Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 31 maggio 2014

Un primo maggio ed un 25 aprile speciali grazie ad un grande capitano

Luciano Granieri


1 maggio 1983.
Io e Mauro, non ricordo per quale motivo,  non potemmo  andare allo stadio ad assistere a Roma Avellino. Una giornata importante perché con una vittoria la Roma di Di Bartolomei Falcao e soci, poteva matematicamente vincere lo scudetto con  due giornate d’anticipo. Un peccato non esserci, dopo aver gioito, ma anche sofferto, quasi tutte le domeniche nel seguire dalla curva sud le gesta dei ragazzi di Liedholm.  Con Mauro ci siamo dati appuntamento a  casa sua.  Dopo aver visto il gran premo di Imola finito con una rocambolesca vittoria di Tambay sulla Ferrari, ottenuta  a seguito di un fuori pista  all’ultimo giro di Riccardo Patrese che fino ad allora aveva dominato la gara,  decidiamo   di   fare un giro in macchina con la radio a palla ascoltando tutto il calcio minuto per minuto.  Peccato, veramente peccato non essere allo stadio. La prima notizia arriva da Torino, dove l’Inter passa in vantaggio sulla Juve con Altobelli. Se vinciamo siamo campioni d’Italia. Mauro ed io parliamo a mono sillabi, lui non riesce più a guidare. Realizziamo che conviene fermarsi per evitare incidenti. Parcheggiamo davanti al palazzo della Provincia.  C’è una punizione per la Roma.  Centi commette fallo sul capitano Di Bartolomei.  Falcao batte e da venti metri fa partire un missile terra aria che si infila in rete. Uno  a zero. Classifica: Roma 40, Juve 35. Roma campione d’Italia. Apriamo le portiere Mauro scende e comincia a girare intorno alla macchina. Io rimango con un piede fuori e l’altro dentro a tormentare il tappetino.  Punizione   per l’Avellino. Calcia Vignola ma il suo tiro fortunatamente ha una sorte diversa rispetto al bolide di Falcao, si stampa sulla traversa e la Roma si salva. Più attenzione accidenti! bisogna portarla a casa a tutti i costi.  Mentre continuiamo tutti e  due come scemi a girare intorno alla macchina, dalla radio irrompe l’esplosione dell’Olimpico. Dopo un azione tambureggiante la palla arriva a capitan Di Bartolomei. Gran botta d’esterno destro e la rete alle spalle di Tacconi si gonfia per il due  a zero. Ancora il capitano, ancora Di Bartolomei con il suo 7° sigillo stagionale stava per far entrare la Roma nella storia. Mauro non si tiene, imbocca verso Via Firenze, anch’io scendo dalla macchina e comincio a camminare, direzione  Via Brighindi. Probabilmente lasciamo la macchina con gli sportelli aperti, la radio accesa e le chiavi infilate nel cruscotto. Non so cosa sia successo nei minuti successivi, non mi ricordo dove sono andato, se sono rientrato  in macchina. Eravamo ebbri di gioia. Ma quando siamo tornati in noi, la Juve aveva pareggiato con Bettega. Roma 40, Juve 36. Lo scudetto non era vinto, ma a Genova la domenica successiva, sarebbe bastato un paraggio per chiudere il discorso. Sarebbe stata una formalità. Lo capimmo vedendo nel corso di “Novantesimo minuto l’esultanza irrefrenabile di Agostino Di Bartolomei dopo il gol del 2 a 0. Mai Agostino, un calciatore estremamente lucido e compassato aveva festeggiato così. Un esultanza del genere significava una sola cosa “SCUDETTO”.

25 aprile 1984
E’ un pomeriggio dalle temperature estive, nonostante sia aprile. Il sole picchia sulle gradinate della curva. La sud è festante come al solito, anche se la paura di non riuscire a ribaltare lo zero a due rimediato a Dundee contro il Dundee United, si percepiva  forte e chiara. Con Alberto, ed altri amici, avevamo visto la partita d’andata, persa in Scozia, nella sua casa di Pomezia. In una triste serata, piovosa  Derek Starks e David Dodds ci mandarono di traverso la pizza e la birra che stavamo consumando davanti alla TV. Ed ora eccoci  a spingere dalla curva Di Bartolomei e compagni affinchè segnassero i tre gol necessari ad andare in finale senza subirne alcuno. La paura si tramuta in fiducia vedendo giocare la squadra. Del resto avevamo già  rifilato tre gol alla Dinamo di Berlino, dunque si  poteva fare  . Undici uomini facevano correre il pallone come se la certezza di riuscire a passare il turno fosse granitica  . Bruno Conti và in gol ma l’urlo ci si spezza in gola. La rete è annullata per fuori gioco. Il terrore si materializza qualche minuto dopo quando su un cross di Bannon,  Milne  a porta vuota spedisce in tribuna. Ma non c’è problema. Roberto Pruzzo è in grande spolvero . Angolo di Bruno Conti, girata di testa del bomber ed è uno a zero. Nelle gradinate succede il parapiglia, salto ad abbracciare Alberto e gli altri ragazzi. Ma ci ricomponiamo subito. La strada è ancora lunga. Lancio millimetrico di Di Bartolomei per Maldera, il quale manda in area per Pruzzo. Stop di petto e giravolta  in scivolata per il due a zero. Pari e patta. Stavolta l’esultanza è quasi incontenibile. Un massa umana mi salta addosso urlante e festante. Fine primo tempo. Tutti pensano “E’ FATTA” ma nessuno osa dirlo. C’è da segnare ancora, e soprattutto non bisogna prendere gol.  La Roma non si scompone.  Nel secondo tempo scende in campo con la freddezza  e la calma dei forti e infatti dalla nostra metà campo, Graziani serve sulla corsa Cerezo, da questi a Conti che libera Pruzzo  tutto solo davanti al portiere. Ma per entrare nella storia serve lui il capitano.  Agostino di Bartolomei.  Così Pruzzo viene atterrato dal portiere Mc Alpine e sul dischetto del rigore va Di Bartolomei. Freddo come al solito, senza neanche prendere la rincorsa spiazza il portiere  scozzese. Tre a zero e che la festa abbia inizio. Alberto comincia a saltare come tarantolato. Nella bolgia degli abbracci gli cadono gli occhiali e lui ci salta sopra riducendoli in poltiglia. Solo a partita finita Alberto realizza della gravità del danno. Ma per una finale di Coppa dei Campioni, si possono anche ricomprare un paio di occhiali anche se cososi. Ancora Di Bartolomei, l’umile ma autorevole capitano. IL CAPITANO, prima dell’avvento di Totti ovviamente, aveva segnato l’ennesima pagina  importante nella storia della Roma. L’ultima immagine che ricordo di quella giornata è la passeggiata con Alberto orbo ed altri amici per Via del Corso, attorniato di bandiere giallorosse  con i colori di un tramonto mozzafiato che  abbellivano, l’improbabile sagoma dell’Altare della Patria in fondo alla strada.  Uno degli artefici di queste intense emozioni sportive, Agostino Di  Bartolomei, il 30 maggio di vent’anni fa decideva di farla finita con la vita, sparandosi un colpo di pistola alla tempia. Non so se   avrà pensato prima di spararsi a quanti momenti belli, come quelli che ho appena descritto, aveva regalato a centinaia di migliaia di persone. Chissà magari questo pensiero avrebbe fermato la sua mano suicida. Non so se sarebbe bastato. So solo che  personalmente devo ringraziarlo per avermi regalato delle piccole gioie. Perché le gioie del calcio sono piccole, non ti cambiano la vita, ma aiutano. Grazie Capitano.


venerdì 30 maggio 2014

Palestina resistente

Samantha Comizzoli


Questo video è dedicato a chi cerca di fermare gli shebab. Oggi a Kufr Ad-Dik ho visto la Resistenza Palestinese, libera, rubare la bandiera israeliana in un cantiere illegale e bruciarla, tirar giù la tenda del cantiere. Resistere. Libera da OGNI OCCUPAZIONE.

Buona notte dalla Palestina occupata.

Ed eccolo quell'articolo di Repubblica su Giovanni Falcone

fonte: http://www.fanpage.it/

Abbiamo recuperato l'introvabile articolo di Sandro Viola che nel gennaio 1992 si scagliava contro Giovanni Falcone, accusandolo di essere un "guitto televisivo". Qualche giorno dopo sullo stesso giornale Giuseppe D'Avanzo difendeva il giudice antimafia: "Non ha mai avuto una vita facile".

 
È il 9 gennaio del 1992, un giovedì. Il quotidiano la Repubblica in quel periodo vende mediamente circa 750mila copie. Nella pagina dedicata ai commenti viene pubblicato un articolo dal titolo “Falcone, che peccato…” vergato da Sandro Viola, firma di punta del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. L’argomento del commento è il giudice antimafia che Viola prende di mira per via della sua esposizione mediatica. Un pezzo durissimo che oggi, a vent’anni dalla strage di Capaci che fece saltare in aria Falcone, la moglie e la scorta, ritorna a galla con la violenza d’una colpa. L’articolo, introvabile nell’archivio online di Repubblica, è oggetto di discussione in queste ore sulla Rete, ma nessuno l’ha pubblicato integralmente, in maniera da consentire al lettore un’autonoma valutazione.

L’articolo contro Giovanni Falcone

Eccolo, l’articolo, in versione integrale: recuperato grazie all’Emeroteca Tucci di Napoli. Che ognuno faccia le sue valutazioni dopo averlo letto.



 
Viola attacca definendo Giovanni Falcone “magistrato che alla metà degli anni Ottanta inflisse alcuni duri colpi alla mafia”. Una definizione quanto meno riduttiva per l’anima del maxi-processo di Palermo, per colui che, lo dicono i suoi colleghi magistrati, individuò nuove tecniche e nuovi metodi per l’approccio alla questione mafiosa. Continua Viola: “da qualche tempo sta diventando difficile guardare al giudice Falcone col rispetto che s’era guadagnato”.
Poi, l’accusa di essere diventato una sorta di esternatore, al pari dell’allora Capo dello Stato, il “picconatore” Francesco Cossiga: “Egli è stato preso – scrive Viola su Repubblica – infatti, da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare, che oggi rappresenta il più indecente dei vizi nazionali. Quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle pagine dei giornali o negli studi televisivi, che divora tanti personaggi della vita italiana – a cominciare, sfortunatamente per la Repubblica, dal Presidente della Repubblica”.
La preoccupazione dell’editorialista è che Giovanni Falcone abbia perso il suo equilibrio. Gli chiede di lasciare la magistratura viste le sue rubriche sulle pagine dei giornali: “Perché nessun paese civile ha mai lasciato che si confondessero la magistratura e l’attività pubblicistica”.
“Quel che temo, tuttavia – continua il pezzo – è che a questo punto il giudice Falcone non potrebbe più placarsi con un paio di interviste all’anno. La logica e le trappole dell’informazione di massa, le sirene della notorietà televisiva tendono a trasformare in ansiosi esibizionisti anche uomini che erano, all’origine, del tutto equilibrati”. Poi si passa all’analisi, anzi alla demolizione, del libro ‘Cose di cosa nostra’ scritto da Falcone con la giornalista francese Marcelle Padovani pure lei nel mirino della penna al vetriolo di Viola: “E scorrendo il libro-intervista di Falcone ‘Cose di cosa nostra’ s’avverte (anche per il concorso di una intervistatrice adorante) proprio questo: l’eruzione di una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi”.
Nel finale, Viola, pur ammettendo di trovarsi davanti ad un “valoroso magistrato” si chiede “come mai desideri essere un mediocre pubblicista”. Il giornalista ignorava che il giudice aveva intuito qualcosa: la necessità di comunicare ad una platea più vasta, da magistrato, la mentalità mafiosa. Inoculare il virus ai giovani come un vaccino, in maniera da renderli resistenti al fascino della cultura dell’omertà e della morte.
“Non ha mai avuto una vita facile e anche stavolta c’è chi farà di tutto per rendergliela difficile”: qualche giorno dopo, dalle colonne della stessa Repubblica, qualcuno scriveva questa frase, riferendosi a Giovanni Falcone. Quel qualcuno si chiamava Giuseppe D’Avanzo.


 

FROSINONE MULTISERVIZI: AGGIORNAMENTO

Comitato di Lotta


Nel 52° giorno di presidio sotto il comune di Frosinone la Commissione Consiliare che sta lavorando con i capigruppo si è data finalmente il termine dei lavori: mercoledì 4 giugno.
Quel giorno verrà presentato il piano d'impresa, che riassume le tre proposte dei tre enti coinvolti, Frosinone, Alatri e la Provincia. Esso verrà adottato politicamente da tutte le forze e, dopo un incontro con le parti sociali, verrà discusso in sede regionale. 
Insomma ciò che poteva essere partorito un anno fa e che è stato osteggiato in lungo e in largo dalla maggioranza consiliare del Comune di Frosinone sarà finalmente redatto.
Ora, si direbbe, qualunque fossero i motivi ostativi precedenti è importante che si approdi ad una soluzione oggi. Indubbio. 
Il Comune di Frosinone continua a tenere però un piede in due scarpe: il 10 giugno dovranno aprire le offerte per l'attribuzione di servizio di custodia e pulizia degli impianti sportivi, nonostante gli sia stato chiesto di rinviare tale data, visto il tavolo di discussione aperto. 
I lavoratori quindi rimangono vigili. Finché non vi sarà un definito accordo tra le parti essi non abbandoneranno il presidio. 
Per prima cosa gli enti non mancano nel lamentare situazioni amministrative che sarebbero ancora da superare... Poi, la situazione debitoria della Società Frosinone Multiservizi. Essa si va aggravando non solo perché aumenta il debito ma a seguito di decreti ingiuntivi dei lavoratori che hanno vinto le cause che ammontano a €.900.000,00. I liquidatori, che hanno nel frattempo convocato l'Assemblea dei Soci, vengono di giorno in giorno avvolti dalla fitta nebbia delle responsabilità e sempre più isolati da quelli di cui si erano fatti suggerire la strada da percorrere. Dalla situazione creatasi essi non hanno più tempo da perdere per cercare di non rimanere gli unici responsabili di questa annosa vicenda. 
Eppure essi avevano correttamente suggerito la strada maestra per impedire il precipitare degli eventi: ridefinire una nuova società e ridare i posti di lavoro a chi era stato tolto. Una conciliazione possibile tra i diversi interessi porterebbe la situazione debitoria e la posizione dei singoli attori (cooperative comprese) su un piano di serena discussione e non, come oggi, ad una guerra di carte bollate tra tutti i contendenti con cifre da capogiro.
Le strade della newco e della chiusura della Frosinone Multiservizi viaggiano su percorsi diversi? La posizione dei singoli attori non è chiara in proposito. Lo sarà oramai a breve.

Su un possibile governo di Syriza


 Eduardo AlmeidaLit-Quarta Internazionale

La posizione degli opportunisti e quella dei rivoluzionari


La vittoria di Syriza alle elezioni per il parlamento europeo apre la possibilità reale che questo partito arrivi al governo di quel Paese alle prossime elezioni.
Pedro Fuentes, responsabile relazioni internazionali del Psol [partito brasiliano, ndt] e uno dei dirigenti più importanti del Mes [corrente interna di questo partito, legata al Segretariato Unificato, l'organizzazione che ha come riferimento in Italia Sinistra Anticapitalista di Turigliatto, ndt], ha pubblicato alcuni giorni fa, il testo “Se Syriza vince le elezioni, cosa comporta questo riguardo la questione del potere?”; nel quale afferma che un possibile governo Syriza in Grecia sarebbe un governo operaio, e che la partecipazione ad esso sarebbe in accordo con i criteri definiti dalla Terza Internazionale.
Non siamo d'accordo. Ma è vero che la combinazione di crisi economica, ascesa delle lotte delle masse, crisi della socialdemocrazia, sta aprendo la possibilità che per la prima volta uno dei cosiddetti “partiti anticapitalisti” arrivi davvero al governo.
È necessario, quindi, discutere con chiarezza che carattere avrebbe un governo come questo e quale dovrebbe essere la posizione dei rivoluzionari di fronte a questo governo.

Affrontare la realtà è parte del metodo marxista
Il testo di Pedro comincia cercando di mascherare le posizioni difese attualmente da Syriza.
"È evidente che ci sono importanti settori della sinistra anticapitalista che, ora con Syriza molto vicina a salire le scale del potere, consumano ore dibattendo sulle caratterizzazioni per terminare affermando, in modo abbastanza superficiale, che Syriza ha subito un cambiamento qualitativo ed è già parte del regime. Queste caratterizzazioni hanno origine nelle dichiarazioni di Tsipras, il quale dichiara che la Grecia non uscirà dall'Euro e che sarebbe disposta a negoziare con gli organismi finanziari internazionali, e/o si basano sull'attitudine presa da Syriza nel senso di dialogare con personalità che hanno rotto con il Pasok, ma che, all'epoca, votarono a favore del memorandum, o anche fondate nel fatto che Syriza ha rifiutato di partecipare alle manifestazioni di protesta contro le celebrazioni per l'inizio del semestre della Grecia di presidenza dell'Unione europea".
Negare la realtà non è una buona metodologia per nessun tipo di analisi, ancor meno per il marxismo. Da quando Syriza concorse alle elezioni del 2012, aprendo la possibilità di arrivare al governo per via elettorale, si dedicò principalmente a dimostrare alla borghesia europea la sua “affidabilità”.
Si tratta di un modo di fare conosciuto dai brasiliani, simile a quello seguito da Lula con la “Lettera ai brasiliani” in cui assicurava il capitale finanziario che, con la sua vittoria, nulla sarebbe cambiato nella politica economica. Contrariamente a quanto dice Pedro, non si tratta di “alcune dichiarazioni” di Tsipras ma dell'essenza della posizione di questa organizzazione, per evitare una reazione della borghesia.
Questa posizione di Pedro sarebbe simile a una sottovalutazione della “Lettera” di Lula nel 2002. Un errore catastrofico, nella misura in cui quella lettera è stato il marchio di fabbrica di tutti i governi del Pt succedutisi finora.
Non si può comparare la situazione di crisi economica e politica greca con quella brasiliana dei primi governi Lula, o Syriza con il Pt.  Ma si può dire che la posizione politica di Tsipras è simile a quella di Lula nel 2002, e che questo illustra quale è il progetto strategico di Syriza.

Syriza si appresta a lottare per il potere?
Pedro Fuentes pone una questione fondamentale: "Bisogna chiedersi, quindi, se l'emergere di un'alternativa di potere di sinistra fuori del regime, che esprime una rottura con esso, è un percorso bloccato nel prossimo periodo. Sembra di no. Al contrario, la disputa che si verifica in Grecia dimostra che questa ipotesi è aperta".
Pedro afferma che Syriza può arrivare al potere in Grecia. È così? Il marxismo fa una chiara distinzione tra l'arrivare al governo e la presa del potere. Il potere è definito dal potere dello Stato, che ha come suo nucleo centrale le forze armate.
Lo Stato borghese è la base del dominio di classe della borghesia, per il controllo che le classi dominanti mantengono sull'economia e sulla società nel suo complesso. Il governo è una parte fondamentale delle istituzioni politiche dello Stato ma non definisce il centro del potere, che è basato sul controllo delle forze armate. Arrivare al governo senza prendere il potere, senza distruggere lo Stato borghese, significa servire e amministrare questo Stato per la borghesia. Questo governo passa ad avere un carattere di classe borghese, per il tipo di Stato che questo governo amministra, per la classe borghese che controlla lo Stato. Questo è stato il ruolo della socialdemocrazia europea, così come del Pt in Brasile.
O può essere che l'obiettivo di un possibile governo Syriza sia distruggere lo Stato borghese. È forse vero che Syriza si appresta a prendere il potere, distruggere lo Stato borghese e fare una rivoluzione? Tsipras, che è un leader riformista con una certa coerenza, prenderebbe questa come una calunnia di coloro che sono interessati a che il suo partito perda voti in Grecia.
Può essere che Pedro Fuentes abbia lasciato da parte questo abc del marxismo della differenziazione fra il governo e il potere dello Stato. Ma questo è un errore grave.
Nel passato, correnti riformiste risolvevano questo dilemma sostenendo la “via elettorale al socialismo”, la strategia parlamentare riformista che puntava a una riforma progressiva dello Stato borghese per via elettorale. Secondo questa visione, bastava accumulare voti affinché fosse assicurata in futuro una via pacifica al socialismo. Questa è stata la base di tragedie come la sconfitta di Allende in Cile e innumerevoli altri disastri. La borghesia userà sempre il suo controllo delle forze armate –il potere dello Stato– per mantenere il suo dominio economico.
Dalla fine del secolo scorso –e in maniera generalizzata dalla restaurazione del capitalismo nell'Est europeo– la socialdemocrazia europea e i partiti riformisti nel loro insieme hanno abbassato chiaramente il loro orizzonte strategico. Hanno abbandonato una volta per tutte ogni prospettiva di porre fine allo Stato borghese e raggiungere il socialismo. Sono passati al binomio riforme all'interno del capitalismo + democrazia borghese. Ossia, non si propongono di distruggere lo Stato. La strategia è chiara: arrivare al governo per via elettorale e amministrare lo Stato borghese.
Questa è anche la strategia di Syriza. Vincere le elezioni e fare, dal governo, riforme all'interno del capitalismo e dello Stato borghese.
E qual è la strategia di Pedro e del Mes? È la “via elettorale per il socialismo”? È la stessa di Syriza, di arrivare al governo amministrando lo Stato borghese?

I criteri della Terza Internazionale legittimerebbero la partecipazione in un possibile governo Syriza?
È interessante notare come le posizioni del Mes siano sempre presentate come “attualizzazioni” del marxismo. Il revisionismo è una maniera di assumere posizioni riformiste senza dirlo chiaramente, coprendo le proprie posizioni rivendicando Marx, Lenin e Trotsky.
Pedro Fuentes giustifica l'appoggio e la partecipazione in un eventuale governo Syriza a partire dalle definizioni della Terza Internazionale: "Da questo si possono dedurre due cose: 1) ci sono le condizioni per difendere i governi antiausterità come nuovi tipi di governi dei lavoratori e contadini o popolari come quelli che la Terza Internazionale suggeriva; 2) la composizione di questi governi e la rappresentanza dei lavoratori negli stessi hanno possibilità di assumere differenti forme, che non sappiamo esattamente quali possano essere, sebbene tutte queste escludano dall'inizio i vecchi partiti borghesi europei e la vecchia socialdemocrazia. Nelle risoluzioni del suo IV Congresso, la Terza Internazionale (la migliore scuola di strategia e tattica rivoluzionaria) tracciò concetti fondamentali circa l'atteggiamento dei comunisti di fronte ad un governo di organizzazioni operaie e contadine che non fosse sotto la direzione di un partito rivoluzionario. Erano a favore del partecipare ad un governo operaio e contadino (ora sarebbe un governo operaio e popolare) come una continuazione della politica di fronte unico operaio con tali organizzazioni. Stabilivano come condizione che i suoi rappresentanti stessero sotto la disciplina del partito e dell'Internazionale. Fatte salve le dovute proporzioni, questo sarebbe un governo di Syriza e, pertanto, la sinistra rivoluzionaria dovrebbe farne parte".
Il revisionismo sfrutta la mancanza di conoscenza storica dei nuovi attivisti per dare una legittimità marxista alle sue posizioni riformiste. Per questo, si appoggiano su qualsiasi citazione fuori contesto di uno qualsiasi dei nostri maestri per deturparne le posizioni.
La Terza Internazionale, nella sua discussione sui governi operai nel IV Congresso, cercava in primo luogo di contrastare la partecipazione a governi socialdemocratici borghesi. Basta leggere la risoluzione nel suo complesso per intendere questo chiaro concetto: "Contro la coalizione aperta o mascherata tra la borghesia e la socialdemocrazia, i comunisti oppongono il fronte unico di tutti gli operai e la coalizione politica ed economica di tutti i partiti operai contro il potere borghese, per la sconfitta definitiva di quest'ultimo. Nella lotta comune degli operai contro la borghesia, tutto il potere dello Stato dovrà passare nelle mani del governo operaio e le posizioni della classe operaia saranno in questo modo rafforzate. Il programma più elementare di un governo operaio deve consistere nell'armare il proletariato, nel disarmare le organizzazioni borghesi controrivoluzionarie, nell'instaurare il controllo della produzione e fare ricadere sui ricchi il maggior peso delle imposte, e nel distruggere la resistenza della borghesia controrivoluzionaria".
La risoluzione della Terza mette in guardia contro i falsi “governi operai”, portando come esempi i “governi operai liberali e socialdemocratici”: "I primi due tipi di governi operai non sono governi operai rivoluzionari, bensì governi camuffati di coalizione tra la borghesia e i dirigenti operai controrivoluzionari. Questi 'governi operai' sono tollerati nei periodi critici di fragilità della borghesia per ingannare il proletariato sul vero carattere di classe dello Stato o per ritardare l'attacco rivoluzionario del proletariato e guadagnare tempo, con l'aiuto dei dirigenti operai corrotti. I comunisti non dovranno partecipare a simili governi. Al contrario, smaschereranno impietosamente davanti alle masse il vero carattere di questi falsi 'governi operai'".
Nonostante ciò, la Terza afferma che: "In determinate circostanze, i comunisti devono dichiararsi disposti a formare un governo con partiti e organizzazioni operaie non comuniste. Tuttavia, possono farlo solo se possono contare su garanzie sufficienti che questi governi operai portino fino in fondo realmente la lotta contro la borghesia nel senso sopra indicato”.
Il “senso sopra indicato” include la distruzione dello Stato borghese, il passaggio di tutto l'apparato dello Stato sotto il controllo operaio, l'armamento del proletariato, l'instaurazione del controllo della produzione e la distruzione della resistenza controrivoluzionaria della borghesia.
Ossia, la Terza Internazionale sta parlando di governi operai fondati sulle mobilitazioni rivoluzionarie nel corso della distruzione dello Stato borghese. In questo caso, un'organizzazione rivoluzionaria potrebbe discutere –secondo la Terza Internazionale– la sua partecipazione o meno al governo.
Questo potrebbe essere stato il caso, per esempio, della rivoluzione boliviana del 1952, quando le milizie della Central Obrera Boliviana (Cob) affrontarono e distrussero le forze armate borghesi. La direzione riformista della Cob si rifiutò di prendere il potere, appoggiando il nazionalismo borghese del Mnr. Nel caso in cui si fosse data un'altra situazione, nella quale Lechin (direzione della Cob) fosse stato disposto a prendere il potere, i rivoluzionari avrebbero potuto discutere –secondo la Terza– la possibilità di partecipare al governo. Anche in questo caso, la Terza avrebbe preteso che ciò fosse approvato dalla direzione dell'Internazionale, appunto per evitare errori enormi.
Si tratta di una discussione interessante, che provoca polemiche nella sinistra rivoluzionaria da decenni. Ma... cosa ha a che vedere tutto questo con la possibilità che Syriza vinca le elezioni in Grecia?
Che Pedro Fuentes difenda la partecipazione a un governo borghese in Grecia è comprensibile. In definitiva, appartiene alla stessa corrente che difese la stessa posizione in Venezuela. Ma difendere ciò appoggiandosi sulle risoluzioni della Terza Internazionale supera ogni limite.
Per completare l'inganno, il Mes estende la caratterizzazione “governo operaio” nella definizione della Terza Internazionale fino ad includervi il “governo antiausterità”. Ossia, si lascia da parte l'ipotesi della Terza di un governo operaio fondato su mobilitazioni rivoluzionarie che stiano distruggendo lo Stato borghese, per quella di un governo parlamentare all'interno dello Stato borghese, con un programma “antiausterità”.
Ora, un serio programma antiausterità in un Paese dominato come la Grecia di oggi potrebbe avere solo un contenuto di rottura con l'euro e con l'Unione Europea. Non si può riprendere la crescita economica e l'aumento del reddito dei lavoratori mantenendo il dominio del capitale finanziario che asfissia il Paese. La rottura con l'Ue e l'euro potrebbe realmente prendere un corso anticapitalista se fosse messa in pratica.
Ma questo è esattamente quello che Syriza non vuole fare. Tsipras respinge il piano di austerità imposto dall'Unione Europea ma difende la permanenza della Grecia nell'Unione Europea e nella zona euro. Non dice come ciò potrebbe realizzarsi, perché le promesse elettorali non hanno bisogno di coerenza.
Tantomeno Pedro Fuentes esige chiarezza su questo piano “antiausterità”. Evita accuratamente di specificare la relazione tra questo piano e la permanenza nell'euro e nell'Unione Europea, per non smascherare la politica di Syriza. Questo atteggiamento legittima la partecipazione in un governo borghese “antiausterità”, come potrebbe essere il governo Syriza. Ma questo non ha nulla a che vedere con le posizioni della Terza Internazionale.

Vediamo l'esempio del Venezuela
Pedro indica la possibilità che l'arrivo di Syriza al governo avvii un processo di rottura con il capitalismo: "Nel frattempo, non si può escludere che un governo di Syriza faccia sì che la Grecia abbia la forza di imporre nuove condizioni, se ci saranno mobilitazioni e solidarietà continentale con il popolo greco. Questa ipotesi deve essere posta e discussa in altra maniera nella sinistra. Prendendo un precedente latinoamericano come esempio, in Venezuela, il governo di Chavez, dopo alti e bassi (che includettero molte negoziazioni con la borghesia), finì per approvare nel 2002 le 'Leggi Abilitanti' e prendendo la gestione del Pdvsa, il che significò la nazionalizzazione del petrolio, il fatto più rilevante all'inizio del processo di rottura che fece sì che il Venezuela avesse margini di indipendenza politica ed economica e, così, sorgesse la Alba. (vale la pena ricordare che la sinistra che non stava da questa parte, con l'argomento che Chavez non era anticapitalista, ha finito per fare il gioco della destra diventando una setta)."
L'esempio venezuelano dovrebbe essere preso con più cura da Pedro Fuentes. Il Mes ha commesso un errore molto grave di fronte al chavismo, che ora ripete nei confronti di Syriza. In realtà, fa il giocoliere con i concetti per giustificare il suo appoggio politico a queste organizzazioni con influenza di massa.
Nel 2008, caratterizzarono il governo chavista come “nazionalismo piccolo-borghese”, giustificando il loro sostegno al governo nazionalista borghese. Fecero una confusione tra l'origine di classe del governante –in quel caso, Chavez era un colonnello delle Forze Armate venezuelane, piccolo-borghese– con il carattere di classe del governo. Con questo criterio, il governo Lula avrebbe dovuto essere caratterizzato come un governo operaio.
Il carattere di classe di un governo è determinato dalla risposta a una semplice domanda: a quale classe risponde il governo? Se il governo serve alla borghesia –o a un settore della borghesia– per amministrare lo Stato borghese e la manutenzione del capitalismo, si tratta di un governo borghese.
Il caso del chavismo è un chiaro esempio di creazione di una nuova borghesia (la cosiddetta “boliborghesia”, borghesia bolivariana, ndt) a partire dell'amministrazione dello Stato. Diosdado Cabello, per esempio, è oggi uno dei maggiori borghesi del Venezuela. Si tratta di un movimento e e di un governo nazionalista borghese, simile al peronismo argentino.
Il Mes ha fatto parte della maggioranza della sinistra latinoamericana (praticamente l'insieme del Psol, il Pc, il PcdoB e il Pt), che ha sostenuto il chavismo. In un testo del 2008, il Mes attribuiva a Chavez il merito dell'intero processo delle lotte: "È un errore credere che Chavez ha assunto decisioni come conseguenza della pressione permanente del movimento di massa, come se Chavez fosse un Kerensky venezuelano. Secondo questa opinione, Chavez adotta tali misure come una manovra reazionaria per frenare l'ascesa delle masse. In realtà, Chavez è la direzione del processo reale che esiste. Senza Chavez non ci sarebbe il processo in corso".
Poi, mette in dubbio il carattere borghese dello Stato: "Possiamo definire lo Stato come borghese, giacché non ha espropriato la borghesia. Tuttavia, dire solamente questo non è sufficiente, nella misura in cui la borghesia come classe non domina lo Stato. Il bonapartismo, secondo Moreno, è un tipo di Stato borghese sui generis. Noi aggiungiamo borghese molto sui generis".
La polemica sulla questione venezuelana non si limita alla nazionalizzazione del petrolio. È molto più seria, comporta la capitolazione della maggioranza della sinistra latinoamericana al chavismo, con gravi conseguenze, come vedremo.
Non si può semplificare grossolanamente, come fa Pedro, dicendo che quelle organizzazioni che avevano posizioni diverse dalle sue “diventarono sette”. La nazionalizzazione del petrolio fu progressista ma ultra limitata, dato che consegnò alle multinazionali una parte considerevole del petrolio venezuelano.
Non c'è stata in Venezuela nessuna rottura né con il capitalismo né con l'imperialismo. Lo Stato venezuelano continua ad essere borghese, le multinazionali continuano a sfruttare petrolio nel Paese. Il governo chavista continua ad essere il più grande fornitore di petrolio degli Stati Uniti, il che ha continuato ad essere garantito anche durante l'invasione statunitense dell'Iraq. Le banche venezuelane associate alle banche imperialiste continuano ad ottenere ancora enormi profitti nel Paese. La retorica antimperialista del governo chavista non può essere confusa con una rottura con l'imperialismo.
Il Mes, poco tempo fa, si allontanò silenziosamente dal chavismo senza alcuna autocritica, nessuna spiegazione del cambiamento di rotta. Ma prendere l'esempio venezuelano per indicare la possibilità di una rottura con il capitalismo da parte di Syriza indica già un abbassamento dell'orizzonte della “rottura”. Secondo Pedro: "Per questo, è lecito considerare che tutte le misure economiche contro l'austerità e gli aggiustamenti (reali e oggettive), conducano ad una rottura con gli stessi e aprano le porte per un processo di transizione anticapitalista".
Ossia, la Grecia sotto un governo Syriza va per la forza della realtà oggettiva direttamente verso un processo di transizione anticapitalista. Non esistono le forze politiche della borghesia, dei mass-media, del riformismo di Syriza.
Questa è una visione oggettivista, che porta ad una capitolazione diretta a Syriza, nella misura in cui la realtà va “oggettivamente” verso una transizione anticapitalista.
Niente di tutto questo è vero. Un possibile governo Syriza in Grecia sarà un governo borghese. Syriza è una organizzazione piccolo-borghese, con una direzione e un programma riformisti, che non si pone nessun compito di rottura con il capitalismo.

Il ritorno della tesi del “governo in disputa”
Pedro Fuentes non solo difende la partecipazione in un possibile governo Syriza. Difende altresì una politica generale di “disputa” di tale governo.
"Deve inoltre essere presentata la questione di un governo di Syriza nei termini del se si debba o no partecipare allo stesso. Chi già ha fatto propria la caratterizzazione secondo la quale Syriza ha capitolato, ovviamente sarebbe contrario alla partecipazione. In ogni caso, un fenomeno nuovo come questo genererebbe molti dubbi. Tutti i partiti ampi sono soggetti alle pressioni delle classi. Pressioni della borghesia, delle classi medie e dei lavoratori. Per ciò stesso, come in tutti i processi, ci sono tendenze e dispute. Syriza è un partito che logicamente soffre queste pressioni e , per ciò stesso, è un processo aperto in disputa. Così sarebbe anche un governo di Syriza, che sarebbe soggetto a molteplici pressioni e, in particolare, dei grandi capitalisti, che possono utilizzare la politica del bastone e della carota con un governo di questo tipo".
Questa politica del “governo in disputa” [governi che si pretende sarebbero neutri da un punto di vista di classe, ndt] non è una novità. Hanno difeso la stessa posizione in relazione al governo Chavez nel 2008.
Si tratta di una politica ben conosciuta in Brasile. La sinistra del Pt e il Mst hanno considerato e considerano i governi di Lula e Dilma come “governi in disputa”. Non hanno inventato nulla di nuovo. Si tratta della stessa ideologia dello stalinismo di fronte ai governi borghesi “progressisti”.
La logica è semplice: siccome questi governi sono popolari, rimaniamo con loro. Ma per la verità, questa non è una opzione per le masse bensì per i governi. Anche quando un governo borghese ha ancora l'appoggio di massa è necessario saper stare in minoranza. I bolscevichi fecero questo nel 1917, contro il governo provvisorio, spiegando pazientemente alle masse che quello non era “il loro governo”, come esse pensavano. In quanto seppero essere minoranza poterono trasformarsi in maggioranza quando le condizioni oggettive cambiarono.
I risultati della politica del “governo in disputa” sono disastrosi: la sinistra del Pt praticamente è scomparsa e il Mst ha perso molto del suo peso sociale e politico.
Quando questa posizione del “governo in disputa” è egemone a sinistra, la conseguenza è gravissima. I chavisti affermano che una posizione a sinistra del governo “fa il gioco della destra”. Pedro Fuentes suggerisce lo stesso quando dice che "la sinistra che non era da questa parte, con l'argomento che Chavez non era anticapitalista, ha finito per fare il gioco della destra diventando una setta".
Si può verificare l'errore di questi chavisti nella situazione venezuelana di oggi. Esiste una polarizzazione tra la destra pro-imperialista e un governo nazionalista borghese decadente e repressivo. Non esiste alcuna alternativa indipendente dei lavoratori come, nonostante tutti i limiti e le debolezze, comincia a esistere in Brasile.
Essere una opposizione di sinistra indipendente significa cercare di costruire un campo dei lavoratori indipendente dai due blocchi borghesi. Questo è imprescindibile in Venezuela perché altrimenti tutti coloro i quali sono indignati dalla crisi economica del Paese e dalla corruzione del governo avranno come unica opzione l'opposizione di destra. Chi fa il gioco della destra?
Questi governi borghesi finiscono per portare il movimento popolare a sconfitte inevitabili attraverso elezioni o colpi di Stato. E si trascinano insieme ai gruppi di sinistra che capitolano. Non è rimasto nulla della fortissima sinistra peronista. Non sta restando nulla della sinistra chavista.
Questa sarebbe la conseguenza anche in Grecia. Scommettere su una politica di “governo in disputa” per un possibile governo Syriza sottometterebbe tutta la sinistra alla sorte di questo governo borghese. François Sabado, dirigente del Npa [partito anch'esso legato al Su che in Italia fa riferimento al gruppo di Turigliatto, ndt], scrisse un testo dal contenuto molto vicino a quello di Pedro Fuentes ad aprile 2013. Terminava il suo testo argomentando che questa sarebbe l'unica politica possibile, perché una sconfitta di Syriza sarebbe anche una sconfitta “nostra”. In realtà, sarebbe la sconfitta di Syriza e di tutta la sinistra riformista legata ad essa. Non la sconfitta della sinistra rivoluzionaria indipendente.

Un programma e una politica opportunista
Pedro conclude il testo con una proposta politica: "Ci sembra che tutta la sinistra marxista dovrebbe fare propria in Grecia la parola d'ordine del governo di Syriza (possibilmente in una formulazione più completa) come parola d'ordine per il potere per l'agitazione nella lotta di classe e anche nelle elezioni. Se nelle prossime elezioni europee Syriza ottiene il primo posto, la parola d'ordine comincia a farsi più concreta e per l'azione".
Nessuna delle caratterizzazioni da noi sopra definite impedisce che si utilizzi come politica la rivendicazione di un governo Syriza con un programma anticapitalista, che includa la rottura con l'euro e l'Unione Europea. Fa parte dell'arsenale del marxismo rivoluzionario esigere dalle direzioni riformiste con peso di massa che rompano con la borghesia e applichino un programma dei lavoratori. Si tratta di una tattica che combina sfide e denunce affinché –nel caso in cui si dia l'ipotesi più probabile che queste direzioni non rompano con la borghesia– le masse traggano le dovute conclusioni dalle politiche di queste direzioni.
Ma esiste un abisso tra questa politica, legittima tra rivoluzionari, e la politica difesa da Pedro Fuentes. Egli conclude il suo testo con la proposta di un governo Syriza, senza avanzare alcuna proposta circa il programma su cui dovrebbe basarsi questo governo. Senza una chiara caratterizzazione di ciò che invece significherebbe un governo Syriza senza un programma anticapitalista. Ecco allora che questa politica a favore di un “governo Syriza” è chiaramente una posizione opportunista. È una politica riformista per un governo riformista. Ossia, una discussione tra riformisti.
Non è il nostro caso.

 (traduzione dallo spagnolo di Giovanni “Ivan” Alberotanza)

giovedì 29 maggio 2014

All you fascists

Luciano Granieri


Dopo le elezioni europee dilaga il vento anti europeista, questa affermazione scontata descrive ciò che già era stato abbondantemente previsto. Dal  Front National di Marine Le Pen all’Ukip di Farage, passando per il Fpoe in Austria, Jobbik in Ungheria, per finire ad Alba Dorata, la crisi economica imposta dall’austerity ha prodotto il classico smottamento che si verifica  quando il capitalismo non riesce più  controllare la crisi che egli stesso produce.  Cioè  l’irruzione sulla scena dei fascisti.
I fascisti servono e sono sempre serviti per incanalare il malcontento nell’odio verso l’altro. E’ il classico collaudato sistema di innescare la guerra fra poveri,  fra nativi e immigrati, allo scopo di distogliere la questione dal problema vero.  La dittatura delle lobby e del capitalismo finanziario.  Il capitale in Europa è ancora al sicuro, saldamente protetto dal dominio della larghe intese Ppe - Pse, per nulla scalfito dalla pur accertata perdita  di voti. 
Anzi considerato che la compagine più votata all’interno del carrozzone riformista è stato il Pd,  il partito  che ha decretato  il pieno sdoganamento del  lavoro precario e sta tentando di orientare la forma dello stato, attraverso  le riforme istituzionali, in senso autoritario , si può affermare  che nel Pse la forza più consistente tende verso  destra e converge  con quelli che sono i programmi del Ppe, consolidando il blocco a difesa degli interessi capitalistico finanziari.
Infatti dietro le doverose promesse di facciata sulla volontà di ammorbidire la morsa del rigore  per far partire la crescita, già si apparecchia il consenso verso il  Trattato Transatlantico sul Commercio e gli investimenti (TTIP) un accordo che consente alle multinazionali americane di venire a colonizzare  l’Europa secondo le loro condizioni capestro, incuranti dei diritti dei lavoratori e delle limitazioni sull’inquinamento e su altre forme di tutela per i cittadini.
Dunque mentre i fascisti europei,. di varia forma e natura, provvedono a mettere gli uni contro gli altri i poveracci nativi contro i poveracci immigrati, in nome di una sovranità nazionale,  buona per acquisire consensi in  casa propria,  ma che  nessuno, malgrado i proclami ha interesse a consolidare, le ruberie ai danni dei lavoratori continueranno come prima se non peggio di prima.  
La vera novità, in vero, sta nella normalizzazione di quello che in Italia era considerato  IL NUOVO CHE AVANZA ovvero il M5S. Un partito che nella metamorfosi europea si trasforma dalla innovativa macchina da guerra a democrazia partecipata, tutta web e trasparenza, nel più classico movimentucolo di fascistelli borghesucci, incazzati e intolleranti al soldo del potere capitalistico finanziario. 
Un partito  (scusate un movimento )  che mentre in Italia giudica impuro ogni tentativo di accordo con chicchessia, anche su obbiettivi comuni, rifiutando di contaminarsi  con qualsiasi forza  che siede  nel Parlamento,  in Europa digerisce la peggiore merda fascista intollerante e xenofoba. Ignoro se l’idea della rattizzazione con i fascisti inglesi dell’Ukip  appartenga esclusivamente a Grillo e al suo finanziatore Casaleggio, o se ci sia stato un contatto con i militanti in rete. Certo che conoscendo, anche personalmente,  alcuni militanti ed eletti del M5S, apprezzandone la loro capacità e passione, mi dispiace vederli  ingoiare la  merda  fascista per la dabbenaggine del loro capo.  Quanta energia sprecata! Ma ragazzi, svegliatevi e cominciate a fare politica come già avete dimostrato di saper fare. Levatevi dai coglioni Grillo e Casaleggio e forse eviterete di annegare nella MELMA.

mercoledì 28 maggio 2014

La prigione degli sguardi (sul processo in videoconferenza)

Mattia Zanotti
dalla sezione di Alta Sorveglianza del carcere di Alessandria,
fine aprile 2014


La prigione degli sguardi
Note sul processo in videoconferenza

La catena dei forzati e lo sguardo pubblico
Fino al 1836 in Francia sopravviveva la tradizione di far marciare in catene i condannati alla prigione. I futuri galeotti venivano incatenati tra loro con collari di ferro e costretti a marciare sulla pubblica via trascinando i segni della propria condanna e mostrando al popolo, che accorreva numeroso, le conseguenze pronte ad abbattersi su chi violava la legge.
Il cammino verso la reclusione, l’ultimo viaggio prima di sparire dietro l’opacità segreta delle prigioni, avveniva dunque sotto gli occhi di tutti, in un cerimoniale pubblico di forte impatto visivo in grado di sprigionare sentimenti contrastanti. La partenza di queste catene umane richiamava il popolo in massa, esibiva il condannato alla folla, alle ingiurie, agli sputi, ma anche alla commozione, alla simpatia, alla complicità; lo esponeva allo sguardo pubblico e mostrava il suo sguardo al pubblico, in un rituale complesso il cui esito non era scontato.
“In tutte le città dove passava, la catena portava con sé la sua festa”. Non solo collari di ferro e catene, segni obbligati della punizione, adornavano i forzati in marcia, ma anche nastri di paglia e di fiori intrecciati, stracci di tessuti colorati, rammendati dagli stessi forzati su strambi copricapo e berretti sfoggiati per l’occasione. Un tocco colorato e irriverente di follia gioiosa, di scherno arlecchino e cenciaiolo, poteva trasformare questa marcia lugubre in una “fiera ambulante del crimine”, una sorta di tribù nomade e galeotta che irrideva i ferri a cui era stata ridotta, malediceva i giudici e ne ingiuriava i tormenti.
E poi quei canti, i canti dei forzati. Canti di marcia intonati collettivamente che tanto impressionavano la plebe e presto diventavano celebri passando di bocca in bocca. Canti che spesso “eccitavano più la fierezza di fronte al castigo” di quanto “non lamentassero il rimorso di fronte al crimine commesso”.
Tutto questo concorreva a incrinare un cerimoniale di giustizia inscenato dal potere come rituale della colpa e del pentimento, lo rendeva socialmente pericoloso perché capace di rovesciare i segni del potere, di mutarne l’ordine del discorso, di soverchiarne il codice morale.
Così scrive la «Gazette des tribunaux» il 19 luglio 1836: “non fa parte del nostro costume il condurre così degli uomini; bisogna evitare di dare, nelle città che il convoglio attraversa, uno spettacolo così orrendo, che d’altronde non è di alcun insegnamento per le popolazioni”. Di lì a poco il trasporto dei condannati verso le prigioni non sarebbe più avvenuto attraverso riti pubblici. Una mutazione tecnica interverrà a ripulire le pubbliche vie di un tale contraddittorio spettacolo: la vettura cellulare.

La vettura cellulare e lo sguardo panoptico.
Michel Foucault, attento studioso della nascita della prigione e dei suoi dispositivi accessori, scrive che “l’imprigionare, che assicura la privazione, ha sempre comportato un progetto tecnico” e che “la sostituzione nel 1837 della catena dei forzati con la vettura cellulare” è “sintomo e riassunto” di una mutazione tecnica, di un “passaggio da un’arte di punire a un’altra”.
La vettura cellulare non è da intendersi nei fatti semplicemente come un carro coperto adibito al trasporto dei condannati che prima venivano sottoposti al castigo supplementare della ferratura pubblica; è piuttosto da considerarsi come un’innovazione tecnica che segna un cambio di paradigma. Questa vettura era concepita come una prigione su ruote foderata di latta.
Impenetrabile allo sguardo esterno, sfila triste per le vie senza rivelare nulla di quanto contiene. Gli sventurati che vi montano, siano essi già condannati o in attesa di giudizio, viaggiano sempre in catene, ma ora in piccole celle singole che impediscono non solo di guardare verso l’esterno, ma anche di incontrare lo sguardo degli altri “passeggeri”. Un corridoio centrale permette invece alle guardie di controllare a vista tutti i trasportati attraverso uno sportello.
Così la «Gazette des tribunaux» descrive questo meccanismo di controllo interno: “l’apertura e la direzione obliqua degli sportelli sono combinate in modo che i guardiani tengano incessantemente gli occhi sui prigionieri, ascoltano le minime parole, senza che quelli possano riuscire a vedersi o a sentirsi tra loro”.
Non un semplice carro coperto, dunque, ma un dispositivo tecnico elaborato con obiettivi precisi: nascondere il condannato allo sguardo pubblico, impedire al condannato lo sguardo verso il mondo di fuori, negare lo sguardo complice tra forzati, perfezionare lo sguardo sorvegliante. Non una semplice scatola mobile di latta, ma una “vettura panoptica”, una prigione degli sguardi che annulla i fasti sbeffeggianti delle catene dei forzati e li rende ciechi, silenziosi, invisibili e controllabili.
L’opacità segreta delle prigioni si estende e anticipa il suo arrivo; la sua ombra ingloba il condannato e lo sottrae alla vista prima ancora che lui metta piede nella prigione stessa. Il pudore borghese delle riforme trasporta senza più mostrare come castiga, senza più dare spettacolo. Niente più gioco di sguardi tra popolo e criminale, l’unico sguardo tollerato è quello del guardiano sul penitente recluso.

La videoconferenza e lo sguardo disincarnato
Veniamo all’oggi e all’Italia. L’ultima frontiera nel campo dei “trasporti per motivi di giustizia” è il processo per videoconferenza, dove il trasporto semplicemente non avviene, se non in forma immateriale.
L’imputato di un processo che si trovi già in carcere per precedenti condanne, o che sia sottoposto a carcerazione preventiva, può essere processato a distanza, senza che debba abbandonare il carcere in cui è ristretto. Accompagnato in una sala attrezzata all’interno del carcere, segue il dibattimento su un apposito schermo, sotto l’occhio vigile delle guardie penitenziarie e quello tecnologico di una telecamera disposta a catturare la sua immagine e a ritrasmetterla nell’aula dove si celebra il processo che lo vede imputato.
Come il passaggio dalle “catene” alla “vettura cellulare”, l’introduzione della videoconferenza segna un passaggio che riassume in sé un cambio di paradigma. La videoconferenza è infatti un dispositivo tecnologico e come tale non è neutrale, ma al contrario la sua mediazione comporta mutazioni profonde che affondano nella viva carne di chi ha sfidato la legge.
Patibolo
Ne I miserabili, Victor Hugo descrive così il dispositivo punitivo per eccellenza, il patibolo: “il patibolo è visione. Il patibolo non è una struttura, il congegno inerte fatto di legno, di ferro e di corde. Sembra una specie di essere dotato di non so quale tetra iniziativa; sembra che quella struttura veda, che quella macchina oda, che quel meccanismo comprenda, che quel legno, quel ferro, quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria che la sua presenza suscita nell’anima, il patibolo appare terribile a partecipe di ciò che fa. Il patibolo è complice del carnefice; divora, mangia la carne, beve il sangue. Il patibolo è una specie di mostro fabbricato dal giudice e dal falegname, uno spettro che sembra vivere una sorta di spaventevole vita fatta di tutta la morte che ha dato”.
La videoconferenza, a differenza del patibolo, non è un dispositivo che esegue una pena già comminata, tanto meno quella di morte che non è più prevista nel codice penale, ma ancor più del patibolo, articolata com’è di microfoni e telecamere, è una “struttura” che “vede”, una “macchina” che “ode”. Certo, non “mangia” la “carne”, ma a suo modo “disincarna” l’imputato, smaterializza il suo corpo, lo riduce a un insieme di bit producendo un impatto visivo e di senso all’interno di un processo che non è da sottovalutare: per suo tramite la presenza dell’imputato, ancorché lontana, diviene spettrale, il suo corpo viene trattato come una interferenza video cui la parola può essere concessa o sottratta con semplice “clic”. Trionfo del pudore riformatore che già ripulì le strade dalle catene umane dei forzati e che ora, attraverso le nuove tecnologie, “libera” le aule di giustizia da quella presenza incomoda e stridente perché vi appaia indisturbata l’astrazione del diritto. Negato è anche l’abbraccio tra coimputati che neppure in quella circostanza possono rivedersi. Nessuno scambio affettivo neppure con il pubblico, che neanche appare sullo schermo. Nessuno sguardo complice, nessun saluto ai propri familiari e amici. Una volta entrati in carcere, seppure in via preventiva, non se ne esce più, neppure per il processo. Intombati, cementati.

La giuria stessa è portata a considerarti così pericoloso da non poter essere tradotto al suo cospetto. In qualche modo la tua colpevolezza è già implicitamente designata nei modi di quella tua “presenza”.
In tutto questo, l’imputato ridotto a spettatore passivo. Osserva il suo processo su uno schermo come fosse una puntata di “Forum” o di “Quarto grado”. Unico suo diritto, come da tradizione televisiva, telefonare al suo avvocato durante l’udienza. Eppure è della sua vita che si sta parlando. Suo il corpo eventualmente destinato alla reclusione. Sua la vista amputata dell’orizzonte. Suo il tatto privato della stretta dei suoi cari. Suo l’olfatto orfano della primavera. Suo, infine, lo sguardo, abbattuto o fiero, che affronta il “castigo”, preventivo o definitivo, giorno dopo giorno. La videoconferenza è l’alleata tecnologica che perfeziona la prigione degli sguardi. Codarda, moltiplica gli occhi che scrutano chi ha offeso il confine della legge, ma non trova più il coraggio di guardarlo dritto negli occhi. Metafora cibernetica di una giustizia bendata che si dota di protesi oculari meccaniche, ma rimane sempre cieca.

Conclusioni decantanti
Introdotta in Italia per i detenuti sottoposti a regime di 41bis, la videoconferenza applicata ai processi sta ora rapidamente prendendo piede per tutti i detenuti meritevoli, dal punto di vista della giustizia, di un “occhio” di riguardo. È il caso di Maurizio Alfieri, rapinatore riottoso non incline alla domesticazione carceraria; è il caso di Gianluca e Adriano, anarchici accusati di diverse azioni dirette contro l’Eni, magnati dei rifiuti e altri consorzi veleniferi; potrebbe essere, quantomeno già lo è nella volontà della procura di Torino, il caso di Claudio, Chiara, Niccolò e dello scrivente, accusati di un atto di sabotaggio contro il cantiere dell’Alta velocità di Chiomonte. Una deroga speciale al “diritto di difesa”, che prevede la presenza fisica dell’imputato accanto al difensore durante il processo, giustificata con il solito pretesto della “sicurezza” e dell’“ordine pubblico”. Una novità pericolosa, quella della videoconferenza destinata ad attecchire e a estendersi rapidamente se non subitamente estirpata, dacché, si sa, è l’eccezione di oggi a forgiare la norma di domani. Il paradigma che sottende a questa nuova “mutazione tecnica” è complesso, ed è difficile qui e ora computarne e sviscerarne tutte le declinazioni. Sicuramente il tipo di dibattimento processuale che va delineandosi vede una progressiva scomparsa dell’imputato, un crescente condizionamento a priori della giuria e lo strapotere inquisitorio dei pubblici ministeri. Quella che ho cercato di fare qui è di evidenziare alcune ricadute di questa mutazione tecnica concentrandomi sulla questione dello “sguardo”, cioè sullo scambio visivo tra occhio galeotto, occhio giudicante e occhio pubblico. Molte altre considerazioni altrettanto e anche più pregnanti potrebbero essere fatte. Ad esempio su come la videoconferenza impedisca al difensore di confrontarsi con il proprio assistito durante l’udienza; o ancora come nella spettacolarizzazione dei processi gli effetti speciali e le illusioni ottiche siano spesso più determinanti dei fatti concreti di cui si discute. Ma la mia fede nel diritto è talmente scarsa che non sto a entrare nel merito di certi particolari. Preferisco concludere queste note approssimative attorno al processo in videoconferenza citando alcune vecchie canzoni galeotte, di quelle cantate nelle strade dalle catene dei forzati. Parole schiette che da sole dicono quasi tutto.
“Avidi di infelicità, i vostri sguardi cercano di incontrare tra noi una razza infame che piange e si umilia. Ma i nostri sguardi sono fieri.” “Addio, perché noi sfidiamo e i vostri ferri e le vostre leggi”.

Il doposcuola deformante

Aida Clandestina


Non scoraggiamoci, però riflettiamo un po' di più. La mia generazione è sicuramente colpevole di questo disastro ma ne è in parte vittima, quanto i più giovani. Vittime, si. Formati tutti nella stessa scuola, obbligatoria come opportuntà di crescita ma non per questo in grado di creare menti libere e alimentare lo spirito critico. Al contrario, anzi, la competizione è iniziata tra quei banchi, dove spesso è morta la co-operazione. Essere migliori, non di sé stessi ma all'interno di un contesto, quindi prevalere e magari prevaricare, o sfruttare quelle fortune come vantaggio personale anziché riconoscerle come privilegi. Plasmati, più che formati, rinchiusi, più che liberati. Moralizzati nell'apparenza in quelle Chiese dove i genitori ti mandavano ma si guardavano bene dall'accompagnarti. nell'apparenza, perché nella sostanza era una questione di fortuna trovare "una guida spirituale", mentre il più delle volte se eri bambina trovavi quella mano morta che dalla tonaca si infilava sotto il tuo gonnellino... 

La prima delega da distruggere è quella nell'educazione, e invece negli anni è cresciuta, non mi pare di aver visto genitori sbraitarsi per la qualità dei programmi ma spesso si litiga per i menu' della mensa o perché non tutte le scuole fanno "il continuato" e come fanno i genitori che lavorano a lavorare?
Siamo tutti talmente omologati che se ci mettiamo a giocare a "trova la differenza" in meno di due secondi abbiamo un'etichetta per tutti. Siamo tutti talmente simili che persino scorrere i profili su FB è ormai monotono, copia e incolla o link senza alcun commento condivisi cosi', senza capire se quello che condividi ti piace, ti fa cagare, o ti ha solo incuriosito.
Facciamo una proposta rivoluzionaria: creiamo un #doposcuola deformante. Che prenda tutte le certezze consolidate dalla scuola ed insegni a queste piccole creature a ribaltarle. Un doposcuola autogestito. Creativo. Ribelle. Irriverente. Libero. 
Eh, ma avercelo il tempo, siamo già pronti a rispondere. Dobbiamo lavorare, qui, senno' non si campa. Certo. E anche questo è ormai assodato. Intere famiglie sotto pressione con genitori che stanno fuori casa 12 ore al giorno, che vivono in case dormitorio dove tra vicini ci si scanna solo alle riunioni condominiali perché c'è tizio che ha il cane che abbaia e piscia per le scale, e non c'è nessuna "comunità" a poter supportare questi progetti, non c'è da oltre quarant'anni, ormai. Non c'è e ci siamo rassegnati, adattati. Camminiamo in mezzo alla gente spesso digitando su quei display, senza neanche uno sguardo o un saluto per chi ci passa accanto. I nostri corpi non comunicano più senza un intermediario, che sia da borsetta o da scrivania non ha importanza, purché sia un filtro tra noi e gli altri.
E poi la scusa pronta ce l'abbiamo: è la TV che ha rovinato tutto. Certo. La cultura di massa. L'informazione di massa.
Statene certi, è andata cosi'.
Parola di chi dalla massa si protegge. Isolandosi. Come il resto della massa.

L'Europa di oggi

Rossana Rossanda   fonte : http://www.sbilanciamoci.info/

Il parlamento europeo si è spostato a destra e resterà incollato più che mai alla linea di questi ultimi anni, garante il Ppe. Oggi come oggi l’Europa è questa, una miscela in cui gli umori restano quelli che erano e non si sono affatto rielaborati e tantomeno fusi in un crogiolo per mancanza di qualsiasi fiamma.

Non è il meno interessante dei segnali quello che ci mandano le ultime elezioni, vistosamente segnate anzitutto dal rifiuto di votare: è la tendenza all’interpretazione casalinga che viene loro data dalla Francia che si è scoperta di colpo per il 40 per cento di destra e dall’Italia esultante per la vittoria di Renzi. È visibile a occhio nudo che il voto francese significa un furioso “no” a Francois Hollande per aver disatteso le sue stesse promesse più che l’adesione a Marine Le Pen mentre la soddisfazione italiana implica una vistosa perversione del senso delle parole “sinistra “e “riformismo”. Del resto valgono i numeri: il parlamento europeo, che doveva essere prodigiosamente rinnovato o almeno pareggiare fra socialisti e conservatori, si è spostato a destra e resterà incollato più che mai alla linea di questi ultimi anni, garante il Ppe; mentre il nostro vittorioso Pd ha raccolto il 40 per cento perché svuotato di qualsiasi contenuto sociale progressista. La disinvoltura con la quale il paese ha digerito quell’inno al precariato che è il Job Act e sembra accettare la liquidazione di una delle Camere, perdipiù da parte di un leader che insolentisce i soli veri difensori della Costituzione, è eloquente. Insomma il parlamento europeo resta agganciato più che mai al Centrodestra, appoggiato in varia misura da spunti di destra eversiva in guisa di guardia pretoriana o di spaventapasseri.
Questo non toglie che il fenomeno sia preoccupante e vada attentamente esaminato nelle sue diverse versioni, come la violenza verbale tipica di Grillo oppure dove ha vaste radici nel Novecento e dove non le ha, come in Gran Bretagna e in Francia. È vero che la Francia lo ha più nascosto che esorcizzato, con il lungo silenzio che ha coperto la assai larga adesione a Petain, eroe di Verdun, onesto vegliardo cui dare le “bon Dieu sans confession”; ma anche fervente collaborazionista e antisemita nella seconda guerra mondiale osannato fino all’ultimo dalle folle. Come va analizzato senza complimenti lo spuntare di minoranze, o in Ungheria addirittura di maggioranze, neonaziste in paesi già di “socialismo reale”. Una vena di destra corre da sempre nella cultura europea, pronta a presentarsi in vesti antiborghesi. Ugualmente sarà utile guardare da vicino non solo il sabotaggio dei media ma la sconsiderata gestione della Lista Tsipras, malgrado l’intelligenza e generosità del suo leader. Il vero vantaggio delle elezioni a sistema proporzionale e perdipiù apparentemente lontane dal diventare effettive il giorno dopo, sta nel disvelamento delle viscere dell’elettore. Sì, oggi come oggi, l’Europa è questa, una miscela in cui gli umori restano quelli che erano e non si sono affatto rielaborati e tantomeno fusi in un crogiolo per mancanza di qualsiasi fiamma.


3 giorni di fuoco a Giuliano

Lucia Fabi, Angelino Loffredi. fonte http://www.unoetre.it/


Il 28 maggio 1944 alle ore 8,30 le truppe franco marocchine del battaglione Girard provenienti da Villa Santo Stefano e lungo un fronte che va da Valcatora a Santa Lucia, risalgono verso nord per conquistare il comune di Giuliano di Roma. Questa facile avanzata viene però interrotta da mitraglieri tedeschi posti sulla collina di San Martino che in numero limitato di uomini e mezzi cercano di fronteggiare l'impeto dei militari alleati. Durante tale breve scontro viene ucciso il caporale maggiore Ludwig Henze, due vengono feriti e fatti prigionieri mentre altri due tedeschi riescono a fuggire. L'attacco al paese lepino non avviene solo lungo la direttrice sopra indicata, ma anche dal Siserno. Lungo la cresta della montagna si muovono, infatti, soldati del 6° Reggimento Tiratori Marocchino. Costoro il giorno prima sono stati i vincitori della battaglia di Campo Lupino. In mattinata alcuni di questi dal Macchione scendono a Villa Santo Stefano ricongiungendosi a quelli provenienti da Amaseno, mentre altri proseguono per la Punta dell'Orticello.
Una parte di questi ultimi alle ore 10,10 scende a Giuliano, si unisce ai franco marocchini provenienti da Colle San Martino e insieme provano a entrare in paese, ma l'operazione si dimostra molto più complessa. I combattimenti nel territorio avvengono quasi contemporaneamente: sul Siserno alle ore 14 alla Punta dell'Orticello, alle ore 16 al Pozzo di Giorgio e nel centro abitato alle ore 14. Lo scontro alla Punta dell'Orticello era atteso dai tedeschi, appostati in buche di pietra circolari, già dall'alba. Attaccheranno i marocchini di sorpresa ma questi riusciranno a resistere fino alle sedici quando un potente fuoco dei tiratori del 6° RTM risulterà decisivo a conquistare la Punta. In questo stesso luogo verrà ucciso da un marocchino, senza alcun motivo, il giovane Umberto Luzi. Alle ore 14 arrivano nel paese carri armati e altri tiratori franco marocchini mentre i tedeschi cannoneggiano il paese, bersagliando case dell'abitato, di campagna e la strada della Fontana. Inoltre viene colpita la strada che dalla Madonna delle Grazie arriva alla Palombara.
Alle ore 15, senza un motivo valido, alle forze alleate viene dato l'ordine di arretrare pertanto alle 15,30 i tedeschi rioccupano il paese.
Ma gli scontri non sono terminati perchè ai carristi della 756° alle ore16 viene ordinato di attaccare e i carri americani Sherman ritornano. Ma l'altalena di indecisioni prosegue ancora.Infatti alle ore 19,30 alle forze alleate viene dato di nuovo l'ordine di arretrare, e alle ore 22 il paese è di nuovo in mano tedesca.
E' sconcertante la sequela di ordini e contrordini impartiti ed è' impossibile capirne le motivazioni.


 29 maggio:

Alle prime luci del 29 maggio l'artiglieria tedesca continua a cannoneggiare le aree occupate dagli alleati. Questi ultimi piazzati in località Colli, Collespina e Fontanelle, rispondono con maggiore intensità. Alle ore 8,42 i tedeschi si installano nel Santuario della Speranza e dietro i muri del Cimitero. Nel frattempo i colpi dell'artiglieria alleata sono sempre più mirati e colpiscono il Santuario danneggiando i tetti, le mura del pianterreno, una parte del campanile e la scala interna che crollano. Il possente cannone posto nelle vicinanze rotola nel prato sottostante.Viene anche danneggiato il cimitero. Alle 10,40 gli alleati dopo aver avuto il sostegno di uno Sherman, di un cingolato francese e di un plotone del 1°battaglione RTM occupano il Santuario difeso da un blindato tedesco posto dietro le mura del Cimitero, che con facilità viene messo fuori combattimento. I tedeschi fuggono verso la Palombara e nell'interno della chiesa viene trovato il corpo senza vita di Werner Huxolt.
I combattimenti si spostano alla Palombara e sul monte Calciano.



30 maggio:

Il 30 maggio al colle della Palombara, considerato punto strategico, la battaglia si inasprisce e a Calciano alcuni tedeschi come ultimo atto di difesa, affrontano con la baionetta il nemico. Nello scontro muoiono sei marocchini e 14 tedeschi.
Nella località " Fontana del prete" muore Cataldo Farallo colpito da schegge.
I marocchini continuano a saccheggiare, rubare o stuprare sia al centro del paese che in campagna. Tale scempio proseguirà anche nei giorni successivi. Si aggireranno nelle case in cerca di oro e di donne ma si approprieranno di qualunque cosa colpisca la loro attenzione: biancheria, prodotti alimentari e animali, dalle galline alle capre alle mucche.
Per quanto riguarda il lato più triste e malvagio del loro comportamento, ovvero gli stupri, alcune persone con determinazione organizzano la difesa delle donne. Da testimonianze raccolte ci risulta che in paese la cantina del podestà Anticoli Borsa e lo scantinato della " Fabrica " servono allo scopo e così anche la cantina della famiglia Maselli difesa coraggiosamente da un gruppo di uomini che accerchiando i marocchini che si presentano a chiedere le donne riescono con veemenza a farli desistere.
Va ricordata anche l'esperienza avvenuta nella Valle di monte Acuto dove si organizza la difesa delle donne rifugiandole non solo nella casa colonica dei Farallo, ma organizzandosi fra famiglie opponendo cosi un'unica resistenza.
Nella valle sono presenti tanti sfollati provenienti oltre che da Giuliano di Roma anche da Frosinone e da altri comuni, ospitati presso le poche case esistenti o rintanati in grotte. In quell'angolo remoto si riteneva essere fuori dai pericoli della guerra, ma è li che i marocchini transitano per superare la montagna e riunirsi agli altri che sulla via carpinetana si stanno dirigendo verso Montelanico.
Il dottore Dario de Santis ideatore della iniziativa per difendere le donne, nel libro di Don Alvaro Pietrantoni " La seconda guerra mondiale a Giuliano di Roma" parla di un centinaio di donne ospitate nel caseggiato e di un cinquantina di uomini a difesa del caseggiato stesso. Lo stesso medico recatosi al comando francese, da poco insediatosi presso la zona Casali, racconta gli stupri commessi e chiede al colonnello un' adeguata scorta armata che garantisca a tutti il rientro nel paese senza incidenti. La richiesta viene accolta e il comandante dispone che un drappelo armato comandato da un maresciallo originario della città di Antibes, protegga il ritorno degli sfollati.
Il dottore, infatti racconta che il 31 maggio ".... si formò cosi una lunga colonna di uomini, donne, vecchi e bambini, con pecore, capre e galline che si snodò lungo la valle di Monte Acuto, Pietralata e della Madonna delle Rose, passando attraverso continue postazioni di truppe alleate". Alcune donne facenti parte della colonna umana ricordano infine di aver visto due soldati marocchini, colpevoli di stupri, legati ad un albero dai loro superiori e completamente denudati. Prima di terminare riportiamo quello che Marco Felici scrive nel suo libro " Quando passò la battaglia " a proposito degli atti di violenza perpetrati dai soldati del Corpo di Spedizione Francese ".... ma non tutti i francesi ebbero lo stesso ignobile comportamento, in località Montano Narducci, sempre in Giuliano di Roma un sottufficiale francese si sparò un colpo di moschetto sotto il mento suicidandosi. Accanto a lui fu trovato un messaggio che descriveva le bestialità verso la popolazione a cui aveva dovuto assistere e che lo avevano portato al disperato gesto".
In questo anno di rievocazioni e approfondimenti è giusto ricordare non solo quei casi in cui la popolazione si difese con i pochi strumenti a disposizione ma anche quelle poche volte in cui gli ufficiali francesi seppero reagire alle violenze o prevenirle.