Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

venerdì 17 settembre 2021

Obbligo vaccinale "me ne frego" contro "mi interessa, ho cura"

Luciano Granieri




Dal 15 ottobre, fino al 31 dicembre, tutti i lavoratori del settore privato, dovranno esibire il Green Pass per svolgere la propria attività. La decisione è stata presa dopo il confronto con le parti sociali (Confindustria - per cui improvvisamene la carta verde è diventata fondamentale, dopo che durante la prima crisi Covid, hanno strepitato per non chiudere le fabbriche, concorrendo a provocare i centinaia di morti nel centro produttivo della Bergamasca e della Brianza – i sindacati confederali i quali, pur dicendosi favorevoli all’obbligo vaccinale hanno accettato, come al solito, il compromesso al ribasso – per i lavoratori- sull’obbligatorietà del Green Pass.) 

La notizia è nota ma, leggendo dichiarazioni ed interviste,  emergono grande incoerenza ed enormi ipocrisie. In un di queste, pubblicata su “Repubblica” di oggi, condotta da Stefano Cappellini al Ministro del Lavoro Andrea Orlando, risulta che la richiesta di Landini  in merito alla gratuità dei tamponi, necessari ai lavoratori non vaccinati per ottenere il Green Pass obbligatorio, è stata rifiutata, con la lapalissiana obiezione che se un lavoratore vuole la carta verde gratuitamente non ha che da vaccinarsi. In un altra parte del testo, il Ministro ammette che il lascia passare anti Covid è stato adottato per convincere i resistenti alla vaccinazione ad effettuarla. 

Ma allora come richiesto dai sindacati, perché non porre l’obbligo vaccinale? La risposta del ministro è stata: “Abbiamo spiegato che in questo momento preferiamo evitare una polarizzazione delle posizioni sul vaccino che sarebbe dannosa e controproducente” Già ma per chi? Il Green Pass, è una certificazione attestante, o la presenza di anticorpi (vaccino-guarigione dalla malattia) o la temporanea assenza del virus (tampone). Quest’ultima certezza può venir meno anche il giorno stesso dell’effettuazione dell'esame che non rileva  un’infezione eventualmente contratta prima delle 48 ore necessarie al test successivo. 

 Per chi è, dunque,  controproducente? 

 Per chi non vuole trovarsi a condividere luoghi con i contagiati,? Il tampone non assicura, come detto la certificazione dell’assenza della malattia, (come affermato dagli scienziati, checchè ne dica Salvini). 

E’ controproducente per chi frequenta tutti quei luoghi, in cui il Green Pass non è obbligatorio, supermercati, mezzi pubblici locali, e per cui non è certificabile, la presenza, o meno fra gli utenti di una persona infetta?

 E’ controproducente per gli operai succubi di un’ulteriore forma di ricatto in mano ai padroni?

E'  controproducente per le aziende farmaceutiche che confezionano i tamponi?

 E’ controproducente per questo Esecutivo che non può essere più di tanto disturbato, dalla frenesia no-vax del Salvini di lotta e di governo, nel salvaguardare le inattaccabili ed incontestabili ragioni del profitto, e dunque un contentino al bolso padano deve pur concederlo?

In poche parole è controproducente per la tutela della salute, e dalla convivenza sociale. 

Si preferisce  fare appello alla responsabilità dei singoli cittadini, affinché si vaccinino, anziché imporre la norma dell’obbligo vaccinale, indispensabile per evitare la circolazione del virus. Si invoca una sensibilità al rispetto delle ragioni collettive, pur sacrificando qualche libertà individuale, fiduciosi che con l’introduzione, di una semplice certificazione si possa muovere la popolazione ad una così alta percezione del principio di convivenza civile. 

 Ma cosa credono queste anime belle, che dopo decenni d’imposizione liberista della competitività spinta come valore assoluto, basata sull'individualismo sfrenato, non riemergesse il “Me ne frego” fascista? Non solo è riemerso, ma si è radicato fortemente nei gangli peggiori della società. 

Il “me ne frego della libertà degli altri, conta solo la mia libertà di fare quello che mi pare” è ormai una regola quasi inderogabile e ad essa deve sacrificarsi anche l’obbligo vaccinale. Dunque si ha un bel convincere i No Vax, o anche solo gli indecisi e poco convinti a vaccinarsi, con l’onere dell’esibizione di una certificazione. 

Bisogna imporsi. Imporre l’obbligo vaccinale, perché la libertà di non volersi vaccinare (una libertà stupida, di fatto significa libertà di stare male), deve piegarsi alla libertà della collettività di rimanere in salute diminuendo i rischi di contagio. Se il “me ne frego” fascista non soccombe a colpi di moral suasion, al civile “mi interessa, ho cura degli altri, perché solo  la cura degli altri rafforza la mia libertà e dignità”, allora bisogna farlo soccombere d’imperio. 

La convinzione che le ragioni della collettività sono superiore alle ragioni individuali, a questo punto, deve essere imposta. Poi si potrà anche mettere in piede, anzi si deve, un processo culturale di rieducazione al valore della comunità. Ma per il vaccino non c’è tempo. Lo si imponga. 

Qualcuno potrà obiettare che è una posizione stalinista? Forse. Ma faccio notare che anche l’articolo 32 della Costituzione al secondo comma prevede che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” dunque si faccia la legge.  Non sarebbe la prima volta: nel 1963 è stata imposta la vaccinazione antitetanica, nel 1966, quella antipoliomelitica e nel 1991 contro l’epatite B. 

E’ il green pass che non ha una vera e propria legittimazione costituzionale, perché non è né un diritto né un dovere. Non è una misura sanitaria ne’ un certificato abilitante, non si sa cosa sia.

martedì 14 settembre 2021

Roma: l’attacco del profitto al trasporto pubblico non è finito

 Fonte:  Coniare rivolta



Quasi tre anni fa, nel novembre 2018, i cittadini romani vennero chiamati a esprimersi tramite referendum sulla possibile liberalizzazione e privatizzazione dell’azienda del trasporto pubblico locale Atac. Con un’affluenza molto bassa il referendum consultivo non ottenne l’effetto politico voluto dai suoi promotori, ma la spinta liberista che lo aveva animato è viva e vegeta e segnerà, con ogni probabilità, le scelte di politica del trasporto pubblico romano nei prossimi mesi. Da molti anni le politiche di affidamento alla logica del mercato dei servizi pubblici sono divenute un pezzo costitutivo della politica economica di impronta neoliberista. Sotto la scorta della retorica del pubblico inefficiente e delle imprese pubbliche carrozzone indebitate fino al collo, in numerosi ambiti dell’economia si è avanzato a tappe forzate verso forme di parziale o totale privatizzazione, liberalizzazione e deregolamentazione. Dopo aver scientemente sottofinanziato le aziende pubbliche non consentendone una gestione all’altezza dei bisogni dei cittadini e costringendole ad un’elevata esposizione debitoria, si sono potute facilmente montare campagne mediatiche sull’inefficienza delle gestioni pubbliche in quanto tali e la conseguente necessità dell’intervento benefico dei privati.

L’Atac romana rappresenta un esempio di questa strategia. I problemi dell’organizzazione del Trasporto Pubblico Locale romano affondano le radici in una storia pluridecennale iniziata con lo sviluppo urbano incontrollato e privo di pianificazione dell’epoca fascista e poi continuata nel secondo dopoguerra con l’edificazione di quartieri mal collegati con il resto della città, l’assenza di una rete metropolitana degna di questo nome e una presenza deficitaria di mezzi pubblici in una città che ha sempre fatto del trasporto privato l’asse fondamentale della mobilità. Questi atavici problemi si sono tuttavia aggravati drammaticamente nel corso degli ultimi due decenni. Al netto delle torbide vicende di scandali e mala gestione, un taglio del finanziamento pubblico ha via via gonfiato il debito di Atac fino all’ultimo passaggio della procedura di concordato avviata dalla giunta Raggi, che ha costretto l’azienda a tagliare il servizio erogato sotto forma di diminuzione delle corse, soppressione di intere linee, fino all’uso di un parco mezzi datato e inquinante. Il sottofinanziamento cronico rispetto alle esigenze di una città come Roma, caratterizzata da un’enorme estensione geografica, è alla base delle condizioni disastrate in cui versa il trasporto pubblico della città. Del resto, i dati al riguardo sono impietosi. In Figura 1 più sotto si vede l’evoluzione del livello di finanziamento del trasporto pubblico locale ad opera del Comune di Roma, nel periodo 2010-2019. La linea blu mostra l’inesorabile diminuzione dei fondi stanziati per i trasporti, che non a caso ha inizio a partire dal 2012. In tale periodo, infatti, prende avvio la fase più dura delle politiche di austerità che hanno colpito tutti i livelli di governo, dallo Stato ai territori, con l’inasprimento dei già rigidi vincoli di bilancio nazionali e locali e una generale ricaduta sui servizi pubblici. Una forte diminuzione si riscontra anche andando a vedere gli investimenti messi in atto da ATAC, in Figura 2. Qui il calo è ancora più marcato, segno inequivocabile di una deliberata scelta politica di prosciugare le risorse necessarie a un buon funzionamento dell’azienda nel presente e, dati gli effetti di lungo periodo degli investimenti, anche nel futuro.

A fronte di questa drammatica situazione, il dibattito viene sviato dalle vere cause del disastro verso una campagna ideologica contro l’assetto pubblico e la gestione in house dell’azienda. Malgrado la giurisprudenza comunitaria da anni spinga per politiche di liberalizzazione, a seguito dell’esito del cosiddetto referendum sulla gestione dell’acqua del 2011, esistono ancora due alternative di gestione di un servizio pubblico locale: affidamento in house ad una società di proprietà dell’ente locale stesso senza gara; oppure gara pubblica per l’affidamento ad una società esterna. Una norma approvata nel 2017, in violazione sostanziale dell’esito politico del referendum sui servizi pubblici locali di 6 anni prima, prevede tuttavia una decurtazione dei fondi pubblici destinati al trasporto pubblico locale in caso di affidamento in house senza gara. Del resto anche il recente Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) suggerisce un ricorso “più responsabile” al meccanismo di fornitura di servizi in-house sostenendo che (PNRR, p. 76): “andranno introdotte specifiche norme finalizzate a imporre all’amministrazione una motivazione anticipata e rafforzata che dia conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato, dei benefici della forma dell’in house dal punto di vista finanziario e della qualità dei servizi e dei risultati conseguiti nelle pregresse gestioni in auto-produzione, o comunque a garantire una esaustiva motivazione dell’aumento della partecipazione pubblica. Sarà inoltre previsto un principio generale di proporzionalità della durata dei contratti di servizio pubblico, compresi quelli affidati con la modalità dell’in house.” Un vero e proprio gioco delle tre carte, sfacciato e spietato: i vincoli di bilancio europei impongono l’austerità e rendono la gestione pubblica dei trasporti (e non solo) difficoltosa e accidentata. In risposta a ciò, le autorità europee chiedono a chi volesse continuare a tenere fuori i privati dal trasporto locale di dimostrare che la gestione pubblica è stata impeccabile e fila liscia come l’olio, pena la decurtazione dei fondi europei destinati alla ripresa economica post-Covid.



Ma cosa cambia nella sostanza tra le due forme di gestione possibili? 

Il trasporto pubblico locale, così come molti altri servizi pubblici, è per sua natura costituito da tratte in perdita a bassa densità di traffico e tratte ad alta densità generatrici di utili. È evidente che, se il servizio fosse rimesso alla mera logica della massimizzazione del profitto, le tratte in perdita sparirebbero e numerosissime aree di una città a bassa densità di popolazione o con caratteristiche viarie e di traffico complesse non verrebbero servite. In linea di massima, con i prezzi esistenti oggi di biglietti e abbonamenti nella gran parte dei comuni italiani, un servizio di trasporto cittadino copre circa il 30%-40% dei costi di gestione, manutenzione e investimento tramite entrate da traffico (biglietti). Il resto viene coperto da fondi pubblici locali e statali tramite un fondo nazionale per i trasporti. Se, come in effetti avviene nel concreto nelle pratiche di affidamento tramite gara, si volesse mantenere un’offerta universale che copra capillarmente una città indipendentemente dalla capacità di generare utili in ogni tratta, allora occorrerebbe versare al soggetto privato, a compensazione delle perdite, ciò che l’ente pubblico versa analogamente ad una società propria in house. Tuttavia, con una differenza non da poco. Nel caso di affidamento in house la società, sebbene SpA, oggetto cioè di diritto privato, è comunque di proprietà dell’ente pubblico e non segue una logica di mera massimizzazione del profitto. L’eventuale utile conseguito nelle tratte redditizie verrebbe automaticamente reinvestito nel servizio stesso o versato a copertura delle tratte strutturalmente in perdita. L’affidamento ad un soggetto privato, invece, implica, per definizione, che venga riconosciuto un margine di profitto complessivo su tutta la rete oggetto del servizio, senza il quale nessun imprenditore entrerebbe mai nel settore. Nei meccanismi di regolazione delle imprese che operano in tali servizi, si fa sempre riferimento ad un tasso di remunerazione normale del capitale che, in un settore in perdita strutturale, viene per forza di cose coperto dalla spesa pubblica. 

Nel caso di Atac, i fautori della messa a gara puntano il dito sull’ingente debito di 1,3 miliardi di euro accumulato dall’azienda, sull’inefficienza organizzativa della società romana e sui costi legati a fenomeni di corruzione, prebende e uso politico di ruoli chiave nell’azienda e invocano la gara come panacea di tutti i mali. Le critiche suddette naturalmente fanno leva su verità innegabili, ma l’analisi delle cause e soprattutto la soluzione prospettata ignorano passaggi fondamentali.

1. Un’azienda pubblica inefficiente e afflitta da una gestione sbagliata e dannosa non è in quanto tale irriformabile. La sua riformabilità è semplicemente legata alla volontà politica di farlo espressa dai governi in carica. Che Atac abbia sofferto di una gestione manageriale deplorevole è una realtà comunemente nota. Che ciò sia una buona scusa per rimuovere, anziché i responsabili di questo scempio, il modello di società pubblica in quanto tale è un salto logico privo di giustificazioni; 

2. Le inefficienze e i costi da corruzione non sono esclusivi di un’azienda pubblica. Sono sotto gli occhi di tutti i casi di corruzione e inefficienza manageriale dimostrati anche in grandi colossi del mondo industriale, finanziario e bancario; 

3. Tutti i processi di liberalizzazione, ivi compresi quelli del trasporto pubblico locale, dimostrano che la massimizzazione del profitto di un gestore privato e la capacità di proporre offerte competitive si scarica prevalentemente sul costo del lavoro, sulla riduzione di organico, e sulla capillarità dei servizi;

4. Ammesso e non concesso che non vi sia alcuna ripercussione sul mercato del lavoro e sulla capillarità dell’offerta del servizio, per immaginare che una liberalizzazione porti a ridurre i costi gestionale a parità di servizio, occorrerebbe che i costi da inefficienza e corruzione di Atac eccedano i costi da sovvenzionamento pubblico dei profitti di un operatore privato che sorgono inevitabilmente in caso di privatizzazione. Si tratta quanto meno di un azzardo visto e considerato che i primi sono per definizione evitabili con una migliore gestione pubblica mentre i secondi sono connaturati ad una gestione privata e dunque ineliminabili a priori;

5- Il vero elemento dirimente della storia recente di Atac, così come di tante aziende di gestione dei servizi pubblici locali, al netto degli scandali e della mala gestione, è proprio un livello cronicamente insufficiente di finanziamento pubblico che ha via via gonfiato il debito, fino all’ultimo passaggio della procedura di concordato avviata dalla giunta Raggi. Proprio il sottofinanziamento cronico rispetto alle esigenze peculiari di una città come Roma, ad enorme estensione geografica ma piena di aree a bassa densità abitativa e fortemente isolate, spiega l’elevato debito dell’azienda cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni. 

A fronte di una simile situazione la via della liberalizzazione e del mercato non potrebbe che aggravare i problemi esistenti creandone di nuovi, come numerose esperienze di liberalizzazione e privatizzazione del trasporto pubblico locale dimostrano (emblematico il caso di Genova e quello più recente di Firenze): attacco ai diritti del lavoro e peggioramento del servizio con taglio o marginalizzazione delle aree non remunerative. Insomma, danni a carico dei lavoratori e dei cittadini utenti. Malgrado la recente legislazione nazionale in Italia sia andata persino oltre le prescrizioni pro-liberalizzazione favorite dall’Unione europea, indicando la via del mercato come quella preferenziale anche nel campo dei servizi pubblici locali, l’esito positivo della battaglia del cosiddetto referendum per l’acqua pubblica ha reso inapplicabili, almeno fino ad ora, i tentativi di rendere cogente e inevitabile la strada del ricorso alle gare. I margini di resistenza nel settore sono ancora ampi e le possibilità legislative, come il caso della riforma del sistema di gestione dell’acqua a Napoli dimostrano, esistono. 

La prospettiva va allora radicalmente rovesciata rispetto ai termini del dibattito attuale. Il punto non è scegliere tra l’Atac Spa a capitale pubblico dissestata e dissanguata di oggi oppure la sua privatizzazione e cessione alle sorti limpide e progressive del mercato. La vera sfida deve essere basata sul rilancio dell’azienda pubblica in un’ottica però di riforma radicale rispetto allo stato attuale. Una riforma che in primo luogo riaffermi la centralità della funzione pubblica e sociale dell’azienda. 

Per farlo occorre agire su due livelli, uno generale ed uno particolare. Il rilancio di un servizio pubblico che abbisogna di ingenti investimenti a priori non può che passare per una radicale rimessa in discussione dei vincoli di bilancio locali e nazionali discendenti in via diretta dall’austerità europea e per un ripensamento dei rapporti tra potere pubblico e mercato. Una battaglia che va svolta a monte e attiene alla generale visione del ruolo dello Stato nell’economia e nella gestione dei servizi pubblici. A valle di questa battaglia, nello specifico, esistono concrete possibilità di intervento sul fronte dei servizi pubblici locali anche nel quadro della legislazione attuale. Tra queste vi è il passaggio dalla forma giuridica di Società per azioni a capitale pubblico all’Azienda Speciale. Quest’ultima, pur essendo un organismo posto al di fuori della pubblica amministrazione e agendo con autonomia imprenditoriale, si distingue profondamente dalla SpA. Infatti, l’azienda speciale è ente strumentale dell’ente locale dotato di personalità giuridica e di proprio statuto, approvato dal consiglio comunale o provinciale. Due sono le differenze cruciali tra un’Azienda Speciale e una SpA: il grado di internità rispetto all’ente pubblico cui è legata e la declinazione specifica del concetto di economicità della gestione. Nella società per azioni si ha separazione totale tra l’ente che la possiede e la società stessa, che finisce per operare come organismo del tutto distaccato e dotato di propri obiettivi. Un’Azienda Speciale, pur autonoma rispetto all’ente da cui emana, ha un livello di integrazione e prossimità assai maggiore, che consente la realizzazione di finalità politiche e sociali in maniera assai più flessibile. In merito al secondo punto, sebbene anche l’Azienda Speciale in quanto ente economico debba operare “con economicità di gestione”, con questa locuzione si intende soltanto la necessità di coprire i costi di produzione con entrate proprie, al netto ovviamente della copertura garantita da finanziamenti per scopi sociali a carico dell’ente emanatore. In una società per azioni, invece, il concetto di economicità deriva dalla redditività e dal profitto, i quali impongono che il servizio offerto sia remunerativo ovvero che vi sia la remunerazione del capitale commisurata a criteri di “normale rendimento del capitale” anche laddove la proprietà sia interamente pubblica.

Queste differenze rendono l’Azienda speciale un istituto profondamente più adeguato all’esigenza di fornire servizi pubblici fuori dalla logica del mercato. Il caso dell’azienda di gestione del servizio idrico a Napoli, unico esempio di “ripubblicizzazione” tramite trasformazione di una SpA in Azienda Speciale, ha avuto in tal senso una forte eco nazionale e può essere considerato un possibile modello cui ispirarsi nei processi di ri-collettivizzazione di ciò che nel tempo è stato privatizzato o comunque profondamente snaturato nella sua vocazione pubblica. 

La battaglia per servizi pubblici di qualità accessibili universalmente e orientati al soddisfacimento dei bisogni e non al profitto, è uno degli architravi irrinunciabili di una strategia politica di promozione degli interessi delle classi subalterne e della collettività, contro la sete di profitto di un’oligarchia che vorrebbe mettere mano su ogni residuo di economia pubblica ancora esistente. È anche una cartina al tornasole perfetta per mostrare la sostanziale identità di vedute tra chi governa e ha governato Roma negli ultimi decenni (centro-destra-sinistra e 5Stelle) e rimarcare la differenza con chi invece fa di Roma Città Pubblica non uno slogan vuoto ma una dichiarazione di intenti e un principio guida. Cambiare lo stato delle cose si può, basta volerlo (e votarlo).