mercato per le proprie merci nello stesso periodo in cui diversi paesi, insieme alle associazioni ebraiche americane, promuovevano un boicottaggio dei prodotti made in Germany. Né peraltro i buoni rapporti fra i sionisti laburisti che guidavano l’Agenzia Ebraica, i centristi dell’Organizzazione Sionista Mondiale e il governo hitleriano si esaurirono con la haavarah: sempre nel 1933, al fine di migliorare le relazioni reciproche fu invitato a visitare la Palestina il barone von Mildenstein, nazista della prima ora, membro delle SS e predecessore di Adolf Eichmann alla direzione dell’Ufficio per gli Affari Ebraici di Berlino. Von Mildenstein fu accompagnato nel suo tour da Kurt Tuchler, delegato dell’Organizzazione Sionista per i rapporti col Partito Nazista, e raccontò le sue favorevoli impressioni sul giornale di Joseph Goebbels Angriff. Nel 1938 un altro delegato sionista, Teddy Kollek (futuro sindaco di Gerusalemme), incontrò a Vienna per questioni burocratiche Adolf Eichmann, di lì a qualche anno principale esecutore della “soluzione finale”. Incontri simili ebbero luogo fino al 1939, e coinvolsero persino i vertici della Gestapo.
La destra sionista, i cosiddetti revisionisti guidati da Vladimir (Zeev) Žabotinskij, contestò il patto e annunciò il boicottaggio della Germania, accusando i laburisti di essersi alleati ai nazisti. Ma in realtà anche la destra sionista non era del tutto estranea all’operazione haavarah, e la sua vicinanza ideologica all’estrema destra europea fece sì che l’accusa le si ritorcesse contro: la corrente revisionista più estremista era infatti guidata da Abba Ahimeir, fervido ammiratore di Mussolini, il quale affermava pubblicamente che la politica di Hitler era in tutto e per tutto condivisibile, a parte ovviamente l’antisemitismo12. Addirittura, nel 1940-41 la fazione Stern dell’Irgun, l’organizzazione armata della destra sionista, arrivò a proporre alla Germania un’alleanza militare contro la Gran Bretagna (13).
Non meno spregiudicati furono i rapporti che i sionisti ebbero con il fascismo italiano. A differenza del nazismo, quest’ultimo non fu antisemita fin dall’inizio, tanto che alcuni ebrei italiani ne furono addirittura sostenitori: fu il caso ad esempio dello squadrista torinese Ettore Ovazza, che nel 1935 fondò un gruppo ebraico fascista chiamato “La nostra bandiera”.
La vera svolta antisemita ebbe luogo soltanto nel 1938, con la pubblicazione del “manifesto della razza” e la promulgazione delle leggi razziali. Nei confronti del sionismo le attitudini di Mussolini erano ambivalenti: se i sionisti italiani gli erano sospetti per via della loro “doppia fedeltà” nazionale, verso il movimento sionista internazionale egli ebbe fino alla fine del 1936 un atteggiamento benevolo. Nel 1934, nel corso di due incontri con Chaim Weizmann e Nahum Goldmann, il dittatore italiano arrivò finanche a proporsi come loro protettore, sostenendo che i sionisti in Palestina dovevano costituire uno Stato vero e proprio e non accontentarsi del “focolare nazionale” promesso loro dalla Gran Bretagna (14). In una delle sue pagliaccesche boutades, Mussolini arrivò finanche a proclamare “Io sono (12) Si noti che la sezione tedesca del Beitar, l’organizzazione giovanile revisionista, continuò la sua attività in Germania sotto la protezione della Gestapo, con cui aveva regolari rapporti e dalla quale anni dopo ottenne persino l’apertura di un ufficio per l’emigrazione nell’Austria occupata, con gran disappunto di Žabotinskij. Il fondatore del sionismo revisionista stigmatizzò questo filohitlerismo dei suoi seguaci, ma il suo essere bandito dalla Palestina dai britannici nel 1930 e la sua precoce morte rafforzarono sempre più queste tendenze all’interno del movimento sionista, io”(15). La simpatia era ricambiata: in quel periodo, infatti, alcune singole personalità fra i sionisti generali (centristi) fecero intravedere
alle alte sfere del Ministero degli Esteri addirittura la possibilità di un mandato italiano sulla Palestina. Fu però con i revisionisti che Mussolini trovò un vero terreno d’intesa: in quello stesso 1934 infatti questi ultimi avviarono con l’Italia una concreta collaborazione, inviando alcuni esponenti del loro movimento giovanile Beitar alla Scuola Marittima di Civitavecchia. Alla base di questa disponibilità di Roma c’era l’intento di sfruttare i revisionisti come testa di ponte per un’espansione
dell’influenza italiana in Medio Oriente. A tale scopo nel febbraio 1936 fu inviata in Palestina una missione diplomatica incaricata di sondare il terreno. L’emissario di Mussolini, Corrado Tedeschi, riscontrò una notevole intesa ideologica con i militanti del movimento di Žabotinskij (16), e nel suo rapporto riferì entusiasticamente che secondo il suo accompagnatore Ben-Avi “molti fra i nativi ed i revisionisti [...] sono assolutamente tendenzialmente fascisti, e potrebbero in pieno far proprie la teoria e la
pratica del fascismo”(17). La collaborazione con i revisionisti continuò fino al 1937-38, quando i rapporti con Žabotinskij si guastarono. Alla base di questa rottura vi furono diversi eventi: dapprima il fallimento di una trattativa con Londra (condotta da una delegazione di ebrei italiani) per un ritiro delle sanzioni contro l’Italia per l’aggressione all’Etiopia (1935)(18), poi il riavvicinamento alla Germania e infine la decisione di Mussolini di autoproclamarsi nel marzo 1937 “protettore dell’Islam” per accattivarsi le simpatie degli arabi in funzione antibritannica, il tutto coronato nel 1938 dalla promulgazione delle famigerate leggi razziali. Si badi tuttavia che alcune personalità sioniste cercarono invano fino al 1938 di ricucire lo strappo, e la stessa Agenzia Ebraica nel suo comunicato di protesta prese atto “con soddisfazione dell’opinione del governo fascista che il problema ebraico universale può essere risolto in un solo modo: creando uno Stato ebraico”(19).
Beninteso, come è noto i sionisti non furono certo gli unici a fare patti con nazisti e fascisti: si pensi agli Accordi di Monaco del 1938 o al Patto Molotov-Ribbentrop; ciò che stupisce però è il carattere continuativo, non episodico, di questa collaborazione. Si tratta di un argomento su cui è estremamente importante evitare di prestare il fianco a qualsiasi strumentalizzazione, a causa della consueta accusa di antisemitismo con cui viene interdetto dal discorso pubblico chiunque critichi o metta in
discussione il sionismo (20), ma che non può assolutamente essere taciuto e merita un approfondimento. Come si spiega ad esempio la collaborazione prolungata del movimento sionista con la Germania nazista, dall’Accordo della haavarah del 1933 agli accordi sull’emigrazione del 1938, fino alla tragica vicenda dell’offerta “camion contro sangue” del 1944 (21)? Come si è già accennato, tali accordi erano “il frutto della complementarità tra gli interessi del governo nazista e quelli del movimento sionista: il primo voleva cacciare gli ebrei dalla Germania, il secondo voleva accoglierli in Palestina” (22): in tal modo, molti ebrei tedeschi, “la maggior parte dei quali
avrebbe preferito restare nel proprio paese” (23) , furono costretti a ‘sionistizzarsi’. La convergenza di interessi tra l’antisemitismo nazista e l’aspirazione sionista a “trasferire” gli ebrei europei in Palestina era chiara anche alla loro controparte: come ricorda Hannah Arendt, il criminale nazista Eichmann, uno degli artefici dello sterminio, dopo aver letto Lo Stato ebraico di Theodor Herzl “aderì prontamente e per sempre alle idee sioniste” (24). Nel caso della destra alla convergenza di interessi si aggiungeva anche la prossimità ideologica (25)e certuni suoi dirigenti non facevano alcun mistero neppure delle loro simpatie per Hitler: se Abba Ahimeir teneva sul giornale revisionista Doar Hayom una rubrica intitolata “Taccuino di un fascista”, il suo avvocato e compagno di partito Zvi Cohen ebbe addirittura modo di affermare durante un processo al suo assistito che “se non fosse per l’antisemitismo, noi non avremmo nulla contro l’ideologia di Hitler. Il Führer ha salvato la Germania” (26).
Era quindi una convergenza di interessi oggettivi a costituire la ragion d’essere dello sviluppo di queste “relazioni pericolose” con il regime fascista e quello nazista. Questa politica tuttavia non costituiva un’aberrazione dovuta ad una congiuntura storica particolare, ma s’inseriva nel solco di una tradizione consolidata che affondava le sue radici nelle premesse ideologiche del sionismo. Per cogliere appieno il senso delle relazioni tra l’antisemitismo nazista e movimento sionista è necessario quindi riandare alle origini del sionismo come ideologia e come movimento 20 A questo proposito scrive la studiosa ebrea americana Judith Butler che l’accusa di antisemitismo contro chi critica la politica israeliana o mette in discussione il sionismo tout court costituisce uno strumento per “controllare il comportamento politico attraverso uno stigma insopportabile, [...] un dispositivo per il quale, a livello del soggetto, si sta realizzando ciò che è già esplicitamente in atto a livello della società in generale, ossia la delimitazione, la selezione di ciò che può essere ammesso e detto nella sfera pubblica.” (Judith Butler, “L’accusa di antisemitismo: gli ebrei, Israele e rischi di una critica pubblica”, trad. it. di F. De Leonardis, in Vite Precarie, a cura di O. Guaraldo, Roma, Meltemi, 2004, pp. 153- 4).
Caposaldo del sionismo è l’idea, emersa nella seconda metà del XIX secolo, che gli ebrei non siano semplicemente coloro che professano o si sentono in qualche modo legati alla religione ebraica, ma che costituiscano invece una vera e propria nazione. Sotto quest’aspetto il sionismo non si differenzia molto dal nazionalismo ebraico del Bund (abbreviazione di Allgemeiner yiddisher Arbeterbund, Unione generale dei lavoratori ebrei di Lituania, Polonia e Russia), nato pressappoco nel medesimo periodo27; a marcare la peculiarità del sionismo è però il fatto che per esso l’autodeterminazione nazionale degli ebrei, intesa come oggettivazione della nazione in Stato, può aver luogo solo in una terra promessa d’oltremare, che per ragioni storiche, religiose ed emozionali è stata identificata con la Palestina. Con questo secondo passaggio, che non scaturisce necessariamente dal primo – è bene sottolinearlo (28) – il nazionalismo ebraico si trasformò alla fine del XIX secolo in un movimento di colonizzazione inserito appieno nell’espansione coloniale europea. Secondo i sionisti, quale che sia la corrente di appartenenza, il punto fondamentale è l’esistenza di un legame (di evidente derivazione romantica) tra suolo e popolo: l’esistenza degli ebrei della diaspora è vista in qualche modo come incompiuta, donde la necessità di ‘metter radici’ in un paese che sia esclusivamente degli ebrei. Il sionismo come ideologia si era sviluppato a partire dalla rinascita culturale ebraica della seconda metà del XIX secolo, che di fronte all’emancipazione e all’assimilazione esprimeva il desiderio di un ritorno alle radici culturali ebraiche (anche se in realtà si trattava piuttosto di
una reinvenzione, come sempre avviene con le “rinascite nazionali”), e costituiva una delle molteplici opzioni che si aprivano agli ebrei europei una volta usciti dal ghetto (29). L’emergere del sionismo come movimento politico organizzato, dapprima con gli Amanti di Sion negli anni ’80 dell’Ottocento e successivamente con la fondazione dell’Organizzazione Sionista Mondiale (1897), è però legato ad una causa esterna : l’ondata di antisemitismo che si abbatté sull’Europa, e in particolare sulla Russia zarista (patria del 95% degli ebrei europei), dove a partire dal 1881 violentissimi e reiterati pogrom antiebraici fecero centinaia di vittime. L’odio antiebraico fu quindi il principale propulsore per lo sviluppo del sionismo come movimento politico, circostanza di cui quest’ultimo reca su di sé evidenti tracce, visto che il sionismo accetta e fa proprie le premesse dell’antisemitismo. Ciò è espresso in maniera esemplare nel testo fondativo del sionismo politico, Lo Stato ebraico di Theodor Herzl.
In questo celebre pamphlet Herzl scriveva di “comprendere l’antisemitismo” (30), e analizzando il cosiddetto “problema ebraico” argomentava che, poiché “i popoli presso cui vivono gli ebrei sono tutti quanti antisemiti” (31), una loro reale assimilazione non avrebbe potuto aver luogo se non in misura estremamente limitata: in questa maniera Herzl arrivava ad accettare la tesi antisemita della inassimilabilità degli ebrei, premessa da cui partiva la sua proposta di trattare quella ebraica come una
questione nazionale la cui unica soluzione sarebbe stata la fondazione – garantita dal sostegno politico di qualche potenza – di uno Stato ebraico dove gli israeliti potessero trovare un sicuro rifugio. Creato tale stato, profetizzava Herzl, la condizione degli ebrei si sarebbe “normalizzata” e l’antisemitismo avrebbe cessato di esistere “ovunque e subito” (32). Per spingere gli ebrei ad emigrare nella loro “terra promessa” Herzl intendeva servirsi proprio dell’antisemitismo: dalla partenza degli ebrei infatti i
paesi antisemiti avrebbero avuto tutto da guadagnarci, giacché i capitalisti gentili si sarebbero liberati in un solo colpo sia dei loro concorrenti israeliti che dei numerosi socialisti di origine ebraica. È significativo che per il fondatore del sionismo politico a definire l’ebraismo come una nazionalità e gli ebrei come un popolo fosse proprio l’antisemitismo: “siamo un popolo – è il nemico a renderci tale, anche senza che noi lo vogliamo” (33 ).
Nella sua visione gli ebrei si configuravano quindi non come una comunità religiosa, linguistica e/o culturale, ma come una comunità tenuta insieme da un comune nemico. Se l’identità ebraica era definita dagli antisemiti, era del tutto logico che Herzl facesse proprie le premesse dell’antisemitismo, e non era per mero artificio retorico che Herzl riproponeva nel suo pamphlet molti stereotipi antiebraici (“noi popolo avido” (34) , scriveva) o che egli non si ponesse affatto il problema della lotta all’antisemitismo e alle discriminazioni, giacché era in essi che il sionismo trovava la giustificazione per la propria esistenza. Qualora ci si attenesse alla definizione di “popolo” data da Herzl, con la scomparsa dell’antisemitismo verrebbe paradossalmente meno lo stesso popolo ebraico, un rischio che egli stesso scongiurava affermando che comunque gli ebrei, come altri popoli, avrebbero sempre avuto abbastanza nemici. Da quanto scriveva Herzl risulta chiaro in che senso sionismo e antisemitismo condividono la medesima premessa. Per dirla con le parole di Nathan Weinstock, Il sionismo subisce, in ultima analisi, il contagio del razzismo. Rivendicando non la specificità, ma l’alterità essenziale della propria condizione ebraica, cosa che postula l’ineguaglianza delle nazioni, fa sue le tesi antisemitiche. Facendo eco ai suoi persecutori, si raffigura “problematicamente” la propria esistenza in una società non ebraica, definendosi quindi come elemento perturbatore della armonia sociale. Spingendo l’alienazione fino al suo limite estremo, finisce con l’accettare il verdetto del razzista: l’ebreo deve scomparire. Atteggiamento sionista e mentalità antisemita sono simmetrici. […] Di qui una indiscutibile coincidenza d’interessi.(35) Il fatto che sionismo e antisemitismo partano dalle stesse premesse non vuol dire ovviamente che il sionismo sia antisemita, ma certamente lo pone non come l’antitesi dell’antisemitismo, bensì come il suo complemento logico e politico. Nella misura in cui il sionismo respingeva l’assimilazione e
poneva agli ebrei europei l’obiettivo politico del loro trasferimento en masse in Palestina, non poteva non trovare d’accordo gli antisemiti di ogni latitudine.
Di questo furono coscienti molti politici e intellettuali ebrei, sionisti e non, fin dalla nascita del movimento; valga per tutti l’esempio di Edwin Montagu, membro del governo britannico di origine ebraica, il quale nel 1915 osservò che “l’idea di restaurare il popolo ebraico nella terra che fu un tempo sua è spesso – temo – il desiderio a malapena mascherato di liberare il mondo protestante della sua popolazione ebraica” (37). Lo storico del sionismo Georges Bensoussan liquida quest’affermazione come “una forma di odio di sé” (37), che è la tipica strategia discorsuale utilizzata dai sionisti per delegittimare gli ebrei antisionisti: riducendo una presa di posizione politica a mero sintomo irrazionale di una presunta patologia psichica, si evita di affrontarne le argomentazioni logiche e politiche (38) ; Bensoussan infatti non trova nessun argomento reale da opporre a quanto scriveva Montagu, né può trovarlo, perché l’affermazione di quest’ultimo era una semplice constatazione: non a caso una delle prime proposte di istituzione di uno Stato ebraico in Palestina era stata avanzata da un antisemita, l’ungherese Viktor Istoczy, alla Conferenza di Berlino del 1878 (39) . Riassumendo la posizione degli ebrei antisionisti dei primi anni del Novecento, lo storico polacco Isaac Deutscher scrive che per essi “l’antisemitismo trovava il suo trionfo nel sionismo, il quale in pratica ammetteva come legittimo e valido il vecchio grido di «Ebrei, andatevene!». I sionisti, infatti, accettavano di andarsene”(40).
La conseguenza politica del rapporto di complementarità ideologica e politica tra sionismo e antisemitismo fu che Herzl e i suoi successori cercarono alleati soprattutto tra i politici europei antisemiti. Si capisce ora perché tutta la storia del sionismo sia costellata di patti e “relazioni pericolose” con eminenti antisemiti: dagli incontri di Herzl con il Kaiser Guglielmo II e con il ministro degli Interni russo von Plehve al sostegno di Arthur Balfour, feroce oppositore dell’immigrazione ebraica in Gran Bretagna
oltre che autore della celebre dichiarazione che garantiva ai sionisti l’appoggio di Londra nella costruzione del loro “focolare nazionale” in Palestina; dall’accordo antibolscevico siglato nel 1921 da Žabotinskij con il massacratore di ebrei ucraino Petljura ai flirt con i governi antisemiti polacchi e con l’Italia fascista (41), dagli accordi del 1933 e del 1938 con la Germania nazista fino alla campagna bombarola del 1950-51 contro la comunità ebraica irachena (una serie di attentati compiuti da una rete clandestina sionista ma attribuiti a fanatici locali, i quali ebbero la funzione di convincere gli ebrei iracheni che il paese mesopotamico non era più sicuro per loro e che dovevano emigrare in Israele) (42) : non si trattava né di malvagità né di opportunismo di singoli leader, bensì della necessità intrinseca del sionismo di servirsi degli antisemiti per spingere gli ebrei diasporici più recalcitranti ad emigrare in Palestina prima e in Israele poi. Un personaggio come l’esponente del Likud Moshe Feiglin, il quale non ha pudore nel tessere le lodi di Hitler, non è quindi un caso isolato di follia, bensì l’ultimo rappresentante di una lunga ed illustre lista.
Il debito ideologico del sionismo nei confronti dell’antisemitismo trova la sua massima incarnazione nella Legge del Ritorno del 1950 (cui sono stati aggiunti emendamenti nel 1954 e nel 1970) (43) , autentica pietra miliare dello Stato di Israele perché stabilisce il diritto di ogni ebreo a stanziarsi sul suo territorio e ad acquisirne la cittadinanza attraverso una semplice domanda, facendo di Israele non semplicemente lo Stato degli ebrei residenti in Palestina, bensì lo Stato di tutti gli ebrei del mondo. Detta legge, che definisce come ebrea “una persona che è nata da madre ebrea oppure si è convertita all’ebraismo e non è affiliata ad un’altra religione” (44) , estende il diritto a “ritornare” anche ai coniugi di un/a ebreo/a e a quanti hanno almeno un ebreo fra i quattro nonni, “fatta eccezione per una persona che è stata ebrea e si è volontariamente convertita ad un’altra religione” (45). È in questa definizione degli aventi diritto alla cittadinanza che la Legge del Ritorno manifesta le tracce della genealogia ideologica del sionismo, giacché i legislatori, non riuscendo a trovare una definizione di “ebreo” che potesse andare al di là di quella religiosa, hanno fatto ricorso a quella fornita dagli antisemiti: rientrano infatti tra i beneficiari della Legge tutti quelli che sarebbero stati considerati “ebrei” o “meticci” dalle famigerate Leggi naziste di Norimberga del 1935. In sostanza, la Legge del Ritorno è un calco a negativo delle Leggi di Norimberga. “Questa legge – ha appropriatamente detto in un’intervista l’ex-dirigente laburista israeliano Avraham Burg – è uno specchio che riflette l’immagine di Hitler, e io non voglio che sia Hitler a definire la mia identità” (46).
Alla luce di tutto questo, il sillogismo che equipara l’antisionismo all’antisemitismo risulta basato su premesse mendaci e su altrettanto mendaci conclusioni. Osserva a riguardo Judith Butler che Il mancato riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele può essere interpretato come un mancato riconoscimento del diritto all’esistenza del popolo ebraico solo se si pensa che Israele sia l’unica cosa che tiene in vita il popolo ebraico, o se si ritiene che tutto il popolo ebraico abbia affidato allo Stato di
Israele [...] l’esclusiva responsabilità della propria perpetuazione.(47)
Ma è evidente che Israele non è l’unica cosa che tiene in vita il popolo ebraico: questa possibilità è contraddetta dalla stessa narrazione sionista secondo la quale il popolo ebraico per 2000 anni non avrebbe mai cessato di voler ‘tornare’ in Palestina: se il popolo ebraico è sopravvissuto per 2000 anni senza Stato, uno Stato ebraico non è evidentemente una conditio sine qua non per la sua sopravvivenza (48). Inoltre se antisemitismo e antisionismo fossero la stessa cosa, osserva Isaac Deustcher, “allora gli ebrei esteuropei, nella loro stragrande maggioranza, non erano che degli antisemiti: una conclusione ovviamente assurda” (49) .
Beninteso, l’antisemitismo può anche essere antisionista, ma finché esso mira alla ‘pulizia etnica’ nei confronti degli ebrei e alla loro espulsione verso la Palestina, esso è stato e sarà sempre un alleato oggettivo dei sionisti. Questo non toglie che, di fronte alla prospettiva dello sterminio molti sionisti abbiano partecipato individualmente o come sezioni locali di organizzazioni internazionali alla resistenza antinazista (c’è l’esempio della Brigata Ebraica palestinese inquadrata nelle armate alleate): il caso di Mordechai Anielewicz, giovanissimo militante di Ha Shomer Ha Tza’ir ed eroico comandante della rivolta nel ghetto di Varsavia, è certamente il più noto, ma non l’unico. Non si tratta di negare o svalutare questo contributo, ma di rendersi conto che esso ebbe luogo a dispetto della posizione del movimento sionista in generale, e non grazie ad esso. È importante dirlo e ribadirlo, perché la tendenza oggi egemone è quella dell’appropriazione nazionalistica da parte israeliana della resistenza ebraica allo sterminio: il ruolo dei sionisti in quest’ultima viene enfatizzato oltre misura, e specularmente viene invece minimizzato il contributo del Bund, dei comunisti e più in generale dei non-sionisti; emblematico il caso di Marek Edelman, vicecomandante della rivolta del ghetto di Varsavia e all’epoca militante del Bund, il cui libro sull’insurrezione ha dovuto attendere cinquantasei anni prima di essere pubblicato in ebraico, perché contraddiceva la versione dei fatti propagata dall’establishment israeliano (50). Parallelamente, invece, si tende a tacere il ruolo dei dirigenti sionisti che collaborarono attivamente allo sterminio in qualità di dirigenti degli Judenräte o dei corpi di polizia ebraica dei ghetti (fra i casi più importanti, vanno ricordati quelli di Chaim Rumkowski, Jacob Gens, Ephraim Barasz, Salek Desler, Moses Merin, Abraham Gancwajch) (51): un esempio emblematico di questa rimozione è il Dizionario dell’Olocausto di Walter Laqueur, che nelle voci dedicate a Gens, Rumkowski e Merin tace sistematicamente la loro appartenenza a questa o quella corrente sionista.
È quindi paradossale, alla luce di tutto questo, che oggi lo Stato di Israele possa arrogarsi il ruolo di guardiano della memoria della Shoah e di garante della democraticità e dell’antifascismo di personaggi come Fini, tanto più che l’appropriazione in chiave nazionalistica della memoria dello sterminio degli ebrei va di pari passo con la minimizzazione o la negazione di altri stermini: lo Stato di Israele infatti non solo non ha riconosciuto il genocidio degli armeni da parte dei turchi durante la Prima Guerra
Mondiale, ma addirittura il suo presidente Shimon Peres ha definito tale genocidio come mere “chiacchiere” e ha affermato che il numero dei morti armeni era “insignificante” (52). Inoltre, presentandosi come erede delle vittime dello sterminio e presunto garante dell’antifascismo, lo Stato di Israele si pone in una posizione discorsiva che gli permette di etichettare automaticamente i suoi nemici come nazisti e antisemiti: come spiega Idith Zertal, La nazificazione del nemico, quale che sia, e la trasformazione delle minacce alla sicurezza in pericolo di annientamento dello Stato, sembrano aver caratterizzato, salvo rare eccezioni, il discorso dell’élite politica, sociale e culturale israeliana. (53)
In questa visione ideologica e paranoica del mondo i vari Haj Amin al- Husayni, Gamal Abdel Nasser, Yasser Arafat, Saddam Hussein, Mahmud Ahmadinejad sono stati tutti in vari momenti dipinti come altrettante reincarnazioni di Hitler, come se la storia non consistesse in altro che in un’eterna ripetizione della Seconda Guerra Mondiale, senza alcun tipo di contestualizzazione storica concreta. Viceversa, i sionisti e i loro sostenitori si irritano terribilmente quando qualcuno paragona il modus
agendi delle forze armate dello Stato di Israele a quello dei nazisti, ma non trovano nulla da ridire invece se un alto ufficiale israeliano dichiara pubblicamente che Tsahal deve prendere esempio dalla tattica utilizzata dalla Wehrmacht nel ghetto di Varsavia (54 ): vale la pena ricordare a questo proposito che i primi ad equiparare il comportamento di Tsahal a quello dei nazisti furono proprio alcuni ministri del primo governo israeliano (55).
Analizzare criticamente questo passato di collusione tra sionismo e antisemitismo diventa quindi una necessità non solo di chiarezza storica, ma anche e soprattutto di demistificazione ideologica, onde rendere possibile una critica radicale del sionismo. Certamente questo spiacerà a molti, ma come ha ammonito a suo tempo Isaac Deutscher, “Gli israeliani [...] dovrebbero anche abituarsi all’idea che il loro stato non è esente da critiche: esso è un’opera terrena, non una sacra entità biblica, non uno
stato nazionale ‘eletto’ ” (56).
NOTE
1 Theodor Herzl, The Diaries of Theodor Herzl, trad. inglese e cura di M. Lowenthal, New York, Dial Press, 1956, p. 7 (traduzione mia).
2 Riportato in Georges Bensoussan, Il sionismo. Una storia politica e intellettuale: 1860-1940, 2 voll., trad. it. di M. Guerra, Torino, Einaudi, 2007 [2002], p. 409.
3 Riportato in Francesco Verderami, “Fini ad Auschwitz: ‘L’ orrore più grande’ ”, Corriere della sera, 20 febbraio 1999, <http://archiviostorico.corriere.it/1999/febbraio/20/Fini_Auschwitz_orrore_piu_grande_ co_0_9902203335.shtml>.
4 Nathan Weinstock, Storia del sionismo, 2 voll. trad. it. di N. De Vito e P. Sinatti, Roma, Samonà e Savelli, 1970 [1969], p. 136.
5 Tom Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, trad. it. di C. Lazzari, Milano, Arnoldo Mondadori, 2001 [1991], p. 182.
6 Idith Zertal, Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia, trad. it. di P. Arlorio, Torino, Einaudi, 2007 [2002], p. 89.
7 Riportato in Tom Segev, op. cit., p. 307.
8 Ibidem.
9 Riportato in Tom Segev, op. cit., p. 18.
10 Riportato in Tom Segev, ibidem.
11 Ibidem. Sull’accordo della haavarah si vedano anche Hannah Arendt, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, trad. it. di P. Bernardini, Milano, Feltrinelli, 2005 [1963], p. 68, e Faris Yahia, Relazioni pericolose: il movimento sionista e la Germania nazista, trad. it. di F. De Leonardis, Napoli, La Città del Sole, 2008 [1978], pp. 45-52.
13 Faris Yahia, op. cit., pp. 111-15.
14 I verbali degli incontri si trovano in appendice a Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1993 [1961], pp. 512-24.
15 Riportato in Renzo De Felice, op. cit., p. 159.
16 Il testo completo delle relazioni di Corrado Tedeschi sulla sua missione in Palestina si trova in Renzo De Felice, op. cit., pp. 526-31.
17 Riportato in Renzo De Felice, op. cit., p. 526.
18 La colpa dell’insuccesso venne infatti attribuita al solito “complotto giudaico” (tradizionale topos antisemita), generando le prime frizioni con i sionisti revisionisti.
19 Riportato in Renzo De Felice, op. cit., p. 187.
21 Cfr. Tom Segev, op. cit., pp. 237-67 e Faris Yahia, op. cit., pp. 53-64 e 91-9.
22 Tom Segev, op. cit., p. 19.
23 Ibidem.
24 Hannah Arendt, op. cit., p. 48.
25 Cfr. David J. Goldberg Verso la Terra promessa. Storia del pensiero sionista, trad. it. di P. Giordano, Bologna, Il Mulino, 1999 [1996], pp. 219-56 per una puntuale
critica del revisionismo di destra come versione sionista del fascismo.
26 Riportato in Tom Segev, op. cit., p. 22 e sgg.
( 27 ) In realtà, fra il nazionalismo ebraico del Bund e quello sionista sussiste un’altra sostanziale differenza: se i bundisti identificavano empiricamente nella lingua yiddish il segno che determinava il carattere di minoranza nazionale, e non solo religiosa, della popolazione ebraica dell’impero zarista (e quindi identificavano nazione ebraica e yiddishkeit, cfr. Georges Bensoussan, op. cit., p. 402-3 e Ilan Greilsammer, Il sionismo, trad. it. di R. Riccardi, Bologna, Il Mulino, 2007 [2005], pp. 50-1), i sionisti miravano invece alla rinascita nazionale attraverso il revival della lingua ebraica, che comportava l’abbandono delle lingue diasporiche – definite dal fondatore del sionismo politico Theodor Herzl, che invece auspicava che il sionismo facesse propria una lingua “maggiore” come il tedesco, “lingue del ghetto […] idiomi atrofizzati e limitati […] lingue di prigionieri che le avevano rubate” (Theodor Herzl, Lo Stato ebraico, trad. it. di T. Valenti, prefazione di G. Lerner, Genova, Il Melangolo, 2003 [1896], p. 90) – e una cancellazione dei tratti culturali e psicologici identificati come “tipici” della diaspora, in favore della costruzione di un nuovo homo Hebraicus.
( 28) Si può citare ad esempio lo storico e pensatore ebreo russo Shimen Dubnov (1860-1941) che pur essendo antisionista era anch’egli un nazionalista ebraico (proponeva l’autonomia degli ebrei all’interno dei paesi in cui vivevano); a differenza dei militanti del Bund, però, Dubnov non identificava l’ebraicità con il solo mondo yiddish, ma vi includeva tutti gli ebrei del mondo (cfr. Georges Bensoussan, op. cit., pp. 401-11 e Ilan Greilsammer, op. cit., pp. 52-3). Per quanti aderivano al nazionalismo ebraico dubnoviano gli ebrei erano sì una minoranza nazionale nei paesi dove vivevano, ma una minoranza nazionale autoctona, cosa che implicava, a differenza del sionismo, la lotta contro l’antisemitismo e per il riconoscimento dei propri diritti nazionali in loco.
( 29) Sulle radici culturali del sionismo, che nella sua fase iniziale, come tutti i nazionalismi, trovò espressione soprattutto in ambito letterario e giornalistico e fu da subito legato alla rinascita della lingua ebraica, si rimanda a George Bensoussan, op. cit., pp. 3-126.
30 Theodor Herzl, op. cit., p. 23.
31 Theodor Herzl, op. cit., p. 34.
32 Theodor Herzl, op. cit., p. 100.
33 Theodor Herzl, op. cit., p. 39.
34 Theodor Herzl, op. cit., p. 69.
35 Nathan Weinstock, op. cit., p. 50. E infatti gli articoli di Herzl trovarono accoglienza sulle colonne del quotidiano antisemita La libre parole (ibidem).
36 Riportato in Georges Bensoussan, op. cit., p. 416.
37 Ibidem. Da notare che nella retorica sul presunto “odio di sé” è implicita l’equazione tutta ideologica tra sionismo ed ebraismo: se si ritiene che un/a ebreo/a,
prendendo posizione contro il sionismo, stia manifestando odio per la propria ebraicità, è sottinteso che il sionismo metonimicamente stia per l’ebraismo nella sua
interezza; poiché tuttavia l’ebraismo non può in nessun modo essere ridotto al sionismo, risulta palese l’inconsistenza delle premesse su cui si basa la retorica sul presunto “odio di sé”.
38 Un altro esempio tipico è quello di Robert Wistrich, che nella voce “Negazionismo” del Dizionario dell’Olocausto curato da Walter Z. Laqueur (ed. it. a cura di A. Cavaglion, trad. it. di A. Bassan Levi, G. Cantoni De Rossi, L. Pellissari, E. Recchia, A. Serafini, Torino, Einaudi, 2004 [2001], p. 501) include arbitrariamente tra i negazionisti l’autore di Zionism in the Age of Dictators (London, Croom Helm, 1983) Lenni Brenner, sostenitore a suo parere di una “tesi delirante, che [...] comportava una revisione radicale dei tragici eventi della seconda guerra mondiale”:
la “tesi delirante” di Brenner in realtà non comportava nessuna revisione storica se non quella del mito nazionalista che presenta il sionismo come irriducibile avversario
del nazismo; quanto affermava Brenner era né più né meno che un dato di fatto, ossia che i sionisti avessero fatto dei patti con i nazisti prima della guerra e che in seguito “avessero cinicamente approfittato dell’Olocausto anche dopo che i loro capi avevano colluso con i nazisti nel genocidio degli ebrei” (ibidem). Definendo la tesi di Brenner “delirante” Wistrich retoricamente evita di affrontare l’argomentazione dello studioso americano (che essendo ebreo è difficilmente tacciabile di antisemitismo), sancendone la pertinenza nell’ambito della psichiatria. Ma è lo stesso Wistrich a confermare involontariamente l’arbitrarietà dell’inclusione di Brenner tra
i negazionisti, quando afferma nella stessa frase che “Più che di una negazione dell’Olocausto si trattava di una tesi delirante” (ibidem). Brenner, in realtà, nel suo libro non nega affatto l’Olocausto.
39 Georges Bensoussan, op. cit., p. 397.
40 Isaac Deutscher, L’ebreo non ebreo e altri saggi, a cura di T. Deutscher, trad. it. di F. Franconeri, Milano, Arnoldo Mondadori, 1969 [1968], p. 82. A questo proposito è indicativo un parallelo con quanto avvenuto di recente in Italia: uno dei più esagitati istigatori della pulizia etnica contro i rom, il segretario nazionale della
Fiamma Tricolore Luca Romagnoli (un fascista dichiarato), ha proposto al parlamento europeo la creazione di uno Stato rom in Europa orientale.
41 Tom Segev, op. cit., p. 24; Georges Bensoussan, op. cit., p. 1246.
42 Ilan Pappé, A History of Modern Palestine. One Land, Two Peoples, Cambridge, Cambridge UP, 2004, p. 177; David Hirst, Senza pace. Un secolo di conflitti in Medio Oriente, trad. it. di G. Lupi, San Lazzaro di Savena (Bo), Nuovi Mondi Media, 2004 [1977], pp. 204-11.
43 Il testo completo della Legge del Ritorno è reperibile in inglese sul sito della Knesset all’URL <www.knesset.gov.il/laws/special/eng/return.htm>.
44 The Law of Return 5710 (1950), Section 4B < www.knesset.gov.il/laws/special/eng/return.htm > (nostra traduzione).
45 The Law of Return 5710 (1950), Section 4A < www.knesset.gov.il/laws/special/eng/return.htm > (nostra traduzione).
46 In Ari Shavit, “Leaving the Zionist Ghetto” [intervista con Avraham Burg], Ha’aretz, June 9, 2007.
47 Judith Butler, op. cit., pp. 137-8.
48 Questo a prescindere dal carattere ideologico di detta affermazione, la quale presuppone l’esistenza di un solo popolo ebraico, astraendo dalle particolarità storiche delle molteplici esperienze dell’ebraismo e costruendolo come un soggetto omogeneo ed etnicamenente “puro” (come se tutti gli ebrei contemporanei fossero i discendenti degli antichi Ebrei, ignorando le conversioni che ebbero luoghi in diversi luoghi e tempi), laddove si tratta invece, secondo un classico procedimento nazionalista, della costruzione discorsiva di una “comunità immaginata” (cfr. Benedict Anderson, Imagined Communities, London-New York,Verso, 2006 [1983]). Risulta invece assai più rispondente al vero l’affermazione del rabbino e storico del pensiero sionista David J. Goldberg, secondo la quale l’idea che gli ebrei fossero una nazione è un mito, giacché gli ebrei “erano, e sono, diversi popoli ebraici” (David J. Goldberg, op. cit., p. 305).
49 Isaac Deutscher, op. cit., p. 82. Secondo Georges Bensoussan (op. cit., p. 405), nel 1898 i membri del movimento sionista erano circa 100.000, ossia solo l’1% degli ebrei del mondo.
50 Idith Zertal, op. cit., p. 27 e sgg.
51 Cfr. Faris Yahia, op. cit., pp. 65-90
52 Riportato in Norman G. Finkelstein, L'industria dell'Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, trad. it. di D. Restani, Milano, Rizzoli, 2002 [2000], p. 114.
53 Idith Zertal, op. cit., p. 185.
54 Riportato in Norman G. Finkelstein, ibidem.
55 Si trattava del ministro dell’Agricoltura Aharon Cisling, il quale nella riunione del governo del 17 novembre 1948, a proposito di alcuni massacri commessi dalle truppe israeliane ai danni di civili palestinesi, dichiarò di non riuscire a dormire la notte al pensiero che degli ebrei avessero “commesso delle azioni naziste” (riportato in Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem Revisited, Cambridge, Cambridge UP, 2004, p. 488, nostra traduzione).
56 Isaac Deutscher, op. cit., p. 141.