Luciano Granieri, operatore Cittadinanzattiva Tribunale per la difesa dei Diritti del Malato
E' da poco trascorso un 25 aprile in cui il senso della
resistenza e della liberazione si è diluito in analogie improprie,
quanto non storicamente azzardate, con vicende belliche estere. Ciò
ha tolto dallo scenario storico-politico quegli elementi, passati ed attuali, certamente
fastidiosi per l'establishment economico e mediatico
massivamente asservito. Mi riferisco alla lotta al nazifascismo, e il grande
sforzo di resistenza che gran parte della popolazione italiana,
nativa ed immigrata, consapevolmente, o inconsapevolmente, ingaggia
tutti i giorni, per assicurarsi un minimo di vita dignitosa, a
cominciare dal diritto a non ammalarsi.
Proprio su questo fronte
vorremmo porre qualche riflessione, in una fase di post pandemia
acuta. Ci limiteremo alla nostra realtà territoriale: provincia di
Frosinone e Regione Lazio. Quella, cioè, che come Cittadinanzattiva ,
Tribunale per la Difesa dei Diritti del malato di Frosinone, abbiamo
avuto, e abbiamo, maggiormente sotto gli occhi, nonostante una ripresa
della attività ancora non a pieno regime.
Lo stato dell'arte
A conferma di quanto la sindemia ha messo in luce, cioè l’inadeguatezza della sanità privata nel gestire, non solo la crisi del
Covid, ma anche la normale cura delle patologie - a meno che esse non
siano altamente remunerative - durante la nostra attività abbiamo
ricevuto, fra le altre, due segnalazione gravi di malasanità,
proprio a carico di strutture private accreditate, una di Fiuggi e
l’altra di Sora. Nel primo caso ci è stata segnalata la supposta
scarsa cura di un degente anziano, il quale, accusava, al momento del
ricovero in una Rsa della città termale nel 2021, patologie
neurologiche.
A causa della pandemia, le visite dei parenti erano state interdette, con il personale sanitario che rassicurava i familiari
sulle buone condizioni del paziente. Nonostante ciò, dopo tre mesi
di degenza, l’anziano veniva trasferito d’urgenza presso il
pronto soccorso di Alatri in stato soporoso con dispnea e tachipnea,
presenza di piaghe da decubito nella zona lombo sacrale. Nel
frangente si è resa urgente “l’aspirazione di secrezioni
tracheobranchiali dense con numerose concrezioni” (relazione del
P.S. di Alatri), operazione inspiegabile a seguito dell’intervento di un
impianto Peg, eseguito precedentemente al policlinico Tor Vergata per agevolare la
nutrizione del degente. Proprio ad Alatri il paziente è deceduto, dopo che lo
stesso personale medico del pronto soccorso aveva rilevato le
gravi mancanze terapeutiche sopra descritte.
Nel secondo caso una
signora ci ha denunciato il mancato intervento di rimozione della
safena, necessario alla risoluzione di una patologia tromboflebitica, a cui si era sottoposta presso una struttura privata accreditata di Sora. Operazione in teoria effettuata, come da regolare degenza e decorso terapeutico, e come riportato anche nella cartella clinica. Però, a seguito
di sintomi persistenti post operatori, la paziente si sottoponeva ad ulteriori esami diagnostici, presso la casa della salute di
Pontecorvo e presso l’ospedale San Raffaele di Cassino, dai quali
risultava ancora la presenza della vena in sito, sconfessando quanto
scritto nella stessa cartella clinica rilasciata dalla struttura sorana e soprattutto ignorando a quale intervento sia era realmente sottoposta. Sottolineiamo che per questo secondo caso è stato interessato il
legale dell’associazione, in quanto, se tutto ciò venisse
accertato, si prefigurerebbe, oltre al danno per il paziente, anche
un danno per la Asl e per la comunità, che avrà pagato per un
intervento mai effettuato.
A queste due gravi mancanze, si aggiungono
le peripezie ordinarie di chi deve prenotare una prestazione
diagnostica. Con file interminabile al Cup e pianificazione delle
visite ambulatoriali a distanza di anni, spesso non corrispondenti
con la data degli esami diagnostici, posticipati rispetto al giorno
della visita, e quindi inutili. Da anni sollecitiamo la Asl ad aggiornare i software in
modo che le visite di controllo, la cui data è fissata dallo
specialista, non debbano essere vidimate dal Cup, sollevando il
paziente da un disagio inutile. Ricordiamo che questa è una
prescrizione inserita nel Piano Regionale per il Governo delle Liste
d’Attesa 2019-2021, a cui la Asl di Frosinone non si è ancora
conformata.
A questi casi, relativi alla provincia di Frosinone, si può
aggiungere quanto avvenuto presso l’Ospedale S.Andrea di Roma, dove
una paziente disabile è rimasta in attesa per ore fuori al pronto
soccorso, in ambulanza, al freddo, in attesa di essere presa in carico
dalla struttura. Ciò a causa dell’insufficienza del personale medico presente in organico.
Indigna la mancanza di 357 medici nei pronto soccorso del Lazio ed una carenza di personale infermieristico
insostenibile. Quelli sopra ricordati non sono che una piccola
testimonianza di uno stato critico della sanità , in provincia di
Frosinone, nel Lazio, ma anche in tutta Italia.
Il toccasana dei soldi europei. Toccasana per chi?
Ma non bisogna preoccuparsi. A risolvere tutto ci penserà il PNRR,
con i soldi derivanti dalla misura 6 dedicata alla sanità
territoriale. Il dispositivo andrà licenziato entro giugno per non perdere i
fondi della Ue. A tale scopo è pronto un decreto governativo approvato dalla conferenza Stato-Regioni, contraria la sola la Campania. Cosa prevede? Si basa sulla pianificazione di strutture di prossimità, in particolare
di centrali operative territoriale il cui fulcro è costituito dalle
Case di Comunità (Cdc).
Una buona soluzione se non fosse che non vengono
stabiliti gli standard di livello assistenziale che esse dovrebbero
assicurare. Spieghiamo meglio: lo standard del personale ipotizzato
in queste strutture è di 7/11 infermieri, un assistente sociale, 5/8
unità di personale socio sanitario e amministrativo.
Le Case di
Comunità più grandi, centrali (hub) dovrebbero erogare servizi
diagnostici ed ambulatoriali, assicurate da equipe multi
professionali e specialistiche. Già. Dovrebbero!.
Infatti nel
decreto è scritto quanto segue: “La Cdc hub garantisce la
presenza dei seguenti professionisti nell’ambito di quelli
disponibile a legislazione vigente, anche attraverso interventi di
riorganizzazioni aziendale”. Tradotto: non ci sono le risorse
per assumere nuovo personale sanitario, per cui le Case di Comunità
dovranno essere gestite da quello già in organico. Le strutture
andranno inserite nel programma della attività territoriali che,
come si legge “determina le risorse per l’integrazione
socio-sanitaria a carico delle aziende sanitarie e dei comuni” Cioè
dovranno essere le singole Asl ed i Comuni a contribuire. Ma noi
sappiamo che le Aziende Sanitarie hanno possibilità diverse in
base alla regioni di residenza e ciò aumenterà le disparità fra territori, con buona pace dell’universalità del
sistema sanitario nazionale. Gli stessi Comuni non hanno un centesimo
perché sono, per la maggior parte, in dissesto o predissesto, in
ossequio al patto di stabilità interno, mai abrogato neanche durante
la pandemia .
E allora come si fa ad assicurare le prestazioni
pomposamente annunciate? Semplice Non si assicurano.
Infatti nel decreto la
presenza infermieristica è solo “fortemente consigliata”. I consultori, le vaccinazioni ai minori (0-18 anni) e gli screening sono facoltativi. I servizi per la
salute mentale sono solo consigliati, senza “fortemente”.
Per quanto concerne la Case di Comunità periferiche (spoke)
dovrebbero assorbire gli studi associati dei medici di famiglia, con
orari di apertura più estesi. Oggi sono in servizio 42 mila, medici
di base, un numero assolutamente insufficiente che andrà
ulteriormente a diminuire visto che, secondo i calcoli
dell’Università Cattolica, entro il 2028 se ne perderanno tra i
novemila e i dodicimila, per prepensionamenti e mancato turnover.
Inoltre l’ulteriore impiego dei medici di famiglia nelle Case di
Comunità è tutto da definire, perché, lo ricordiamo, questi
professionisti non sono alle dirette dipendenze del Sistema Sanitario
Nazionale, ma costituiscono un’organizzazione professionale privata
in convenzione, e l’impiego nelle strutture di prossimità, inteso
come prestazione aggiuntiva alla normale attività, con turni
assimilabili ai medici ospedalieri, che comprendono anche l’impiego
durante i week end, deve essere ancora discusso con la Fimmg,
l’associazione che li rappresenta.
I soldi ci sono?
Tornando ai soldi del PNRR, nella prima versione stilata dal governo Conte bis, si stanziavano 4
miliardi di euro per la realizzazione di 2564 case di comunità.
Nella versione definitiva, quella del governo Draghi, tutto è stato
dimezzato, vincolando alla realizzazione delle infrastrutture, cioè
alle mura, l’erogazione dei fondi. Per quanto concerne il personale
le Regioni potranno attingere solo ai 94 milioni di euro stanziati a
marzo 2020 per gli infermieri di comunità. Il resto delle
assunzioni dovrà essere fatto “senza nuovi o maggiori oneri a
carico della finanza pubblica”. Così è scritto.
Giova ricordare che, nonostante
la pandemia, il Def 2022 prevede che la spesa sanitaria cali dal 7%
al 6,2% del Pil nei prossimi tre anni. Invece, come sappiamo, le spese per
gli armamenti devono aumentare in ossequio al nostro servilismo verso
la Nato, o molto più semplicemente verso i mercanti d’armi, i cui
manager, siedono bellamente nei consigli d’amministrazione di
tante multinazionali e dei maggiori giornali del pensiero unico.
Un enorme regalo alla sanità privata
A
questo punto la domanda è: come incideranno le norme di questo
decreto sul servizio sanitario? Le nuove strutture da realizzare per
avere i soldi europei, rimarranno vuote? Perchè non sono previsti
contemporaneamente investimenti per l’assunzione di nuovo personale
sanitario? .
La risposta è semplice. Per dotare le Case di Comunità del personale necessario si
ricorrerà al subappalto verso imprese private, che già hanno dato
ampia dimostrazione della loro inefficienza, dovuta al perseguimento
del profitto piuttosto che della salute dei pazienti.
In pratica con
i soldi del PNRR si costruiranno confortevoli strutture da mettere a
disposizione delle imprese sanitarie private le quali spunteranno
sontuosi contratti di convenzione, a totale danno del sistema
pubblico, non risolvendo il problema delle liste d’attesa, né di
tutte le altre criticità che stanno minando un SSN il quale, nonostante le sue problematiche ha limitato, e di molto, le
conseguenze della pandemia.
La piaga del decreto concorrenza
Se poi
consideriamo che nel decreto concorrenza, approvato dal consiglio dei
ministri ed in discussione in Parlamento, le nuove norme per
l’accreditamento delle strutture sanitarie private, richiedono una semplice descrizione, rilasciata dalla stessa organizzazione, attestante la
conformità delle attività per ottenere la convezione, eliminando
il periodo di esercizio provvisorio, in vigore nella precedente
legislatura, in cui si misuravano le reali capacità della struttura
ad operare secondo i requisiti necessari all’accreditamento
definitivo, ecco che si completa l'entità dell'enorme regalo alle imprese private, nonostante la pandemia abbia
insegnato altro.
Forse una prima forma di resistenza vera, comune e
condivisa, dovrebbe essere quella di lottare per la difesa di un sistema sanitario
pubblico il cui interesse sia la salute dei cittadini e non il
profitto dei grandi interessi privati.
Ma bisognava pensarci
prima. Prima di mettere un banchiere, difensore degli interessi
della comunità finanziaria, alla guida del nostro governo. Oggi non è
impossibile resistere ma è molto più difficile. Un primo passo
potrebbe essere contrastare e denunciare fortemente l’aumento delle spese
militari a fronte di una diminuzione delle spese per sanità e
scuola.
Certo in Ucraina la gente muore per una guerra insensata, ma
anche da noi molti muoiono perché non hanno i soldi per curarsi.
Prima di finanziare strumenti di morte sarebbe il caso di finanziare
strumenti di vita.