Tratto dall'articolo di Flavio Massarutto scritto su “alias”
del 9 settembre 2017
Riduzione web a cura di Luciano Granieri.
Per la rivista Time è la canzone del secolo . Stiamo
parlando di Strange Fruit , brano composto nel 1937 da Abel Meeropol con lo pseudonimo di Lewis Allen (i nomi dei
suoi figli scomparsi in tenera età). Meeropol era un insegnante, ebreo e
militante comunista. Aveva visto una fotografia di un linciaggio e la cosa lo aveva turbato e indignato tanto da spingerlo a scrivere il
testo e poi musicarlo. All’epoca il linciaggio era una pratica abituale negli
Stati del Sud. Una forma di controllo sociale che i bianchi applicavano con
metodicità: terrorismo sociale. Si calcolano almeno 3.833 presone assassinate
tra il 1889 e il 1940.
Bastava un sospetto, una frase di troppo, uno sguardo non
consentito per scatenare la furia omicida. Le vittime erano poi esposte
pubblicamente in macabri spettacoli popolari ai quali assistevano come ad una
festa uomini, donne e bambini perché imparassero come si fa a tenere buoni i “negri”.
E naturalmente a questi ultimi perché sapessero cosa li aspettava se violavano
le consuetudini del “nobile e cavalleresco sud”. Pubblicata nel 1937 sulla
rivista sindacale New York Teacher ,
eseguita nel 1938 dalla moglie Anne la canzone fu portata al successo quando
Meeropol la propose nel 1939 alla cantante Billie Holiday
perché la interpretasse al Cafè Society di New York. Il posto giusto in
quanto ritrovo della sinistra culturale e politica e da sempre locale
interraziale.
IL TESTO
“Southern
trees bear strange fruit/ Blood on the leaves and blood at the root/Black
bodies swinging in the southern breeze/Strange fruit hanging from the popular
trees/Pastoral scene of the gallant south/The bulging eyes and the twisted
mouth/Scent of magnolias sweet and fresh/Then the sudden smell of burning
flesh/Here is the fruit for the crown to pluck/For the rain to gather, for the
wind to suck/For the sun to rot, for the trees to drop/Here is a strange and
bitter crop”
(Gli alberi del sud producono uno strano frutto/Sangue sulle
foglie e sangue sulle radici/Corpi neri che ondeggiano nella brezza del sud/Uno
strano frutto che pende dai pioppi/Una scena pastorale del valoroso sud/Gli
occhi sporgenti, la bocca storta/Profumo di magnolia dolce e fresco/E d’improvviso
l’odore della carne che brucia/Qui c’è un frutto che i corvi possono
beccare/Che la pioggia inzuppa, che il vento sfianca/Che il sole marcisce, che
l’albero lascia cadere/Qui c’è uno strano e amaro raccolto).
L’autore della “canzone del secolo”dovette subire come gran
parte dei comunisti americani il terribile periodo maccartista. Furono lui e la
moglie ad adottare i due orfani Rosenberg dopo che i loro genitori furono
mandati alla sedia elettrica per spionaggio in un caso che costituì la punta
più alta, e tragica di quella che è stata definita, a ragione, dalla scrittrice
Lillian Hellman “il tempo dei furfanti”. La prima versione della canzone fu
registrata il 20 aprile 1939. La Columbia, che allora aveva la cantante sotto
contratto, la ritenne inadatta e compromettente perciò fu prodotta e pubblicata
dalla piccola etichetta Commodore, gestita da Milt Gabler, un produttore di
sinistra. Il brano si apre con la tromba di Frankie Newton seguita dal
pianoforte di Sonny White. Il clima generale del brano è deciso da questi due
interventi. Una mestizia asciutta e commossa pervade questi primi secondi e
Billie Holiday scandisce bene le parole, senza enfasi ma con determinazione. Il
controllo è mantenuto fino alla fine per esplodere solo nell’ultima parte
quando la cantante sembra fare deflagrare tutta l’indignazione e il dolore
accumulati.
Strange Fruit è talmente scioccante, quasi brutale per le
metafore che utilizza, da diventare immediatamente un successo. E da diventare
immancabilmente il brano con il quale Lady Day conclude i suoi concerti. Il
pubblico del Cafè Society la adotta rompendo per sempre il muro tra
intrattenimento e impegno. Non è molto amata dai critici che le rimproverano la
pochezza formale in realtà nascondendosi dietro di essa per non ammettere il
disagio per l’irrompere dei contenuti sociali e politici nel jazz. Ognuno al
suo posto insomma. Lo stesso sarà successivamente per il jazz degli anni
Sessanta ma allora il pubblico non sarà solo una ristretta cerchia di
intellettuale e bohemien ma un pubblico di massa e sarà impossibile non
sentire i passi delle marce, gli spari e
l’odore del fumo degli incidenti nelle strade.
ALTRE VERSIONI
La Holiday ne incide altre versioni . Nel 1945, accompagnata
dal pianista Milt Raskin a Los Angeles per la celebre serie di concerti Jazz at the Philarmonic , presenta la
canzone come scritta appositamente per lei e prima di attaccare il brano si
schiarisce la voce con tre colpi di tosse. Ascoltandola si è indecisi se interpretarli
come un modo per superare l’emozione oppure come il segno del prossimo
precipitare delle sue condizioni fisiche.
Poi nel 1956 per la Verve di Norman Granz che le offre la
possibilità di ritornare sulle scene
dopo un periodo difficile tra tossicodipendenza, carcere, rapporti con gli uomini all’insegna
dello sfruttamento e della violenza. La voce della cantante è irrimediabilmente
incrinata. Assume una sfumatura acre che conferisce una maggiore drammaticità
alla sua performance. Ogni parola è strascicata, tesa fin oltre i limiti. Ma l’intento
espressionista è chiaro fin dalle prime note di Charlie Shavers. Al contrario
di Newton il trombettista attacca su un registro più alto e con maggiore
volume, come una chiamata. In quella esibizione il grado di interpretazione
drammatica è al massimo della potenza. Le parole sono piegate, deformate, quasi
con ferocia, il finale è un urlo agghiacciante.
La canzone è diventata già un simbolo. Una storia che deve
essere ascoltata. Il musicista è un testimone, colui che squarcia il velo dell’ipocrisia
e dell’indifferenza. Quando nel 1959 Billie Holiday canta al Chelsea Palace
Studios di Londra è ormai una donna consumata nel fisico prostrata nello spirito. Ha solo 44 anni ma
tutta la vitalità, l’esuberanza, la floridezza se ne sono andate per sempre. Di
quella interpretazione è possibili ammirare un filmato nel quale la vediamo
cantare immobile, l’espressione è di disillusione, quasi di arrendevolezza. Le
sue pause, il sopracciglio inarcato, la rabbiosa pronuncia di alcune parole
sono strazianti e mai come qui è evidente l’identificazione con il contenuto
della canzone. Solo che è un’identificazione intima. Come se cantasse il suo
corpo penzolante ai rami di un albero.Il 17 luglio dello stesso anno si spegne
al Metropolitan Hospital Center di New York.
INADATTA
La penetrazione nell’immaginario collettivo di Strange Fruit in verità ha avuto un
percorso tortuoso. Dopo il successo iniziale, ma si badi bene che la hit nei juke box del periodo è
stato il lato B del disco Fine and Mellow
, è stata dimenticata per un lungo periodo. Inadatta al ruolo di inno da
essere cantato nelle marce e nei meeting
dove si usano piuttosto gli spiritual o le canzoni dei nuovi cantautori folk,
riaffiora nella sentita interpretazione di Nina
Simone (Pastel Blues, Philips 1965), cantante impegnata esplicitamente a
sostegno del movimento dei diritti civili.
Simone la esegue accompagnandosi con il solo pianoforte.
Omette l’introduzione e attacca subito con i versi della canzone. L’incedere è
solenne, quasi da funzione religiosa. Sposta il culmine del pathos che Holiday
riservava alla parola crop (raccolto)
anticipandolo sulla parola trees
(alberi) tenendola fino allo spasimo per poi concludere con la strofa finale quasi sottovoce, con un’immensa
tristezza.
Ci vorrà tempo, ci vorranno soprattutto le vittorie,
parziali d’accordo ma pur sempre vittorie, del movimento progressista perché quel
testo circoli non solo all’interno di minoranze ma riesca a permeare la cultura
popolare.
NOTTURNA URBANA
Quello che ci interessa notare è come alcuni elementi della
biografia di Lady Day possano diventare utilizzabili per una avventura che non
si preoccupa molto di mettere insieme
Robert Johnson, il magico afroamericano, Harlem e il sud dei linciaggi. La
notturna, urbana e regina della torch song Billie Holiday nel torrido contadino del sud? Non è così improbabile
se pensiamo che una operazione simile, con tutte le cautele del caso, è quella
che fece la cantante Cassandra Wilson decidendo
di aprire il suo disco New Moon Daughter nel
1995 con una versione che fa avvolgere la sua voce scurissima, di una
profondità abissale e stregonesca, dal contrabbasso di Lonnie Plaxico, dalla
tagliente resophonic guitar di Chris Whitley e dalla cornetta di Graham Haynes.
Una rievocazione che proietta i versi di Meeropol in una allucinata visione
davisiana. Blues all’ennesima potenza.
Quella canzone insomma può produttivamente essere usata anche in un contesto temporale completamente diverso. E’ divenuta una canzone-simbolo in grado di travalicare il contingente; negli anni Sessanta e Settanta il linciaggio è pratica non più diffusa, ma permangono negli Usa e altrove discriminazioni, violenze e sfruttamenti.
Non è un caso se infatti il sassofonista compositore
sinoamericano Fred Ho ne incide in The
Underground Railroad to my Heart (1993)
una versione particolarmente eterodossa, Strange
Fruit Revisited, con un organico che riunisce strumenti jazz e della
tradizione asiatica. Il musicista afferma esplicitamente che quella canzone,
ieri manifesto contro il razzismo anti – afroamericano, può legittimamente essere
oggi un manifesto contro ogni razzismo e fascismo contemporaneo. In difesa di
gay e lesbiche, immigrati, medici abortisti.
Ancora oggi quella canzone è un dispositivo utile per
riflettere, per alzare la testa e lo sguardo. Ce lo ricorda la cantante maliana
Rokia Traorè . Nel suo album Né So (2016) la sua splendida voce canta
un’altra volta quegli strani frutti. Non solo. Sono versi da brivido che
continuano a soffiare nel vento. Riecheggiano ovunque, nelle tragiche violenze
di Charlottesville per mano dei suprematisti bianchi, ma anche negli sgomberi e
nelle quotidiane intolleranze nostrane. E fanno rumore, ieri come oggi.