L’intenso rapporto tra Pier Paolo Pasolini e il calcio, atto di “estrema resistenza” la centro di un convegno Casarsa, sui campi dove il poeta tirò i primi calci a scoprì l’amore nel quale vedeva l’utopia della pienezza umanistica
“Fermate, a Pa’, dà du’ carci co' nnoi” E’ un richiamo ancestrale quello che lanciano a Pier Paolo Pasolini alcuni ragazzi della borgata dai nomi inconfondibili. Giorgio, Giannetto, Carlo, il Moro. La borgata è il Trullo, mentre i versi ( poi nella raccolta “Poesia in forma rosa”, Garzanti 1964) portano la data del 6 marzo 1963 come fossero note di diario. Pasolini ha compiuto il giorno prima quarantuno anni , vive a Roma da tredici, è non solo un poeta e un narratore riconosciuto dalla èlite, ma ormai un regista famoso (reduce per altro da due capolavori “Accatone” e “La ricotta” ) così come un uomo pubblico decisamente controverso, sospetto a sinistra per la sua omosessualità e per il marxismo eterodosso, linciato dalla destra per i medesimi motivi, comunque pluriprocessato dentro e fuori dalle aule giudiziarie dalla stessa società che il suo genio di antrolplogo prende a leggere nei termini dello Sviluppo senza Progresso, illusa dal boom economico che tuttavia la stravolge nei modi sia del Genocidio delle antiche culture popolari e particolaristiche sia dell’Omologazione al consumismo neocapitalista: dieci anni dopo, negli “Scritti Corsari”, nelle pagine clandestine di “Petrolio” e nel terrificante testamento di “Salò” , darà ad un simile contesto il nome glaciale di Universo Orrendo. Quei ragazzi che lo invitano a giocare rinnovando una cara consuetudine , non sono solamente i testimoni fisici di un mondo popolare presto liquidato o retrocesso a preistoria ma sono i complici del gioco in cui resiste agli occhi del poeta la nostalgia o l’utopia della pienezza umanistica, ovvero la conciliazione naturale di anima e corpo, quasi una laica eucaristia che venga spartita tirando due calci a un pallone. Chi ha raccolto meritoriamente le pagine che lo scrittore ha dedicato al calcio (cioè Valerio Piccioni) in “Quando gioca Pasolini, Calci, corse e parole di un poeta” Limina 1966) scandisce in tre episodi e in tre fisionomie gli sviluppi della sua passione: prima c'è il piccolo tifoso del Bologna anni trenta (lo squadrone pluriscudettato di Schiavo e Biavati, Ceresoli e Andreolo), colui che gioca a calcio ogni giorno e per ore sui prati di Caprara, un’ala destra d’altri tempi, minuta e velocissima, che gli amici battezzano “Stukas” : poi il ventenne del Friuli materno, in divisa regolamentare, sui terreni di Casarsa o San Giovanni: infine il quarantenne e cinquantenne che decine di foto ritraggono nei campetti della periferia romana, con indosso la maglia del Bologna, per una partitella fra amici o nelle dispute tra cinematografari/giornalisti/cantanti dove pare prodigasse l’impegno e persino la tigna acrimoniosa dell’antica passione (come attesta in più luoghi “l’Album Pasolini” a cura di Mario Desiati, Oscar Mondadori 2005). Non soltanto Pasolini legge il gioco da vero intenditore ( un suo celebre articolo utilizza, infatti, la semiologia di Roland Barthes per fornire una grammatica della prosa e della poesia calcistica) ma ritiene paradossalmente la partita come l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, l’unico evento capace di commemorare la tragedia greca e dunque di investire la totalità della Polis. E’ probabile che nella plasticità del gioco, nella trama armoniosa di un’azione , nella semplice bellezza di un gol, egli individuasse da un lato la completezza delle forma d’arte e dall’altro, specialmente, un gesto di perfezione etimologica, in grado di sottrarsi al principio di prestazione e agli automatismi della mercificazione: è quanto Bataille aveva definito la “dèpense” l’atto di nudo spreco o di grazia allo stato puro. Che giocare al calcio fosse per Pasolini un atto di estrema resistenza umanistica lo testimonia un romanzo tra i più singolari, si dica pure tra i più appassionati, dello scorso decennio, “Futbol bailado” di Alberto Garlini (Sironi 2004) , un testo di quasi cinquecento pagine la cui intramatura complessa, sorretta da un’isoirazione magnanima, è solo relativamente ipotecata dalle didascalie d’epoca. L’incipit è la famosa partita (l’ultima di Pasolini) che disputarono a Parma nel marzo del 75’ la troupe di “Salò” e quella di “Novecento” capitanata da Bernardo Bertolucci: qui, alla maniera di una docufiction di impianto polifonico, ma senza concedere nulla alle lusinghe o alle facili astuzie del cosiddetto postmoderno, si diramano due differenti romanzi di formazione, i quali si intrecciano sia alla cadenza frenetica, ultimativa e/o distruttiva, che scandisce gli ultimi mesi di vita del poeta, sia ai passaggi di fase più cruciali della storia italiana recente: l’uno è l’apprendistato di un campione, Francesco, che viene progressivamente meno agli obblighi della carriera per ritrovarsi a immolarsi nella gratuità del gioco primordiale, perciò un “futbol” che simula la danza e il volo degli uccelli, che guadagna la cadenza di una poesia e non chiede contraccambio che non sia un pegno d’affetto o un’offerta d’amore; l’altro è il bilancio al presente di chi per caso si trovò a giocare, giovanissimo, la partita di Parma divenendo in seguito l’allievo prediletto di Francesco: il suo nome è Alberto, allude ad un profilo chiaramente autobiografico e segnala, nello stesso tempo, la funzione di un doppio testimone per cui “Pasolini” non può essere un’icona o un accredito culturale ma un riferimento esistenzialetrasformarsi uno sterro fra i palazzi in costruzione nel decorso allegorico della sua stessa vita, finalmente circondato dai ragazzi che amava, dagli antichi maestri e da tutti gli amici scrittori. Infatti aveva aggiunto nella clausola, regalandosi un attimo di necessaria retorica: “Le grida della quieta partitella, la muta primavera, non è questa la vera Italia fuori dalle tenebre?”
L’azione del gol dell’ 1 a 2 nella vittoriosa partita dell Roma contro il Bayern Monaco-che vede una travolgente azione di Jeremy Menez, prodigio Francese nato e cresciuto nei sobborghi meridionali di Parigi, e la finalizzazione in rete del cross di quest’ultimo da parte di Marco Borriello - mostra la plasticità del gioco, la trama armoniosa di un’azione , la semplice bellezza di un gol. Elementi in cui Pasolini individua, da un lato la completezza delle forma d’arte e dall’altro, un gesto di perfezione etimologica.