Daniele Cofani
(operaio Alitalia)
Nel 2018 i ricavi passeggero per kilometro sono aumentati del 6,2% rispetto all’anno precedente e nel 2019 l’1% del Pil mondiale (900 miliardi di dollari) sarà speso per i viaggi aerei, a dichiararlo è Alexandre de Juniac direttore generale e Ceo di Iata (associazione internazionale del trasporto aereo) durante il “Global media day” di Ginevra. A novembre 2018, rispetto al periodo precedente, c’è stato un aumento medio della domanda internazionale di passeggeri del 6,6%, trainata principalmente dai vettori europei: in Europa l’aumento della domanda è stato del 9% seguita dagli Usa al 6.1%, Asia-Pacifica 6%, America Latina 5.8% e Medio Oriente 2,8%, in Italia la domanda passeggeri è cresciuta del 5,7% rispetto al periodo precedente. Assolutamente un settore in salute in cui, anno dopo anno, si continuano a stimare e prevedere tassi di crescita sia per quanto riguarda i passeggeri e le merci che i relativi ricavi. Un settore trainante per il turismo e l’economia di numerosi Stati in cui, però, la liberalizzazione del mercato, in assoluto tra le più spietate, e la privatizzazione di aeroporti e compagnie di bandiera, ha di fatto reso un servizio pubblico, con finalità di salvaguardia e rispetto delle esigenze e necessità di intere comunità e Paesi, in uno strumento di profitto in mano a speculatori privati senza scrupoli che, con il supporto dei governi e delle organizzazioni sindacali compiacenti, ha basato le proprie “fortune” su un sistema impostato sullo sfruttamento dei lavoratori e dei territori.
Lo sfruttamento selvaggio dei lavoratori: Fiumicino, Linate e Malpensa
Ormai la concorrenza tra le varie compagnie si misura ben poco con i servizi offerti, quasi tutti a pagamento, ma si basa principalmente sul costo del lavoro che viene abbattuto attraverso salari da fame, produttività alle stelle e precarietà diffusa, ma anche mediante terziarizzazioni di attività dove si arriva a utilizzare perfino false cooperative in cui si misura il massimo livello di sfruttamento attraverso ricatti salariali ed occupazionali, dove a farne le spese sono fette di popolazione più povera e lavoratori immigrati.
Tra gli esempi più lampanti possiamo citare senza dubbio lo scalo di Fiumicino, le cui attività sono state delegate alla famiglia Benetton attraverso l’acquisizione e il controllo della società di gestione Aeroporti di Roma, oggi di proprietà del gruppo Atlantia, azienda di famiglia. Ci troviamo, di fatto, di fronte ad un servizio pubblico in concessione ai privati che, finanziandosi con le tasse e tariffe aeroportuali (soldi pubblici), ne ricavano poi profitti personali, né più né meno di come funziona per le autostrade.
Non molto differente la situazione negli scali milanesi di Linate e Malpensa dove la storica società di gestione SEA, dalla quale nel 2014 sono state scorporate (terziarizzate) le attività di Handling verso la società Airport Handling, è di proprietà al 55% del comune di Milano e per il resto della società privata F2i, quest’ultima società infrastrutturale in questi giorni ha anche acquisito il 55% dello scalo triestino.
Il caso Alitalia
All’interno di questa centrifuga del trasporto aereo internazionale, si trova anche Alitalia che dal 2008 ad oggi è di fatto fallita 3 volte ed è in procinto di cambiare di nuovo la propria ragione sociale, (appunto per la terza volta in 10 anni) e tutto ciò non è accaduto perché Alitalia è stata estranea al “gioco” del dumping sociale con la rincorsa al ribasso dei salari e dei diritti o perché in Italia il mercato del trasporto aereo non sia fiorente, anzi tutt’altro: Alitalia in Europa è tra le compagnie, anche paragonata con le Low Cost, con il costo del lavoro più basso e nel nostro Paese viaggiano circa 180 milioni di passeggeri all’anno con previsioni di crescita. Alitalia è stata scientificamente ridimensionata a favore di un progetto ben preciso!
Nel 2000 Loyola De Palacio, commissario europeo per i trasporti, dichiarò che in Europa dovevano rimanere solo 3 grandi compagnie di bandiera a svolgere traffico aereo globale (intercontinentale) e dovevano appartenere ai 3 Stati più industrializzati della EU, Francia (AirFrance), Germania (Lufthansa) e Gran Bretagna (British Airways), tutte le altre dovevano gestire solamente il traffico ancillare. A distanza di 18 anni le dichiarazioni dell’ex commissario sono divenute più che realtà: proprio AirFrance, Lufthansa e British sono le 3 compagnie europee che hanno avuto la maggiore espansione del traffico intercontinentale, avendo un ruolo di primo piano all’interno delle alleanze internazionali insieme alle altre big mondiali dei cieli. Un processo avvenuto molto rapidamente anche grazie alla liberalizzazione del mercato del settore aereo, iniziato nei primi anni 2000 facilitando il proliferare delle compagnie Low Cost, fattore che ha messo in crisi le compagnie aeree tradizionali soprattutto degli Stati minori della EU, che, sotto i colpi di un’efferata concorrenza, in alcuni casi anche sleale, sono andate a perdere pian piano il controllo di ampie fette di mercato, non solo nazionale ma anche internazionale e globale.
Di questo scenario hanno approfittato le grandi compagnie al fine di conquistare e ampliare il controllo del traffico globale attraverso acquisizioni azionarie o totali delle compagnie in crisi o in fallimento. Alitalia è uno dei più evidenti esempi: fallita nel 2008 ne fu, falsamente, salvata “l’italianità” (con 10 mila licenziamenti) dal governo Berlusconi in contrapposizione al piano di vendita ai franco-olandesi del precedente governo Prodi. Falsamente perché nella nuova NewCo il primo azionista fu proprio AirFrance-KLM che, detenendo il 25% delle azioni, gestì gran parte della politica industriale della nuova Alitalia-Cai attraverso una presenza predatoria che di fatto bloccò e ridusse lo sviluppo del lungo raggio da e per l’Italia a favore di Parigi ed Amsterdam e assoggettò le attività di manutenzione della Divisione Manutenzione di Fiumicino portando in terra d’oltralpe numerose rilavorazioni.
Il risultato fu fallimentare tantoché nel 2014 Alitalia si ritrovò sull’orlo di un nuovo fallimento, e l’allora governo Letta/Renzi, invece di nazionalizzare la ex compagnia di bandiera, decise di cederne la cloche al cavaliere bianco emiratino di Etihad che chiese il sacrificio di ulteriori 2000 licenziamenti per dare il via libera all’acquisizione del 49%. Chiaramente anche questa esperienza basò le sue fondamenta su un piano predatorio da parte degli emiratini, i quali spostarono il baricentro del traffico intercontinentale di Alitalia da Fiumicino verso Abu Dhabi e si impossessarono del controllo dei passeggeri AZ acquisendo il programma di fidelizzazione (MilleMiglia). Fu un totale disastro che terminò con la richiesta di ulteriori sacrifici per i lavoratori Alitalia i quali, finalmente, memori dei precedenti “salvataggi”, risposero con determinazione e forza rispedendo a casa tutti gli speculatori privati presenti ancora nella compagine azionaria: gli scioperi del 2017 e il referendum d’aprile, guidati dalle attiviste ed attivisti della Cub Trasporti ed AirCrew Committee, furono un’onda d’urto che mise in crisi tutte le grandi organizzazioni sindacali e la politica tutta, aprendo un non più rinviabile dibattito sul fallimento delle privatizzazioni e sull’importanza della gestione pubblica di asset strategici per il Paese.
Il governo giallo-verde e le nuove minacce di licenziamenti
Alitalia fu posta in amministrazione straordinaria dall’ex ministro dello sviluppo economico Calenda ed ora, dopo roboranti promesse elettorali, con parole d’ordine come zero esuberi e nazionalizzazione, ci sembra di essere tornati indietro come nel gioca dell’oca, indietro al 2008 rispetto la situazione commissariale, al 2014 rispetto le prospettive di un’ennesima vendita ad uno o più diretti concorrenti, ma rispetto anche al referendum del 2017 vista la pretesa di un ulteriore ridimensionamento con licenziamenti e tagli in cambio di investimenti. Con l’avvento del nuovo governo giallo-verde il dossier Alitalia, dopo un breve e sciagurato passaggio al ministero dei trasporti, è passato sotto la gestione del Mise nella veste del ministro Di Maio il quale, dopo aver attaccato per tutta la campagna elettorale la terna commissariale nominata dal predecessore Calenda, lascia Gubitosi e Co. alle redini della compagnia con evidenti risultati nefasti: mentre i media mainstream ci raccontano di misere migliorie di risultati riguardo i ricavi da passeggeri, si “dimenticano” di evidenziare le perdite di gestione che ad oggi ammontano a 1,5 milioni al giorno che con il passare del tempo stanno velocemente erodendo la cassa composta solamente da ciò che rimane dei 900 milioni del prestito ponte. Unico passaggio fin ora effettuato dal governo a novembre’18, è stato l’entrata in partita delle Ferrovie dello Stato attraverso una proposta di acquisizione di Alitalia condizionata e condizionante attraverso dei vincoli, tra cui la partecipazione cospicua nella NewCo di un partner internazionale del settore, quindi un concorrente, e la possibilità di fare arrivare l’alta velocità direttamente all’interno degli aeroporti con garanzie di un ridimensionamento della rete nazionale di Alitalia sovrapposta a quella ferroviaria. Passaggio avvenuto parallelamente all’addio di Luigi Gubitosi (commissario guida di Alitalia), che lascia spontaneamente il timone della compagnia per andare a svolgere il ruolo di A.D. presso TIM: non solo non è stato destituito dal governo, ma è stato addirittura premiato…
FS, nella veste del suo A.D. Battisti, preso l’impegno di presentare un piano industriale entro il 31 gennaio’19, rinviato poi a febbraio, ha iniziato delle serrate trattative con i 2 principali concorrenti che hanno attestato interesse al bando di vendita, il duetto franco-americano Delta Air Lines/AirFrance-KLM e la tedesca Lufthansa. Entrambe le proposte prevedono un ridimensionamento con licenziamenti e tagli: i tedeschi pretendono una dura ristrutturazione con la “messa a terra” di circa 40 dei 118 aerei operativi in AZ con relativi 6 mila esuberi, compresi i lavoratori dell’Handling che sarebbero totalmente esclusi dalla procedura, inoltre esigono la maggioranza azionaria e la governance su attività e tratte. I franco-americani propongono un piano più “soft” in cui sarebbero solo 8 gli aerei esclusi dall’attuale flotta e gli esuberi si attesterebbero a quota 2/3 mila con una percentuale azionaria pari al 40% ma con l’opzione del totale controllo della guida operativa e delle rotte intercontinentali, le più remunerative, anche attraverso la connotazione della nuova Alitalia nella prossina joint venture transatlantica e nell’alleanza SkyTeam in cui la compagnia italiana avrebbe, in ogni caso, un ruolo marginale.
Centrodestra, centrosinistra, gialloverdi: tutti le stesse politiche padronali
Il dato è uno ed inequivocabile: il governo si appresta a vendere e privatizzare per la terza volta in 10 anni la ex compagnia di bandiera italiana attraverso un ulteriore ridimensionamento, con altre migliaia di licenziamenti, in nome di un rilancio che mai potrà essere garantito da nessuno dei diretti concorrenti, i quali sarebbero interessati solo a impossessarsi del controllo del ricco mercato del trasporto aereo della penisola attraverso, appunto, l’acquisizione della rete dei collegamenti in capo ad Alitalia. Sarebbe il più grande tradimento dell’inconfutabile mandato dei lavoratori Alitalia rappresentato da mesi di dura lotta e dal risultato referendario, mandato che mai accetterebbe l’ennesimo ridimensionamento con conseguenti licenziamenti e tagli, e soprattutto non accetterebbe, dopo i governi di centrodestra e centrosinistra, un ulteriore diniego anche da parte del governo del “cambiamento” a rendere di nuovo pubblica quella che dovrebbe essere la compagnia di bandiera italiana. Anche un’eventuale partecipazione pubblica al 51% non assicurerebbe l’autonomia del controllo operativo della compagnia e di conseguenza del trasporto aereo nazionale, ma sarebbe funzionale solo come garanzia per i papabili acquirenti e alleati che, non a caso, pretendono da subito la governance sulle tratte. Abbiamo l’esempio portoghese dove, il governo del “bloqueio à esquerda”, sceneggiando una ri-nazionalizzazione della compagnia di bandiera Tap, ha solamente versato soldi pubblici a garanzia dei privati, i quali continuano ad avere la totale governance senza favorire nessuno sviluppo e senza nessun beneficio per i lavoratori: continuano a rimanere esternalizzate tutte le attività di Handling e i lavoratori Tap, insieme ai colleghi Iberia ed Alitalia, hanno i salari più bassi d’Europa a confronto, oltre che con le compagnie di riferimento, anche con alcune Low Cost.
L’assurdo si evidenzia ancora di più se andiamo a consultare i dati del traffico aereo in Italia: Assoaeroporti ci informa che nel 2018 negli aeroporti italiani sono “atterrati” 185 milioni di passeggeri con un aumento di circa il 6% rispetto al 2017 dove, a farla da padrone, sono stati l’aeroporto di Roma-Fiumicino (42 milioni) e Milano-Malpensa (25 milioni) i due Hub intercontinentali. In tutto ciò Alitalia trasporta non più di 25 milioni di passeggeri l’anno e rinunciare, per l’ennesima volta, ad un suo sviluppo, significherebbe lasciare campo aperto ai big dei cieli e alle Low Cost, proprio in un anno in cui, alcune di loro, mostrano una determinata sofferenza, in parte dettata dalle mobilitazioni dei piloti e assistenti di volo che con forza hanno rivendicato migliori condizioni, in parte dovute dalla questione Brexit che vede coinvolte le compagnie Low Cost britanniche Ryanair ed EasyJet ma anche il gruppo IAG di cui fanno parte la British Airways, le spagnole Iberia e Vueling, l’irlandese AirLingus e la Norwegian, le quali, nel dopo Brexit, in previsione degli accordi, potranno viaggiare liberamente all’interno dell’Europa solamente se la loro quota azionaria sia al 51% in possesso di una o più società EU, al contrario gli sarebbero concesse solo tratte dirette da/per Regno Unito ed EU.
L'"imperialismo dei cieli" e la necessità di una lotta internazionale
Come appare evidente dai fatti e dall’analisi fin qui evidenziati, il settore aereo, di sua natura, vive in un sistema internazionale in cui la fanno da padrone i grandi capitali provenienti dagli Stati più potenti del globo, una sorta di "imperialismo dei cieli" in cui Paesi come Usa, Cina, Emirati Arabi, Francia, Germania, Gran Bretagna, controllano la gran parte dei flussi e dei ricavi anche attraverso la guida delle più importanti alleanze del settore (SkyTeam, OneWold, StarAlliance), in cui le compagnie minori, con una dimensione cosiddetta regionale, svolgono solo un servizio ancillare.
È chiaro che per opporsi a tutto ciò non potranno essere sufficienti, anche se importanti, le lotte intraprese singolarmente nei vari territori o aziende/compagnie, ma la strada da percorrere sarebbe tentare di unificare le rivendicazioni e le iniziative a partire da una base nazionale per poi estenderla a livello internazionale. Compito arduo ma che nel suo piccolo ha intrapreso da anni la Cub Trasporti, sindacato guida di importanti lotte come in Alitalia ma anche negli aeroporti di Milano Linate/Malpensa e Verona, alla quale va riconosciuto il merito di utilizzare costantemente lo sciopero generale di comparto aereo-aeroportuale-indotto appunto per provare, con tutte le difficolta, a connettere ed unificare le vertenze su territorio nazionale.
Inoltre va riconosciuto il merito ai propri attivisti di aver costruito, essendone i promotori, il I incontro internazionale del sindacalismo combattivo del settore aereo avvenuto a Madrid ad ottobre’18, in cui attivisti di diverse organizzazioni sindacali di vari Stati come Spagna (CGT), Francia (SUD Arièn), Portogallo (SOS Handling) ed Italia CubTrasporti/Acc, sono riusciti a confrontarsi su varie tematiche costruendo insieme una piattaforma di analisi e rivendicazioni da utilizzare poi ognuno nel proprio Paese, costruendo le basi per la creazione di un coordinamento internazionale di settore con l’ambizione che possa divenire in futuro uno strumento non solo di condivisione e solidarietà, ma anche di azione e lotta unitaria.