Questo articolo di Giuseppe Faso mi è stato girato dalla nostra amica Franca Dumano. Ringrazio Franca per avere concesso a me a a tutti i naviganti di Aut la possibilità di leggere un testo molto significativo e indicativo su come siano complessi gli elementi sociali che concorrono a determinare gli atteggiamenti razzisti. Il razzismo non è solo la violenta esaltazione della superiorità di una razza rispetto ad un'altra, si sviluppa anche su luoghi comuni meno crudi, ma che ormai sono diventati i capisaldi di un sentire comune purtroppo molto condiviso nella società. Capisaldi che alla fine sono diventati gli architravi della attuale legislazione sull'immigrazione e sull'integrazione con il concorso del centro destra e del centro sinistra
Luciano Granieri.
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Ciao Luciano,
come state? Ti inoltro un articolo molto interessante di Giuseppe Faso, parente incontrato per la prima volta nel 2012 a Carrara, parente anagrafico e culturale!
Franca Dumano.
L’accordo di integrazione e il permesso di soggiorno a punti
Giuseppe Faso
Un caso di razzismo istituzionale e di creazione amministrativa di precarietà per gli immigrati.
Il circolo virtuoso inserimento-apprendimento della lingua-inserimento
Quando, nell’autunno 1989, nella Biblioteca Comunale di Capraia e Limite cominciammo a tenere un corso di italiano per lavoratori immigrati, non sospettavamo neanche lontanamente la forzatura di significati che si sarebbe scaricata due decenni dopo su tale accostamento alla lingua italiana da parte dei nostri nuovi vicini di casa.
Erano stati loro a chiederlo, per muoversi meglio nella realtà che da pochi mesi avevano cominciato a esplorare. Tra le prime “offerte formative”, ci fu l’incontro con sindacalisti, amministratori e realtà associative, perché avessero parametri più ricchi grazie a cui muoversi nella società “di accoglienza”. Erano le semplici linee su cui si muovevano altre iniziative del genere, condotte da piccole associazioni con cui ci incontravamo per scambiarci indicazioni, esperienze, strumenti di lavoro. Un’effervescenza della società civile, oggi non più immaginabile.
Provenivano da Senegal, Marocco, Sri-Lanka, India, Tunisia, Polonia. In seguito ne arrivarono di altre nazionalità. Giunti dopo la sanatoria che accompagnava la legge del 1986, erano senza permesso di soggiorno, ma non ci veniva in mente di chiamarli “clandestini”. Né così li chiamavano gli altri, neanche i più sospettosi. Era scontato che si procedesse a provvedimenti di regolarizzazione, ma ci vollero l’assassinio di Jerry Masslo e la grande manifestazione romana dell’ottobre 1989, perché lo comprendesse anche il governo.
La maggior parte abita ancora qui, ha lavoro (a volte lo stesso di 23 anni fa…) e ha fatto arrivare la famiglia. Col metro di oggi, sarebbero stati considerati “non integrabili”, al di fuori, come erano, di un procedimento burocratico di “integrazione” previsto per i soli detentori di un “permesso di soggiorno”. Ma venivano a contatto con la società italiana, si informavano delle “regole” che vi si praticano e della regola-madre, la Costituzione, praticavano uffici, sindacati, sportelli, anche degli enti locali. Si prefiguravano forme di accoglienza gratuite, rispettose del protagonismo degli interessati. Più tardi sarebbero state inventate forme di esclusione e di inclusione inferiorizzante assai costose.
Fu in quelle sere che imparammo a farci prendere in contropiede nelle nostre aspettative ingenue, ed a sorridere con i nostri nuovi amici degli schemi in cui venivano ricacciati da benintenzionati. Scoprimmo che era facile essere attraversati da immagini dormienti del nostro immaginario colonialista – un colonialismo straccione, ma con tutte le carte in regola per quanto riguardava il razzismo. Sospettammo che, se per costruire un “noi” avevamo bisogno di accettare il fantasma su di “loro”, costruito soprattutto dai media e veicolato dal senso comune, la nostra identità era messa male. Anni più tardi, ritrovai questo paradosso dell’alterità spiegato mirabilmente in una storia chassidica narrata da Martin Buber, là dove il Rabbi Mendel replica al suo interlocutore: “Se io sono io perché sono io e tu sei tu perché sei tu, allora io sono io e tu sei tu. Ma se invece io sono io perché tu sei tu e tu sei tu perché io sono io, allora io non sono io e tu non sei tu” (Buber, 2008, p. 2061).
Infine, con la pratica dell’interazione, abbiamo scoperto che non insegnavamo nulla: era il processo stesso di inserimento che permetteva, fatto com’era di un bilanciamento di strategie accorte, l’apprendimento della lingua come pratica sociale. Ci limitavamo a facilitare questo apprendimento, imparando a individuarne il programma già in atto in ciascun individuo, e a costruire un ambiente di accoglienza vario e rispettoso. Nei mesi successivi, presero d’abitudine di passare da casa di alcuni di noi, dopo il lavoro, previa telefonata: raccontavano episodi accaduti sul lavoro o per strada, su cui prendevano le misure. Spesso chiedevano il significato di alcune espressioni che avevano inteso solo parzialmente – quante espressioni locali e gergali abbiamo imparato, quelli non toscani di noi, attraverso questi momenti di confronto! In alcune case, c’era un ambiente e un tappetino predisposto per le preghiere dei musulmani che abitavano in condizioni disagiate.
2. La rottura del circolo, ovvero: “i paesi in cui il senso comune fa a pugni con l’evidenza sono politicamente infelici”(Raymond Aron)
Oltre vent’anni dopo, l’immagine che le istituzioni, le forze politiche, i media, molti intellettuali e parte della società italiana propongono di questo inserimento risulta, di nuovo e sempre di più, simile a un immaginario coloniale mai elaborato e ora di nuovo egemone. Sia chiaro che qui non si evoca come principio esplicativo una xenofobia diffusa che invece va spiegata: per quanto condotto con una retorica grezza, il discorso razzista viene legittimato e praticato dall’alto, ed è funzionale a una specifica “tecnologia politica” (Bigo, 2000).
Per farsi accettare, sia pure in una posizione di diritti diminuiti, bisogna che i nuovi immigrati vadano a scuola. Non una scuola istituita e pagata dallo Stato, però: se la trovino loro, una scuola, e imparino l’italiano. Vengono ora promessi per questo scopo, con
Circolare del Ministero dell’Interno del 2 marzo 2012, cospicui finanziamenti derivanti da un Fondo europeo: vedremo presto se, e soprattutto come, saranno spesi questi soldi. Nulla è previsto, invece, per l’analogo esame cui si devono sottoporre gli immigrati già presenti da tempo nel paese. Introdotto dal cosiddetto “Pacchetto Sicurezza” che, con la
legge 15 luglio 2009, n. 94, ha modificato l’articolo 9 del
Testo Unicodelle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione del 25 luglio 1998, n. 286, il test di conoscenza della lingua italiana è diventato una condizione per il rilascio di un permesso di soggiorno di lungo periodo. Le sue effettive modalità di svolgimento sono state fissate in seguito dal
Decreto Ministeriale 4 giugno 2010. Come è stato notato molto lucidamente, questo test non si inserisce in un processo di inclusione paritaria, ma è concepito per costituire “un ostacolo alla fruizione di un diritto per chi ne possiede già i requisiti” (Mastromarco, 2011). Oltretutto, le modalità stesse di verifica e di valutazione della conoscenza della lingua italiana previste sollevano seri dubbi, anche sotto il profilo della didattica della lingua straniera oltre che della comune ragionevolezza (Faso e Pona, 2011).
Nel caso dei nuovi arrivati, l’importante è che imparino l’italiano, e soprattutto che abbiano accesso alla possibilità di
ammirare i
nostrivalori superiori: cinque ore di lezione, pre-registrate, e poi facciamo fare loro l’esame, davanti a commissioni improvvisate e poco qualificate. La gestione di questi corsi è affidata agli sportelli del Ministero dell’Interno, che non hanno ancora smaltito pratiche arretrate di svariati mesi. Secondo un attento osservatore della realtà migratoria, soprattutto milanese, “il peso maggiore delle pratiche cadrà sulla Prefettura in perenne carenza d’organico e in arretrato: devono ancora essere smaltite le domande per i ricongiungimenti presentate nel settembre 2010. Pare quasi inevitabile, con queste premesse, attendersi una conclusione di paralisi e caos. Con le ricadute che andranno naturalmente subito a colpire i diretti interessati, gli immigrati che avranno già i loro bei problemi con il nuovo percorso, secondo alcuni un vero percorso a ostacoli creato ad arte” (
Galli, 2012). A ciò si aggiungerà una serie probabilmente nutrita di ricorsi, che peseranno sull’efficienza degli uffici preposti.
Ad una persona dotata di buon senso dovrebbero bastare queste poche indicazioni per riflettere sull’intreccio tra razzismo istituzionale, autoritarismo paternalista e inefficacia burocratica delle politiche del governo italiano, e in particolare del ministero Maroni. Ma il buon senso è diventato merce rara, trionfa un senso comune meschino che sarebbe troppo onorato di potersi chiamare “pensiero unico” – perché “pensiero”? parole d’ordine di plastica vengono in soccorso alla povertà concettuale estrema cui siamo ridotti. Sarà dunque necessario ripercorrere in dettaglio i dispositivi introdotti dall’accordo di integrazione, tra cui la trovata del cosiddetto “permesso di soggiorno a punti”, entrato in vigore il 10 marzo scorso nell’indifferenza dei più e con l’adesione di non pochi. Tra gli aderenti va menzionata anche quella miriade di “agenzie” di varia credibilità, che si occupano ormai stabilmente di espletare le pratiche per i migranti e i loro datori di lavoro, e che nei loro siti contribuiscono a costruire un’immagine dello straniero svalorizzata e assistenzialistica, stando ben attente, nella maggior parte dei casi, a eludere una riflessione critica sui provvedimenti cui sono sottoposti gli immigrati.
3. Un contesto significativo
È proprio al contesto politico in cui è nato il Pacchetto Sicurezza che bisogna riportare il provvedimento in questione: non solo per inserirlo nel percorso di stupido incattivimento voluto dall’allora ministro della Lega Nord e condiviso dal governo allora in carica, ma anche per coglierne il carattere non accidentale ma di “coronamento (…) del progetto in atto (…) di riorganizzazione sociale e istituzionale fondata sulla sostituzione del
welfare con il controllo repressivo e sull’abbattimento del principio – anzi, della stessa idea – di uguaglianza” (Pepino, 2009). Il “formidabile attivismo del legislatore di centro-destra” (Zorzella, 2011) non ha trovato opposizione in Parlamento, anzi: per una efficace ricostruzione storica di questa stagione normativa anti-immigrati non va dimenticato il ruolo svolto nella legittimazione del nesso insicurezza-immigrazione e nell’avvio del “Pacchetto sicurezza” dal ministro di centro-sinistra Giuliano Amato e da alcuni sindaci di analogo schieramento politico, tra cui Veltroni e Domenici, che hanno rivendicato per sé “nuovi poteri”. La stagione tragicomica dei cosiddetti “sindaci sceriffi” (Bontempelli, 2009), segnata nel Comune di Pisa dalla firma dell’
ordinanza anti-borsoni da parte del sindaco Filippeschi, ha trovato un argine nella
sentenza della corte Costituzionale n. 115 del 2011. La consulta ha accolto i rilievi di incostituzionalità (Guazzarotti, 2011) su alcuni punti della legge n. 125 del 24 luglio 2008 (Zorzella, 2008): una gemella della legge 94 del 2009 anch’essa, del resto, fatta oggetto di numerosi rilievi di incostituzionalità.
Nel corso degli ultimi anni, in effetti, il Pacchetto Sicurezza è stato più volte oggetto di censura da parte dei giudici della Consulta. Si veda ad esempio la sentenza n. 359 del 2010, che dichiara illegittima la mancata previsione del “giustificato motivo” per punire lo straniero che, espulso, si trattenga nel territorio dello stato (Vanorio, 2011), la sentenza n. 245 del 2011, che dichiara illegittimo il divieto di matrimonio per uno straniero privo del permesso di soggiorno (Zanobetti, 2011) e la sentenza n. 331 del 2011, che dichiara “l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis” (sempre introdotto dalla della legge n. 94) “nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal comma 3 del medesimo articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, (…) non fa salva l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”.
È in questo quadro, segnato dal passaggio da una “inferiorizzazione dei migranti” ad un vero e proprio “diritto penale del nemico”, puntellato da numerose infrazioni alla Costituzione, che l’imposizione di fondo dell’accordo di integrazione rivela quest’ultimo come un vero e proprio accordo-imbroglio.
4. Un “accordo” obbligato
A parte la moltiplicazione degli elementi di illegittimità, buone ragioni per diffidare delle leggi e delle circolari sull’immigrazione attualmente in vigore provengono da alcune modalità sintattiche e figure retoriche ricorrenti nel linguaggio del legislatore e dell’amministrazione: tra queste, oltre alla ripetizione ridondante ed ossessiva del termine “straniero” (Faso, Pona, 2011), svolge un ruolo particolare l’ossimoro, privato purtroppo delle sue capacità di moltiplicazione di senso, e praticato invece nella sua capacità di imbroglio e raggiro. Come abbiamo avuto i Centri di
permanenza temporanea, ora viene imposto un
accordo di integrazione
obbligatorio. A nutrire tutti questi ossimori è probabilmente il peggiore, e più pericoloso dal punto di vista giuridico, tra i paradossi a cui siamo oggi confrontati: quello dell’
emergenza stabilizzata (Staiano, 2006;
Cabiddu, 2010).
In punta di diritto, non sono mancati dubbi sul potere regolamentatore affidato al
Decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 179, avente ad oggetto l’accordo di integrazione tra gli immigrati e lo Stato. Una giurista competente e attenta come Nazzarena Zorzella (2011), sostenendo la tesi dell’illegittimità del suddetto DPR, ricorda anche che esso non può essere rinviato alla Corte Costituzionale, in quanto fronte normativa secondaria, e perciò “può solo essere disapplicato dal giudice amministrativo in sede di sua impugnazione”.
Vale la pena leggerlo integralmente il già ricordato articolo 4-bis, inserito nel Testo unico sull’immigrazione con la legge 15 luglio 2009 n. 94, che introduce l’accordo di integrazione. Se ne segnalano in corsivo alcuni passaggi cruciali.
Articolo 4-bis
Accordo di integrazione
1. Ai fini di cui al presente testo unico, si intende con integrazione quel processo finalizzato a promuovere la convivenza dei cittadini italiani e di quelli stranieri, nel rispetto dei valori sanciti dalla Costituzione italiana, con il reciproco impegno a partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società.
2. Entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente articolo, con regolamento, adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca e il Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, sono stabiliti i criteri e le modalità per la sottoscrizione, da parte dello straniero, contestualmente alla presentazione della domanda di rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 5, di un Accordo di integrazione, articolato per crediti, con l’impegno a sottoscrivere specifici obiettivi di integrazione, da conseguire nel periodo di validità del permesso di soggiorno. La stipula dell’Accordo di integrazione rappresenta condizione necessaria per il rilascio del permesso di soggiorno. La perdita integrale dei crediti determina la revoca del permesso di soggiorno e l’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, eseguita dal questore secondo le modalità di cui all’articolo 13, comma 4, ad eccezione dello straniero titolare di permesso di soggiorno per asilo, per richiesta di asilo, per protezione sussidiaria, per motivi umanitari, per motivi familiari, di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, di carta di soggiorno per familiare straniero di cittadino dell’Unione europea, nonché dello straniero titolare di altro permesso di soggiorno che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare.
3. All’attuazione del presente articolo si provvede con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Si noti, al comma 1 dell’art. 4, il riferimento alla “reciprocità” di impegni tra cittadini italiani e stranieri: una alata immagine retorica, che viene smentita dall’articolo stesso, nel momento in cui si impone un “accordo” che impegna una sola delle due parti, attraverso cui viene fatta oltrepassare un’altra frontiera simbolica. Ci sono, infatti, cittadini italiani che non devono sottoscrivere alcun accordo con lo Stato, e non devono mostrare una conoscenza neppur approssimativa della Costituzione italiana, neppure per entrare in parlamento o per scrivere di politica sui grandi quotidiani, come lamenta
Umberto Eco (2012); e poi ci sono cittadini stranieri che devono accettare un
accordo imposto,
aderendo a dei
valori imposti da un Ministero, che decide così quali siano i valori fondanti della nazione di accoglienza sulla base di una interpretazione caricaturale della Costituzione. Come ha notato Zorzella (2011) non si aderisce a dei principi giuridici ma li si condivide, li si accetta: “si aderisce a una religione, a una fede, forse ad un movimento politico, ma non certamente a dei principi giuridici, neppure se contenuti nella Costituzione”. Quanto alla reciprocità, il richiamo è poco più che retorico in assenza di vera uguaglianza giuridica e sociale: essa finisce, paradossalmente, per sottolineare una profonda differenza tra chi fa parte
naturalmentedella comunità e chi deve pagare dazio per entrare, a diritti diminuiti (
Bontempelli, 2008).
L’asimmetria del presunto “accordo” tra Stato e immigrati è evidente. Lo Stato “si impegna” soltanto – e senza alcuna possibilità di verifica – “a sostenere il processo di integrazione dello straniero attraverso l’assunzione di ogni idonea iniziativa”, come riporta il DPR 14 settembre 2011, articolo 2, comma 6. Il che corrisponde a nulla, in mancanza di progetti, finanziamenti, attenzione specifica e coerente da parte del legislatore e degli amministratori. C’è anche una promessa a breve: “nell’immediato, lo Stato assicura allo straniero la partecipazione a una sessione di formazione civica e di informazione sulla vita in Italia secondo le modalità di cui all’articolo 3”. Questo l’accordo: tu sei obbligato ad alcune cose, tra cui seguire un corso: io in cambio ti offro il corso, ma “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.
I termini squilibrati dell’accordo non hanno raffreddato l’adesione entusiastica di alcuni siti che si occupano d’immigrazione. Ne riporto un solo esempio, quello del portale immigrazione.biz aggiungendo i corsivi: “Lo Stato da parte sua garantirà loro i diritti fondamentali delle persone senza alcuna discriminazione, agevolando il più possibile il flusso di informazioni agli stranieri stessi. Ma non solo. Curerà in maniera particolare il controllo del rispetto delle norme del lavoro dipendente e si prenderà cura che gli stranieri abbiano pieno accesso a tutti i servizi sanitari previsti. Sarà possibile inoltre, dopo un mese dalla stipula dell'accordo d'integrazione, la partecipazione gratuita ad una sessione di formazione civica e sulla vita in Italia della durata di un giorno”. La promessa della scomparsa delle discriminazioni suona come la cicatrice di un superamento delle discriminazioni (anticostituzionali, come da prime sentenze della Consulta ) inferte ai diritti dell’uomo dal Pacchetto Sicurezza da cui questo “permesso a punti” deriva.
A che cosa è obbligato, invece, chi richiede un permesso di soggiorno? È quanto stabilisce il Decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 179, all’articolo 2, comma 4: “acquisire un livello adeguato di conoscenza della lingua italiana”; “acquisire una sufficiente conoscenza dei principi fondamentali della Costituzione della Repubblica e dell’organizzazione e funzionamento delle istituzioni pubbliche in Italia”; “acquisire una sufficiente conoscenza della vita civile in Italia”; “garantire l’adempimento dell’obbligo di istruzione da parte dei figli minori”.
Il DPR è accompagnato da un fac-simile dell’accordo da firmare (da parte del solo cittadino straniero), e da tabelle di “crediti riconoscibili” e “crediti decurtabili”: lunghi e dettagliatissimi elenchi, da una parte, di benemerenze da farsi riconoscere, dall’altra di reati, misure di sicurezza e sanzioni. Impressionano da una parte la misurazione accuratissima delle differenze tra crediti (ad esempio: 35 punti per un diploma di qualifica professionale, 36 per un diploma di secondaria superiore), dall’altra la sottolineatura che i crediti vengono decurtati per condanne anche non definitive. Ci si immagina numerosi ricorsi in appello in Prefettura, dopo l’appello in tribunale.
Le modalità dell’adempimento dei primi tre punti sono chiarite per esteso all’articolo 3 della già ricordata Circolare del 7 marzo 2012 del Ministero dell’Interno. Ci vorrebbe un Manzoni, o uno Sciascia, per chiosare la rielaborazione che vi si attua rispetto al DPR. “Lo straniero partecipa gratuitamente alla sessione di formazione (…). La sessione ha una durata non inferiore a cinque e non superiore a dieci ore…”. In queste cinque ore (o dieci che siano) “lo straniero acquisisce in forma sintetica, a cura dello sportello unico, le conoscenze di cui all’art. 2, etc.”, e cioè: “una sufficiente conoscenza dei principi fondamentali della Costituzione (…) e dell’organizzazione e funzionamento delle istituzioni pubbliche in Italia”; “una sufficiente conoscenza della vita civile in Italia, con particolare riferimento ai settori della sanità, della scuola, dei servizi sociali, del lavoro e degli obblighi fiscali”. La stessa circolare avverte che “sono stati predisposti 5 moduli di apprendimento di educazione civica, in formato video, della durata di un’ora ciascuno, per complessive cinque ore”, tradotti in varie lingue e disponibili sulla rete intranet del Ministero dell’interno.
Ma queste quisquilie sono trattabili, in forma sintetica, in troppo poco tempo. E allora, sempre in in forma sintetica, l’articolo 3 comma 2 prevede che vengano fornite informazioni su:“diritto e doveri degli stranieri in Italia”; “facoltà e obblighi inerenti al soggiorno”; “diritti e doveri reciproci dei coniugi e doveri dei genitori verso i figli secondo l’ordinamento giuridico italiano, anche con riferimento all’obbligo di istruzione”; principali iniziative a sostegno del processo di integrazione degli stranieri a cui egli può accedere nel territorio della provincia di residenza”; “normativa di riferimento in materia di salute e sicurezza sul lavoro”.
Risalta, in questo programma di educazione civica in pillole, l’ormai nota meccanica specularità diritti/doveri. Così come risalta la variante sinonimica, diritto/facoltà, doveri/obblighi. Negli ultimi anni, trainato da irresponsabili politici anche di centro-sinistra, si è continuato a suggerire un micidiale “scambio” tra diritti e doveri, riguardante i nuovi arrivati e gli immigrati in generale. Non ho nulla in contrario ad una riflessione sui doveri di cittadinanza, anzi. Ma per riflettere sui doveri bisognerebbe evitare di inserirli in una formula che suggerisce scambi con i diritti, e cercare di comprendere perché diritti e doveri di cittadinanza riguardano momenti diversi della realtà sociale e delle sfere istituzionali. Quando Mazzini proponeva uno slittamento dal discorso dei diritti a quello sui doveri, con una mossa di cui oggi bisognerebbe approfondire il senso, era ben consapevole che la sostituzione dei doveri ai diritti non implicava affatto uno scambio, ma caso mai un mutamento di prospettiva, nella consapevolezza che i tempi dei diritti non corrispondono a quelli dei doveri (Zagrebelsky, 1992).
4. Altresì
Il buon Dio, si sa, abita nei dettagli. Anche il diavolo, però, vi attua notevoli
performance. E predilige – come abitazione – non i libri o la vita, ma i titoli dei giornali, con le loro sottigliezze pragmalinguistiche, o gli articoli di legge, scritti da aggiornati Azzeccagarbugli. Si tratta di un campo ancora in massima parte da scandagliare, quello della “lingua del razzismo” (
Faso, 2009): le analisi hanno preferito fermarsi al “lessico”, più facilmente processabile con metodi quantitativi.
Nella legge n. 125 del 2008, sulle “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”, l’illegittimità costituzionale in materia di poteri speciali dei sindaci era stata ottenuta inserendo nella legge un “anche”. Così i primi cittadini avrebbero potuto deliberare usando poteri straordinari anche (e non soltanto) in casi di straordinarietà. L’inserimento subdolo aveva fatto presto scuola, se l’ordinanza di un sindaco, in Veneto, lo aveva ripetuto in altro contesto, facendo divieto di richiesta di mendicità anche in forma invasiva e molesta. Sulla scia degli ingegnosi aggiratori ministeriali della costituzione, anche gli sceriffi sembrano aver capito che basta introdurre un anche per rovesciare il senso di una legge e sospendere le garanzie dello Stato di diritto.
Diversa funzione, ma sintomatica, riveste nel decreto che regola il “permesso a punti” un sinonimo burocratico di
anche. Lo straniero dichiara,
altresì, di aderire alla
Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione di cui al decreto del Ministro dell'Interno in data 23 aprile 2007, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 137 del 15 giugno 2007, e si impegna a rispettarne i principi.
In verità, il richiamo alla “Carta dei valori”, che a suo tempo, voluta dal ministro Amato, fu accolta con squittii di approvazione da parte di intellettuali democratici di frettolosa e pregiudicata attenzione, non è un’aggiunta, ma rivela il carattere di imposizione del cosiddetto “accordo”, fondato, come la “Carta”, sulla produzione di un’immagine svalorizzante e densa di pregiudizi dei mondi e delle persone degli immigrati, ridotti a luoghi comuni, e di una, opposta, immagine idealizzata fino al ridicolo di un’Italia madre e garante di diritti per donne e bambini, nonché (direbbe il burocrate) portatrice di pace nel mondo. In particolare, quanto sappiamo sull’investimento nell’istruzione della stragrande maggioranza dei migranti presenti in Italia contraddice questa infamante trovata dei legislatori, che evidentemente non sono a conoscenza dei percorsi di inserimento familiare, dei sacrifici, della volontà ferma di fare studiare i figli, e proiettano sugli immigrati abitudini di elusione che sono state invece diffuse in alcune zone d’Italia fino a pochi decenni fa, per cause sociali allora ben comprensibili, ma ovviamente sempre trascurate ad arte dal razzismo anti-meridionale e anti-contadino.
5. Ci vogliono nuovi doveri, e più alti
Come in quella Carta, nell’accordo convivono un carattere di dispettosa e cieca imposizione, che non sa neanche immaginare i probabili effetti devastanti di tanta voluta umiliazione, ed una funzione di pura propaganda auto-celebrativa. Nel vuoto crescente di tessuti civili, nell’incapacità di costruire valori e doveri unitari, si preferisce ricavare un’immagine falsa di un “noi civilizzato” contrapponendola a quella di una una massa indistinta e selvaggia, che non manderebbe neppure i suoi figli a scuola, se non glielo imponessimo. Se il legislatore avesse davvero voluto offrire a genitori migranti l’opportunità di assicurare ai figli una buona carriera scolastica, che risultasse anche strumento della cosiddetta “integrazione” (Faso, 2008; Ambrosini, 2008), non avrebbe rovesciato l’immagine di un diritto cui aspirano (all’istruzione dei propri figli) in quella di un dovere cui si sottrarrebbero, loro, gli incivili.
Questo paese sofferente e sciagurato avrebbe bisogno di provare a risollevarsi, magari puntando su “nuovi doveri, e più alti”, come quelli intravisti da Vittorini (1966) negli ultimi anni del fascismo. Non aiutano, i provvedimenti di un’Amministrazione che, a corto di idee e di legittimazione, preferisce proporre ferrivecchi razzisti, con l’immagine di due mondi separati, noi da una parte, loro dall’altra. Non si pensa certo all’efficacia della legislazione, quando si umilia così la vita di chi potrebbe concorrere a ricostruire la vita civile offesa da decenni di enormi difficoltà. Ma il tentativo di umiliare l’immigrato in quanto tale e di governare attraverso la separazione e la paura non può che avere effetti devastanti sulla vita civile.
Caduto, con il governo Berlusconi, il ministero leghista, forze politiche in cerca di nuova credibilità e nuovo governo potrebbero, anche per via amministrativa, cominciare a ridurre i danni di questo ultimo decennio, in modo da consegnare alla storia questo provvedimento come un “ultimo colpo di coda di un governo cattivo”, come suona l’auspicio di Zorzella (2011). Un auspicio, cui bisogna lavorare concretamente, nonostante sia smentito dalla memoria delle complesse responsabilità che hanno dato corpo al razzismo delle istituzioni, e ai primi passi amministrativi del presente governo, anche in questo campo.
Riferimenti bibliografici
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Buber, M., Storie e leggende chassidiche, Mondadori, Milano, 2008.
Cabiddu, M. A. “Stato di eccezione”, Amministrazione in cammino, luglio 2010.
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Faso, G. "La lingua del razzismo: alcune parole chiave", in G. Naletto (dir.), Rapporto sul razzismo in Italia, Manifestolibri, Roma, 2009, pp. 29-36.
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