Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 12 ottobre 2013

Manifestazione in difesa della Costituzione. Primi Contributi filmati

Pdci Labaro

Un mare di bandiere rosse, studenti, lavoratori, associazioni e movimenti in corteo a difesa e per l'attuazione della Costituzione repubblicana, partigiana e antifascista. Il governo delle larghe intese PD - PDL - Monti vuole cambiarla, distorcendola e togliendole tutti i sani principi di uguaglianza e di solidarietà che la contraddistingue. I comunisti sono scesi in piazza per difendere la costituzione, scritta anche dai comunisti, con Umberto Terracini e Palmiro Togliatti. Una grande manifestazione, una grande piazza che grida in coro: "NON CAMBIARLA, MA ATTUARLA!!". 

La crisi che divide anche le piazze della sinistra

Sandro Medici. fonte "il manifesto" del 12 ottobre

Dispiace che appuntamenti tanto importanti come quelli che si susseguiranno a Roma tra oggi e la prossima settimana debbano vivere distinti e separati, anzi quasi contrapposti. Eppure le manifestazioni in programma sono connotate dalla stessa radicalità, da un vistoso antagonismo, confinanti in molti contenuti, coincidenti per alcuni aspetti, univoche perfino in varie sottolineature: soprattutto nel rivendicare maggiore democrazia, diritti sociali, alternative di politica economica. E inoltre gli stessi promotori, oggi discordi, in più di un'occasione si sono nel passato ritrovati insieme e insieme hanno organizzato lotte e mobilitazioni. Dispiace insomma questa cesura, i cui motivi sono forse comprensibili a una lettura più ravvicinata dei come e dei perché, alla luce di storie antiche e cronache recenti, ma che in ogni caso sicuramente danneggiano quelle stesse ragioni alla base delle rispettive scelte di manifestare. Ragioni che, al di là di esitazioni, pudori e reticenze, possono essere sintetizzate nel tentativo di sollecitare le innumerevoli energie sociali e culturali che animano la scena nazionale ad autorappresentarsi e proporsi come una grande coalizione sociale, una nuova soggettività politica d'opposizione. Che è poi quella cosa di cui questo nostro maltrattato paese avrebbe un enorme bisogno, ma che purtroppo, da tempo, non riesce concretizzarsi. Se in fondo di questo si tratta, di smarcarsi dall'avvilente deriva della sinistra che fu, di contrastare l'arroganza assassina di governi servili, di fermare i processi autoritari, di combattere la crisi economica con il lavoro e le tutele sociali, di aprire insomma nuovi scenari democratici, allora è al dialogo e al confronto che appare necessario ricorrere. Se al contrario si rinuncia in partenza alla ricerca di una qualche comunanza, s'insiste anzi a tracciare differenze e alterità e perfino a scambiarsi reciproche scomuniche, diventa poi alquanto difficile recuperare senso generale e avviare nuove prospettive. E purtroppo, di ora in ora, sembra montare quella perversa dinamica di attribuire, ora agli uni ora agli altri, intenzioni e moventi che spezzano ancor di più destini e percorsi. Insinuazioni e accuse si susseguono: compatibilisti e compiacenti, ruvidi e velleitari. E naturalmente ci si rinfaccia di agire al contrario di quanto si proclami: chi di aiutare con le sue contiguità l'attuale quadro politico, chi di offrirgli alibi repressivi con il suo sterile estremismo. Si dirà che così vanno le cose perché così devono andare, considerato l'irresistibile slancio divisivo della sinistra italiana, che i più colti definiscono anche pulsione di morte . Quella frammentazione identitaria che spinge a non riconoscere niente e nessuno tranne se stessi. Quell'inconsapevolezza della propria forza che, se omissiva, rischia di trasformarsi in irresponsabilità. Quella pigrizia intellettuale che confina con la subalternità e a volte con l'opportunismo. Quella mancanza di coraggio, figlia dell'insicurezza, che rifugge le relazioni e impedisce le contaminazioni. Non ultima, quella strenua competizione tra oligarchie e nomenclature che tormenta i soggetti sociali non meno dei soggetti politici. Si sta consumando un amaro paradosso. Più scolorisce, fino ad affievolirsi, il portato storico della sinistra italiana, più si fatica a consolidare un processo d'alternativa. Prigioniero di se stesso, quel che ancora a stento si definisce centrosinistra è preda di un vortice suicidario in cui sembra del tutto smarrirsi ogni vocazione al cambiamento, perfino ogni allusione a mondi migliori e più giusti. Mentre è in continua espansione una protesta sociale e culturale, che senza una nuova grammatica politica rischia di restare senza sbocchi, se non qua e là ed episodicamente, e ridursi a scaricare il suo potenziale in un incollerito e sterile abbandono o a consolarsi nei propri ridotti sempre più ridotti. Tutto ciò non suoni scoraggiante, alla vigilia di queste manifestazioni, che anzi devono raccogliere il massimo del consenso e della partecipazione: e in questo senso non mancherà certo il nostro contributo. Ma resta il problema di come dar seguito alla protesta, di come convogliare questo montante dissenso popolare verso un percorso incisivo, un orizzonte condiviso. Un problema che si riproporrà a maggior ragione all'indomani del successo delle manifestazioni. Un grande vecchio, il sociologo Bauman, ha detto qualche giorno fa che il futuro non esiste più, riecheggiando (chissà quanto consapevole) il no future del movimento punk negli anni settanta. E ha aggiunto che non c'è altra strada che costruirselo in proprio, il futuro. Anche per la sinistra italiana è così: c'è da ricostruirla.

venerdì 11 ottobre 2013

Priebke è morto. A condannarlo ci ha pensato la storia e ci penseranno le sue vittime

Italia Libera Civile e Laica....Italia Antifascista


Devo essere sincero, quando ho letto della morte di Priebke non ho gioito. Ho pensato alle vittime, alle loro famiglie, ai loro amici. Finalmente è arrivato il momento di servire la loro vendetta. Questa non verrà consumata nel mondo che noi tutti conosciamo, ma in un mondo ignoto, dove questi martiri hanno atteso per tanto, troppo tempo.


Quello che noi invece possiamo fare, è ricordare questo mostro per quello che è stato: un assassino, un essere che fino all'ultimo non ha avuto un rimorso, non un pentimento. E allora  io non rispetto chi lo osanna, chi lo chiama "perseguitato"   e sarò sempre pronto a condannarlo e a combatterlo con le armi della legalità, della democrazia e della memoria.

Non ci scordiamo che non furono solo gli ebrei a pagare, morirono cittadini italiani, romani, tutti devono conoscere. E allora ci batteremo contro personaggi come l'avvocato di Priebke, per anni complice di una menzogna che voleva far credere a chi non conosceva la storia, che quel signore che andava in giro indisturbato per le vie di Roma, che passava davanti ai negozi dei nipoti di chi aveva torturato e seppellito nelle Fosse Ardeatine, fosse in realtà solo un povero vecchietto perseguitato dalla storia.

Ma la storia ha condannato il nazismo, la storia ha condannato Priebke, la storia di chi ha reagito a quelle ingiustizie, deve farci credere che nessuno di noi permetterà che quello che è successo possa esser messo nel dimenticatoio. È un nostro dovere, lo dobbiamo a chi ci ha lasciato e lo dobbiamo anche a chi verrà.

Non esulteremo perché non ci mettiamo sul loro livello, ma non abbasseremo la guardia contro chi metterà in pericolo i nostri diritti di cittadini, di ebrei, di uomini liberi. Non ci mancherà Priebke, al mondo mancano 335 volti, 335 persone, 335 storie che nessuno potrà mai raccontarci."


Priebke, biografia di un boia nazista

Italia Libera Civile e Laica... Italia Antifascista


Mai una parola di pentimento, mai un'espressione di rammarico per le vittime: assassino fino all'ultimo giorno.


Non si è mai pentito per il proprio passato. Non ha mai espresso una parola di comprensione per le vittime o le loro famiglie. Per cento anni (li aveva appena compiuti) l'aguzzino nonché ex ufficiale nazista Erich Priebke è rimasto fedele a se stesso e a quello che ha fatto durante la sua vita di crimini contro l'umanità: aver partecipato al massacro delle Fosse Ardeatine, aver partecipato fin dai suoi inizi alla campagna di soppressione fisica degli oppositori politici del nazismo voluta da Adolf Hitler in Germania, averla proseguita in Italia fino al giorno stesso dell'arrivo degli americani a Roma il 4 giugno 1944.

La storia dell'«uomo che spuntava la lista» inizia in un sobborgo di Berlino, negli anni immediatamente successivi alla disfatta nella Prima Guerra Mondiale. Famiglia modesta, studi in un istituto alberghiero, un primo soggiorno a Londra ed uno a Sanremo, come cameriere. Sembra che tutto inizi di lì, dall'amicizia con un maestro di sci che lo introduce al verbo del nazionalsocialismo. Lui, Priebke, sostiene invece di essere sempre stato un uomo come tanti, un semplice esecutore di ordini, uno che il poliziotto lo faceva perché doveva sbarcare il lunario, ed in fondo si trattava di un mestiere onorevole. Il fatto é che lui entrava nella polizia di Berlino, e subito dopo confluiva nella Gestapo: la polizia segreta del regime.

Di più: come emerse all'epoca del processo dal National Archives di Washington, Erich Priebke venne inquadrato nel Gestapa. Il Gestapa («Geheim Staatspolizei Amt») era l'ufficio preposto all'individuazione ed alla schedatura degli oppositori del regime nazista. Si trattava soprattutto di comunisti, cattolici e socialdemocratici. A partire dal 1937 le SS, cui Priebke aveva nel frattempo aderito, iniziarono a rastrellarli. Finirono, a decine di migliaia, nel primo campo di sterminio del regime, quello di Sachsenhausen. Sempre nel 1937 il Giovane Erich dette una duplice svolta alla propria vita: sposò la ragazza di cui era innamorato e se ne andò a Roma, a fare da interprete ad Adolf Hitler in persona in occasione della visita ufficiale da Mussolini. A Roma sarebbe tornato un anno dopo, questa volta in pianta stabile, alle dipendenze di Villa Wolkonski, l'ambasciata tedesca presso il Regno d'Italia. Qui conobbe l'uomo al quale il destino lo avrebbe legato: Herbert Kappler, giovane ufficiale delle SS anche lui, anche se di un grado superiore. Cosa facessero in realtà i due a Roma non si sa bene. Si sa che ad un certo punto un autorevole esponente della nobiltà nera romana gli affittò per pochi soldi una palazzina, uso ufficio, nei pressi di San Giovanni. A Via Tasso, dopo l'Otto Settembre, i capi della Resistenza romana venivano portati, torturati, qualche volta costretti a confessare. Spesso morivano. In fondo lo stesso mestiere, per Priebke, dei tempi del Gestapa.

Lui e Kappler stavano percorrendo a piedi la breve strada che unisce Villa Wolkonski a Via Tasso, il 23 marzo 1944, quando seppero dell'attentato a Via Rasella. Hitler ordinò prima la distruzione di Testaccio e San Lorenzo, poi si optò per la rappresaglia del 10 a 1: dieci fucilati per ogni tedesco ucciso. A fare la lista, nel corso di una notte, fu Kappler. Priebke batteva a macchina. Si scelse prima tra i Todeskandidaten, quelli che tanto avrebbero dovuto morire comunque. Non bastavano: si decise di svuotare tutto il carcere, lasciando quelli le cui confessioni eventuali potevano servire al lavoro di intelligence politica. Ma a morire dovevano essere in 330, ed anche così la lista non era completa. C'erano degli ebrei appena rastrellati, tra cui i sette Spizzichino. Sul camion, anche loro.

Ma ancora restavano dei posti vuoti. Kappler e Priebke andarono dal prefetto repubblichino di Roma, Caruso, che consegnò una serie di criminali comuni, o solo gente in normale stato di fermo. Alla fine sui camion finirono in 335, contro i 330 inizialmente previsti. L'organizzazione di Via Tasso aveva funzionato anche troppo efficacemente. Nemmeno 24 ore dopo l'attentato di Via Rasella quattro camion partirono da Via Tasso e Regina Coeli, presero l'Appia Antica e girarono a destra, sull'Ardeatina. Qui c'erano delle vecchie cave di tufo, utilizzate l'ultima volta alla fine dell'Ottocento. I prigionieri venivano fatti scendere, legati gli uni agli altri per le mani, a gruppi di cinque. Priebke spuntava i loro nomi dalla lista. Loro entravano nella grotta, si avvicinavano cinque SS, puntavano il fucile alla nuca e sparavano.

Agli ufficiali toccò il primo turno di prigionieri: dovevano spronare la truppa a fare altrettanto. Una volta eliminato un gruppo di condannati, il successivo entrava, era costretto a salire sui corpi di quanti erano già stati uccisi, poi le cinque SS appoggiavano la canna del fucile alla nuca e sparavano. Gli ultimi entrarono che quasi non c'era più posto: la catasta dei morti arrivava fino al soffitto. Furono costretti a salire fino in cima. Uccisi anche loro, i nazisti se ne andarono facendo saltare l'ingresso della cava. Non mancarono di buttarci davanti un mucchio di immondizia, per coprire l'odore. Il massacro venne scoperto, tempo dopo, da un gruppo di bambini che si era avventurato nella zona per giocare. Al processo, cinquant'anni dopo i fatti, Priebke si difenderà dicendo di essersi limitato a spuntare i nomi dalla lista. Ma già Kappler, che nell'Italia del dopoguerra era stato arrestato, condannato, ricoverato al Celio e che aveva fatto in tempo a fuggire con l'aiuto della moglie per morire libero in Austria, aveva confermato che anche gli ufficiali avevano sparato. Le ricostruzioni provano poi che ci fu il caso di un caporale, Wetjen, che ad un certo punto si rifiutò di continuare.

Kappler gli mise la mano sulla spalla, lo tranquillizzò, e lo indusse a continuare. Ma per quell'atto di insubordinazione il Caporale Wetjen non venne mai punito. Per ristabilire l'ordine Kappler ordinò un altro giro di esecuzioni anche per gli ufficiali. Tutti spararono una seconda volta. Il 3 giugno successivo si sparse la voce che gli Alleati erano alle porte di Roma. Per tutta la notte gli abitanti del quartiere San Giovanni videro alzarsi lunghe lingue di fuoco dal giardino retrostante la prigione di Via Tasso: erano Priebke a Kappler che bruciavano le carte dell'archivio. La mattina susseguente gli americani entrano dall'Appia e dalla Casilina, loro fuggono dalla Cassia, verso nord. Si dividono. Priebke continuerà nella sua opera prima a Verona e poi a Brescia. Dopo la guerra Priebke sparì di circolazione. Finì a Bolzano, dove si fece battezzare da cattolico, poi con un passaporto ottenuto probabilmente grazie alla complicità di Monsignor Hudal (il parroco della Chiesa di Santa Maria della Pace a Roma, che per questo genere di attività non venne mai ricevuto in Vaticano da Pio XII) si imbarcò a Genova su una nave diretta a Buenos Aires. Qui il cerchio sembra chiudersi, perché Priebke torna al mestiere di gioventù: un giornalista italiano lo incrocia per caso, nel 1954, in un bistrò della capitale argentina. Serve ai tavoli.

Pochi anni dopo si trasferisce con tutta la famiglia a San Carlos de Bariloche, in mezzo alle Ande argentine che proprio in quegli anni ispirano a Walt Disney la meravigliosa foresta di Bambi. Inizia una nuova vita, trova la prosperità, possiede una clinica privata. La mattina del 12 maggio 1994 una troupe americana lo ferma per la strada. «È lei Erich Priebke?», chiede Sam Donaldson della Abc. «Sì», risponde lui.

È il momento dei conti con la storia. Il doppio processo in Italia si conclude con la condanna ad una lunga pena detentiva, da scontare agli arresti domiciliari. Lui viene ospitato sulle prime in un convento, poi il suo procuratore lo porta a casa sua, in un piccolo appartamento di un quartiere romano. È la metà di un dicembre di qualche anno fa. I vicini di casa lo accolgono con uno striscione sulla facciata del palazzo: «Buon Natale, assassino».

giovedì 10 ottobre 2013

Guai a strumentalizzare la manifestazione in difesa della Costituzione

Luciano Granieri

Le motivazioni per difendere la Costìtuzione e quindi   partecipare alla manifestazione di sabato prossimo, sono molteplici   e variegate. Alle istanze proposte dagli organizzatori del corteo “Costituzione la via maestra” se ne sono aggiunte molte altre  avanzate  da movimenti e organizzazioni differenti. 

Le parole d’ordine di Rodotà, Zagrebelsky, Carlassare, Landini e Don Ciotti, sono: partecipazione, rispetto della dignità umana, garanzie dei diritti umani, civili e politici. Il documento di invito alla partecipazione di Roma è ampio, ma tralascia l’approfondimento di alcuni aspetti che invece costituiscono il contributo di altre forze,   in particolare quelle contraddistinte da un orientamento anticapitalista. 

Come non vedere che l’attacco alla Costituzione, elemento di coesione sociale,  è funzionale a rimuovere un ostacolo  eretto contro il pieno dispiegarsi delle politiche di austerity dilaganti in Europa?  Come non capire che   la forzatura dell’inserimento del pareggio di bilancio nella Carta non è che l’ultimo e il più aberrante dei tentativi di destrutturare l’impianto solidaristico della Costituzione?  

Del resto J.P Morgan,  la più grande banca d’affari statunitense,  lo ha scritto nero su bianco. Secondo il più grande club di squali speculatori finanziari affamatori di popolo “E’ per colpa delle idee socialiste insite nelle costituzioni  antifasciste degli Stati del sud Europa,  se non si riescono ad applicare le necessarie misure di austerity”.  

Un altro aspetto e forse il più conflittuale in merito alla difesa della Costituzione, riguarda la lotta di classe. I drammatici eventi della seconda guerra mondiale e della resistenza, hanno inglobato  la  lotta di liberazione dall’occupazione tedesca, la guerra civile per liberarsi dalla dittatura fascista, ma anche la battaglia delle classi subalterne per la conquista di diritti quali il lavoro, la progressività fiscale, l’istruzione e la salute pubbliche, le responsabilità sociali delle imprese private. Diritti che puntualmente vengono sanciti nella Carta. 

Per quanto la Costituzione sia il risultato di un compromesso della classe lavoratrice con la borghesia liberale , capitalista e cattolica , è la prima,  nella struttura della Carta,  ad esercitare una supremazia sulla seconda. E’per questo motivo, che sin dall’immediato dopo guerra, il processo di controrivoluzione di una classe borghese irriducibile, ha sempre impedito il rispetto delle regole scritte nella Costituzione e ha cercato in ogni modo di sovvertirle. 

Probabilmente il periodo in cui più ci si è avvicinati al recepimento  delle norme costituzionali è stato negli anni ’70 dopo l’imponente stagione delle rivolte sociali che avevano prodotto una avanzamento nel rispetto dei diritti inscritti nella Costituzione. Sappiamo tutti come il processo di restaurazione  stragista sia riuscito a stroncare quelle conquiste e il successivo decennio, contraddistinto dagli insegnamenti ultraliberisti dei Chicago boys, abbia sepolto definitivamente ogni aspirazione di affermazione del proletariato. 

Anche questa analisi manca nell’appello in difesa della Costituzione redatto dai promotori della manifestazione di sabato prossimo. Ma non è importante. E’ sufficiente che comunque sia presente, grazie alla partecipazione di altri movimenti.  In sostanza mi preme sottolineare come la molteplicità delle istanze poste a sostegno della manifestazione di sabato, sia da considerare una enorme ricchezza. Tutte hanno pari dignità. 

E’ pericoloso dividersi sulla maggiore o minore legittimità delle motivazioni che inducono ha difendere la Costituzione. Il rischio è che qualcuno strumentalizzi la manifestazione per  rifarsi il trucco e cercare nuova visibilità politica. Il fatto che la Costituzione abbia aggregato forze che su altre questioni hanno posizioni diverse è estremamente positivo. Ma tali differenze devono rimanere fuori dal contesto della manifestazione di sabato. 

Guai se qualcuno, fra i movimenti e le organizzazioni che hanno aderito,  cercherà di fare campagna acquisti, o formare nuovi partitini inconcludenti destinati allo zero virgola. Da questo punto di vista ho apprezzato lo sforzo che è stato fatto a Frosinone, nel costituire il comitato in difesa della Costituzione. Nel coordinamento sono presenti partiti, movimenti e associazioni, ma ognuno (qualcuno storcendo il naso) , ha rinunciato ad esaltare la propria  appartenenza in nome dell’unità di un movimento che come unico scopo ha la difesa della Costituzione. In altri luoghi e in altre sedi potremo discutere e confrontarci sulle altre questioni. Oggi la difesa della Carta impone,qui e ora,  una granitica unità.


mercoledì 9 ottobre 2013

Per difendere la Costituzione, per lo Stato di diritto, contro lo Stato di privilegio, sabato 12 ottobre tutti a Roma .

Comitato in difesa della Costituzione Frosinone


 Il Comitato in  difesa della Costituzione sollecita  tutti coloro che vogliono  difendere lo Stato di diritto, a partecipare    alla manifestazione nazionale  in difesa della Costituzione denominata “Costituzione la via maestra”, organizzata dai costituzionalisti, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky,  Lorenza Carlassare,  dal segretario generale della FIOM Maurizio Landini e da Don Luigi Ciotti di Libera. E’ fondamentale partecipare in massa al corteo che sabato 12 ottobre partirà alle 14,30 da Piazza della Repubblica e giungerà  in Piazza del Popolo, per difendere la Costituzione quale elemento fondante di uno Stato  democratico  e solidale. Il comitato   esorta, inoltre,  ad esibire un segno di lutto per ricordare la tragedia di Lampedusa, così come richiesto dagli stessi  organizzatori. Ciò   per  evidenziare come  l’articolo 10 della Costituzione preveda  che  “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha dritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.  Difendere la Costituzione è difendere i diritti di tutti, chiunque siano e da qualunque parte vengano. Uno Stato che fonda i propri obbiettivi legislativi sulla tutela dei privilegi   e non sulla difesa dei diritti dei cittadini, non è uno Stato democratico. Per evitare  una tale deriva antidemocratica  lo Stato si dota della Costituzione,  una elaborazione superiore in cui si identificano i principi in base ai quali  si deve indirizzare l’impianto normativo. Nel caso della nostra Costituzione tali principi si   fondano sul rispetto della dignità umana, sulla partecipazione dei cittadini alla vita politica,   sull’assicurazione  dei diritti, umani,  civili e politici, fondamentali  alla vita di ciascuno.   E’ inutile negarlo, molte    delle leggi  emanate dai  governi   della Repubblica,  succedutisi  dal dopoguerra ad oggi,    hanno sempre avuto come obbiettivo più o meno celato la tutela dei privilegi di pochi,  in danno dei principi democratici  .  Se ciò non è avvenuto in maniera definitiva lo si deve alla presenza della nostra Costituzione, baluardo estremo posto al rispetto dei diritti di ogni cittadino.  Per questo motivo la Carta Costituzionale è stata fatta oggetto di continui tentativi di sovvertimento e di manomissione.  L’idea di cambiarne la seconda parte,  quella attuativa, con il mal celato intento  di  procedere al sovvertimento della prima parte, quella relativa ai principi fondamentali , ha sempre ispirato i governi succedutisi alla guida del paese,  esecutivi rappresentativi delle èlite  economico-finanziarie  impegnate a tutelare i propri privilegi. Oggi, dopo il breve impasse  imposto da una finta quanto  kafkiana  crisi politica , il disegno ha ripreso vigore. Il governo Letta 2.0 ha ribadito la necessità di modificare l’articolo 138 della Costituzione per consentire che il disegno di riforma costituzionale,  messo a punto dai 42 saggi nominati con decreto, del tutto illegittimo,   dallo stesso Letta, con l’avallo del presidente Napolitano, possa finalmente infettare l’equilibrio democratico determinato dalla Carta eludendo i principi di garanzia imposti  dallo stesso 138.  La riscrittura in senso oligarchico dell’organizzazione statuale,  collide con il principio di repubblica democratica partecipata sancita nella  prima parte  della Costituzione.  Si sta cercando di assestare il colpo definitivo allo Stato di diritto per decretare il dominio assoluto dello Stato di privilegio.
Comitato in difesa della Costituzione della Provincia di Frosinone.


12 OTTOBRE: PER LA DEMOCRAZIA, PER I DIRITTI SOCIALI. SENZA COMPROMESSI!

Andrea Martini fonte:  Sinistra Anticapitalista


Forze potenti, politiche e sociali, nazionali e internazionali, da tempo vogliono ridurre o annientare gli spazi di democrazia presenti nella vita politica del nostro paese. Questo disegno si condensa attorno al progetto di riforma costituzionale e istituzionale che da decenni attraversa il dibattito tra e nelle principali forze politiche.

Il progetto non riflette solo la vocazione autoritaria della destra italiana. Esso si basa piuttosto sulla brutalità delle politiche di austerità che si vogliono imporre alla stragrande maggioranza della popolazione. Si tratta di politiche che per gli espliciti costi sociali che comportano mai riuscirebbero a imporsi se il governo riflettesse veramente i bisogni e le aspirazioni di questa maggioranza.

Queste politiche sono solo all’inizio. Non sono legate al passato berlusconiano ma si proiettano sul nostro avvenire. Ciò che sta accadendo in Grecia è il modello al quale vogliono richiamarsi tutte le classi dirigenti europee e in particolare quella italiana.


Il Fiscal Compact voluto dall’Unione europea e sottoscritto dal nostro governo impone feroci tagli di bilancio per i prossimi due decenni, pretende la sostanziale cancellazione di tutto ciò che resta dello stato sociale, vuole un ulteriore abbassamento delle retribuzioni ai lavoratori dipendenti e la cancellazione delle loro tutele sindacali e giuridiche.

Tutte queste politiche non possono basarsi su di un ampio consenso democraticamente espresso; anche qui le dure manifestazioni di opposizione del popolo greco ai memorandum della Troika europea e alle politiche del governo Samaras sono la dimostrazione dell’assenza strutturale di consenso sociale in un contesto di politiche di questa natura.
E, dunque, per gestire queste politiche occorre un assetto istituzionale e costituzionale nel quale la vera volontà del popolo possa essere piegata ai bisogni delle classi dirigenti. Da qui tutta la campagna basata sulla presunta necessità di “ammodernare” la costituzione, di doverla adeguare alle nuove necessità, tacendo che questa necessità vuole in realtà rendere le istituzioni più agilmente manovrabili al fine di gestire le politiche dell’austerità con la minore opposizione possibile.
E’ questa la radice della ostinazione con cui tutta la politica del palazzo vuole violentare le forme e la sostanza della democrazia nel nostro paese.
Ecco perché riteniamo giusto batterci per difendere quelle forme e, soprattutto quella sostanza. La manifestazione del 12 ottobre è stata convocata a partire da un appello (“La via Maestra”) lanciato ai primi di settembre da alcune personalità del sindacato, dell’associazionismo e della cultura. Essa può perciò polarizzare tante e tanti che oggi sono sinceramente preoccupati per l’attacco alla democrazia e alle garanzie costituzionali.
Occorre però puntualizzare anche limiti, ambiguità e rimozioni insiti in quell’appello e, più in generale, nell’iniziativa del 12 ottobre.
In primo luogo occorre dire che tutto l’appello sembra alludere alla necessità di contrastare il disegno autoritario della destra. Questo disegno c’è, e c’è da tempo (era il progetto della P2 e di Gelli). Ma non è più solo il progetto della destra. Esso è diventato il progetto di tutte le forze politiche istituzionali.
Anzi, occorre ricordare che il PD (oltre che i suoi predecessori PDS e DS) si è a volte battuto più del centrodestra per una riforma costituzionale in senso efficientistico e sostanzialmente presidenzialista. Basta ricordare l’iniziativa della commissione bicamerale per le riforme costituzionali presieduta da Massimo D’Alema alla fine degli anni 90, la riforma del Titolo V fatta nel 2001, che ha differenziato i servizi, in particolare sanitari, tra le regioni più ricche e quelle più povere e, da ultimo, ma estremamente signifiativo, l’introduzione nell’articolo 81 della Costituzione dell’obbligo al pareggio di bilancio, approvato dal parlamento nel 2012 quasi all’unanimità, che nei fatti impedisce ogni intervento pubblico nell’economia.
Ma non solo. Oggi, c’è un grande regista della riforma costituzionale, ed è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che, con i suoi comportamentio concreti, sia nel settennato precedente, sia in quello appena riapertosi dopo la sua elezione nell’aprile di quest’anno sta già operando con uno spirito presidenzialista, facendo e disfacendo i governi, intervenendo pesantemente nelle scelte politiche e nella gestione dei complessi equilibri richiesti dalle “larghe intese”.
Ma nell’appello c’è un limite più di fondo.
La rivendicazione del rilancio della Costituzione del 1948 elude il fatto che quel testo era il frutto del compromesso stipulato nel nostro paese all’indomani della caduta del fascismo sul piano politico tra i principali partiti e sul piano sociale tra la borghesia italiana (uscita sconfitta dalla guerra e dalla Resistenza) e coloro che si proponevano come rappresentanti delle classi lavoratrici. Quel compromesso (che sottintendeva un progetto di ampio progresso sociale in cambio del rispetto della legge del profitto, della proprietà privata, dei privilegi ecclesiastici) si fondava su rapporti di forza sempre più favorevoli per le classi subalterne, dovuti sia alle lotte di quei decenni sia alla crescita numerica e sociale della classe operaia, sullo slancio dello sviluppo economico postbellico. Tant’è che una serie di indicazioni formali contenute nella Costituzione sono state realizzate solo negli anni 70 a seguito di imponenti lotte sociali.
Ora quel compromesso sociale non esiste più. Non esiste più perché non ne esistono più i presupposti. Non c’è più l’equilibrio internazionale tra le “grandi potenze” che ne era stato il retroterra geopolitico, non ci sono più i partiti politici che lo stipularono, soprattutto non ci sono più i rapporti di forza tra le classi favorevoli ai lavoratori, che escono fortemente sconfitti da tre decenni di aggressione padronale.
Ormai la Costituzione italiana, giustamente ritenuta tra le più avanzate del mondo occidentale, è stata pesantemente violentata nella forma (dalle ripetute incursioni controriformistiche venute da destra e dal centrosinistra e negli ultimi tempi perfino congiuntamente) e nella sostanza con la distruzione o la devastazione di tutte le conquiste sociali che avevano cercato di concretizzarne il disegno (degrado della scuola e della sanità pubbliche, cancellazione della progressività dell’imposizione fiscale, violazione del ripudio della guerra, ecc.). Allora rivendicare che si possa reimbiancare quel compromesso e rilanciarne lo spirito risulta utopistico e velleitario e rischia di spingere i movimenti di lotta contro l’attacco padronale e governativo in un binario morto, di illuderli sulla possibilità di trovare interlocutori disponibili e amichevoli.
In realtà è invece necessaria la più netta consapevolezza sulla compattezza della classe dominante dietro la politica antioperaia e antipopolare, sulla necessità di sconfiggerla nel suo complesso, senza illudersi sulla presunta esistenza di un settore borghese progressista e disponibile al compromesso. D’altra parte, già nei primi anni 2000, Sergio Marchionne venne irresponsabilmente descritto da qualcuno come progressista. Come sia andata a finire ormai è noto a tutti.
Infine, quell’appello allude alla possibilità di costruire un nuovo spazio politico, solleticando la diffusa insoddisfazione per ciò che esiste e, soprattutto, per ciò che non esiste a sinistra. Non saremo certo noi a negare la necessità di colmare il vuoto politico alla sinistra del PD. Un vuoto che non può certo essere riempito da SEL, completamente integrata come anima sinistra del centrosinistra, né dal PRC, non solo perché ridotto a poca cosa dalle sue ripetute scissioni ma, soprattutto, per la verticale perdita di credibilità nella disastrosa vicenda del governo Prodi, mai riconquistata anche per la ostinata ambiguità politica nei confronti del centrosinistra. Un progetto di costruzione di un soggetto politico nuovo va dunque perseguito. Ma può essere l’appello per il 12 ottobre il contesto in cui lavorare a questo scopo? Certamente non può essere il rilancio della Costituzione del 1948 il programma politico del soggetto di cui c’è bisogno.
In particolare le giovani generazioni di quella Costituzione hanno vissuto solo lo stravolgimento.
La sua sostanziale incapacità di impedire il massacro sociale in corso da anni. Una Costituzione che non ha impedito né limitato le privatizzazioni, la precarietà dilagante, le guerre, la distruzione dei diritti, la crescita delle diseguaglianze…
Perché dunque impegnarsi per riaffermare un documento che ha dimostrato tutta la sua irrilevanza? E soprattutto quale collocazione politica e quale strategia dovrebbe adottare il soggetto politico in questione?
Dovrebbe puntare a stimolare il riaffiorare nel PD delle presunte radici di sinistra o, piuttosto, prendere atto che sia la destra che il centrosinistra sostengono entrambi, seppure con impostazioni a volte diverse, la politica dell’austerità e della controriforma autoritaria? La nostra risposta a queste domande è chiara. Per noi lo spazio politico da costruire deve essere nettamente alternativo al centrosinistra e al PD (oltre che alla destra, ovviamente). E deve avere un profilo dichiaratamente anticapitalista, individuare cioè nel capitalismo, nella logica del profitto e nella proprietà privata dei mezzi di produzione la radice del degrado sociale di questa epoca. Deve certo difendere le libertà democratiche messe pesantemente in discussione dal PD, dal PdL e dalla presidenza della Repubblica, ma senza illudersi nel sogno di un nuovo patto sociale.
L’ideologia della difesa della Costituzione purtroppo non ha impedito allo stesso Landini di avallare il patto antidemocratico del 31 maggio che demolisce i diritti sindacali o a Stefano Rodotà di accodarsi  alla criminalizzazione dei movimenti, accostando le giuste lotte dei NoTav in Val di Susa con pratiche mafiose. La manifestazione del 12 non può essere contrapposta con le giuste lotte dei movimenti sociali e dei sindacati di base che si esprimeranno in piazza il 18 e 19 ottobre.

Le forze di occupazione attaccano il FPLP a Nablus con incursioni e arresti

http://www.palestinarossa.it/ 

Le forze di occupazione hanno lanciato un raid e una campagna di arresti nelle prime ore di Venerdì 4 ottobre, contro i quadri e gli attivisti del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina nella zona di Nablus.  

Il leader del FPLP a Nablus, il compagno Zahir al-Shishtary, è stato arrestato insieme a Yousef Abu Ghoulmeh di Beit Furik, Mohamed Shathawi del campo profughi di Al-Ain, e Thabet Nassar di Madama. Queste azioni sono state seguite da una campagna di arresti in varie parti della città aventi come obiettivo i giovani palestinesi. Le forze di occupazione israeliane hanno fatto irruzione nell'ufficio del FPLP a Nablus, hanno confiscato il suo contenuto, documenti e computer, saccheggiando tutti gli spazi. Anche iIl compagno Shishtary è stato arrestato alcuni mesi fa da parte delle forze di sicurezza dell'Autorità Palestinese per motivi politici. Il compagno Emad Abu Rahma, membro del Comitato Centrale del PFLP, ha detto che tali campagne di arresti sono la conseguenza dell’impegno del Fronte nella resistenza, del rifiuto di riconoscere la legittimità dell'entità sionista e della posizione contraria ai falsi negoziati di pace ed al percorso di Oslo. Ha detto che la campagna di reclusione diretta contro l'intero popolo palestinese, così come l'espansione degli insediamenti, la confisca delle terre, la giudaizzazione di Gerusalemme ed altre aggressioni e sopprusi, rappresentano il vero volto dello stato di occupazione, l'incarnazione del regime razzista di insediamento sionista basato sulla spoliazione del popolo palestinese e della sua terra. Abu Rahma chiedeva la fine della collaborazione delle forze di sicurezza palestinesi con l'occupazione, che in sostanza agiscono come alleati delle forze di occupazione nella ricerca, l'arresto e la detenzione di attivisti palestinesi. Ha anche chiesto la fine immediata dei negoziati con l'occupazione, perché ingannano l'opinione pubblica internazionale e prevedono la copertura per i crimini dell'occupazione. Abu Rahma ha detto che gli arresti non faranno altro che rendere il Fronte più determinato a continuare la lotta per porre fine all'occupazione e raggiungere gli obiettivi di ritorno dei profughi, di liberazione e di autodeterminazione.  

lunedì 7 ottobre 2013

L’ISTRUZIONE E’ UN DIRITTO E NON UNA MERCE

Coordinamento delle Scuole di Roma

LANCIAMO UNA CAMPAGNA
PER UNA DELIBERA DI INIZIATIVA POPOLARE
CHE ELIMINI I FINANZIAMENTI ALLE SCUOLE PRIVATE
E LI UTILIZZI PER LE SCUOLE COMUNALI



APPLICHIAMO LA NOSTRA COSTITUZIONE, NATA DALLA RESISTENZA

Art. 33 …La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.
Art. 34 La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
COSTRUIAMO LA PROPOSTA DI DELIBERA CONSILIARE DI INIZIATIVA POPOLARE PER INTERVENIRE SUL BILANCIO COMUNALE PER L’ESCLUSIVO RIFINANZIAMENTO DELLA SCUOLA DELL’INFANZIA COMUNALE, UTILIZZANDO I FONDI GIA’ DESTINATI ALLE “SCUOLE PARITARIE PRIVATE”.
Bologna e il referendum per togliere i finanziamenti alle scuole paritarie private ci hanno indicato una strada che oggi possiamo portare avanti a Roma con la proposta di una delibera consiliare di iniziativa popolare, PER INTERVENIRE CON STRUMENTI DI PARTECIPAZIONE DIRETTA E “POPOLARE”, nella gestione del BILANCIO COMUNALE della nostra città.

La scelta è quella di fare una battaglia per riportare alla scuola pubblica i fondi impegnati e stanziati (fin dalla metà degli anni Novanta, Giunta Rutelli 1 e Assessorato comunale gestito all’epoca da Fiorella Farinelli) a favore delle scuole private.
Per una “OPERA DI RI-PUBBLICIZZAZIONE” che serva a spostare finanziamenti dal “privato” verso il “pubblico” e per proseguire una campagna politico culturale che riporti tutti  i finanziamenti  del bilancio dello Stato e degli Enti locali alla Scuola Pubblica, invertendo la tendenza attuale, costituiamo un COMITATO PROMOTORE per questa Delibera di Iniziativa Popolare, il più ampio e capillare possibile nella città, attraverso una campagna di informazione e sensibilizzazione nelle scuole e nei quartieri.

Per contatti: coordinamentoscuoleroma@gmail.com

La comunità che prega con la Bibbia e il giornale

Luca Kocci. da "il manifesto" del 05/10

Dalla parte dei poveri, le omelie discusse insieme ai fedeli, per il divorzio e il sostegno alla Palestina... La storia di un impegno cattolico nato con il '68. Ma siamo sicuri che Gesù voleva i preti di oggi?

Era il 2 settembre 1973 quando le donne, gli uomini e i giovani della comunità della basilica di San Paolo fuori le mura riuniti attorno all'ex abate Giovanni Franzoni uscirono fuori dal tempio e celebrarono la loro prima messa in un salone della via Ostiense, a poche centinaia di metri dalla basilica dove erano soliti incontrarsi, discutere e pregare. 
Nacque così la Comunità cristiana di base di San Paolo - che oggi festeggia i suoi 40 anni -, una delle esperienze più significative della stagione del post-Concilio, del «dissenso cattolico» e di quella Chiesa di base lontana dal Vaticano ma vicina al Vangelo che, come un fiume carsico, continua a scorrere nelle profondità nel corpo della Chiesa.
Non è la più anziana delle Comunità di base italiane. Prima di lei, alla fine del 1968, a Firenze era nata quella dell'Isolotto, attorno a don Enzo Mazzi, in seguito all'episodio che diede il via al '68 cattolico: l'occupazione del duomo di Parma da parte di un gruppo di giovani cattolici che denunciavano i finanziamenti delle banche alla Curia per la costruzione di una nuova cattedrale.
Dopo il '68 il «dissenso» cresce sia in Italia che all'estero - in America latina sboccia la teologia della liberazione -, messo in moto dalle istanze di rinnovamento del Concilio Vaticano II, e arriva fino a Roma, il «cuore dell'impero» ecclesiastico: don Roberto Sardelli lascia la sua parrocchia al Tuscolano e i privilegi che essa gli garantiva per andare a vivere fra i senza casa dell'Acquedotto Felice - uno dei tanti «borghetti» dove migliaia di persone avevano costruito delle abitazioni di fortuna e vivevano ai margini della città - dando vita ad una scuola popolare (la Scuola 725) sul modello di quella di Barbiana; i salesiani allontanano - e poi espellono dalla congregazione - due professori dalla loro università, don Giulio Girardi, fra i maggiori protagonisti del dialogo fra cattolici e marxisti e dei Cristiani per il socialismo, e don Gerard Lutte, che aveva scelto di andare ad abitare con i baraccati di Pratorotondo, alla periferia nord est di Roma, e di sostenerli nelle loro lotte fino all'assegnazione delle case popolari alla Magliana; nasce una moltitudine di gruppi di base riuniti nell'Assemblea ecclesiale romana che si mobilita contro il Concordato e per una «Chiesa povera e dei poveri».
Nella basilica di San Paolo fuori le mura, retta dai benedettini cassinesi, dal 1964 c'è un giovane abate, Giovanni Franzoni, che aveva partecipato alle fasi finali del Concilio e iniziava a farsi interrogare dalle contraddizioni della città e di un quartiere popolato e popolare come San Paolo, animato anche dalla convinzione che la vita monastica non significava isolamento dal mondo ma impegno nella storia. Prende forma così una comunità «orizzontale» di laici, donne e uomini, che cominciano a riflettere sul che fare per vivere un Vangelo ancorato alla società e alla città e si immergono nelle vicende sociali e politiche: l'opposizione alla parata militare del 2 giugno e ai cappellani militari, le manifestazioni contro la guerra in Vietnam, il sostegno all'obiezione di coscienza al servizio militare, le lotte degli operai licenziati della Crespi (una fabbrica di infissi non lontana dalla basilica), l'attenzione agli emarginati e agli esclusi, in particolare i reclusi nell'ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà. A San Paolo si realizza anche quella piena partecipazione dei laici alla vita della Chiesa proclamata dal Concilio e mai compiuta: l'omelia della messa domenicale, celebrata in basilica dall'abate Franzoni, viene preparata il sabato sera in un confronto collettivo e paritario con i laici.
Fascisti e cattolici tradizionalisti protestano - passando anche all'azione con irruzioni durante le assemblee e con scritte contro Franzoni sui muri dei palazzi del quartiere -, i gerarchi ecclesiastici mugugnano e guardano a vista la comunità, ma non trovano elementi per intervenire con delle sanzioni. Fino all'aprile del 1973. «Durante la messa, un giovane andò al microfono per pronunciare la sua preghiera, che veniva proclamata spontaneamente da chiunque - ricorda Franzoni -. In quei giorni sui giornali si parlava di un'operazione speculativa sul dollaro compiuta dallo Ior che era stata criticata addirittura dagli organismi finanziari internazionali. E quel giovane, nella preghiera, chiese che i suoi figli potessero crescere in una Chiesa che non si dovesse vergognare perlomeno di fronte ai santuari del capitalismo. Due giorni dopo venni convocato da mons. Mayer, segretario della Congregazione vaticana dei religiosi, il quale mi chiese di censurare le preghiere. Ne parlammo in comunità. Alcuni mi suggerivano di accettare, aggiungendo però che in tal caso l'esperienza della comunità sarebbe finita perché avrebbe perso l'autonomia. Tornai dal monsignore, gli dissi che non avrei obbedito e contestualmente fissammo la data delle mie dimissioni da abate di San Paolo: il 12 luglio 1973. Credo che tirò un grande sospiro di sollievo».
Prima di lasciare la basilica, Franzoni fa in tempo a pubblicare La terra è di Dio, una lettera pastorale - quindi a pieno titolo un documento del magistero perché San Paolo era sede vescovile - che conteneva un severo atto d'accusa contro la speculazione fondiaria ed edilizia portata avanti con il silenzio e la complicità dell'istituzione ecclesiastica e contro gli stretti legami fra Chiesa e potere economico, all'ombra della Democrazia cristiana. Il 26 agosto Franzoni celebra la sua ultima messa in basilica, davanti a 3mila persone. E il 2 settembre c'è la prima eucaristia nel salone di via Ostiense: partecipano in più di 800. È nata la Comunità cristiana di base di San Paolo.
Desacralizzare e riappropriarsi del Vangelo per incarnarlo nella storia, in piena autonomia e libertà di coscienza, sarà la linea della Comunità, che in questi 40 anni camminerà «tenendo in mano la Bibbia e il giornale». Nel referendum del 1974 si schiera a favore del divorzio e in questa circostanza Franzoni viene sospeso a divinis, gli viene cioè proibito di amministrare i sacramenti, che in Comunità continueranno ad essere celebrati comunitariamente, con o senza prete. Nel 1976, dopo la sua dichiarazione di voto per il Pci pubblicata sul settimanale Con Nuovi Tempi, viene dimesso dallo stato clericale. Poi il referendum sul divorzio e il coinvolgimento in tutte le lotte sociali degli anni '80 e '90. 
In tempi più recenti l'opposizione alle guerre in Iraq e Afghanistan, la partecipazione al World Gay Pride del 2000, nell'anno del Giubileo; nel 2005 il referendum sulla legge 40, contro l'ordine di astensionismo arrivato dal card. Ruini; poi il sostegno alle battaglie di Beppino Englaro e Piergiorgio Welby, commemorato a San Paolo mentre Ruini gli aveva negato il funerale religioso; oggi le attività con i profughi afghani accampati alla stazione Ostiense, nell'indifferenza delle istituzioni capitoline; le storiche battaglie contro il Concordato e i cappellani militari, ma anche i percorsi di fede con il gruppo biblico e il gruppo donne che, seguendo il filone della ricerca teologica e biblica femminista, approfondisce le tematiche riguardanti la condizione della donna nella Chiesa e nella società. Non un'altra Chiesa ma una Chiesa altra.



Giovanni Franzoni: «Bergoglio è simpatico e popolare ma non tocca i nodi della chiesa»


La Comunità di base di San Paolo è nata 40 anni fa. Giovanni Franzoni, all’epoca abate della basilica di San Paolo fuori le mura, prima di essere sospeso a divinis e dimesso dallo stato clericale dal Vaticano per le sue posizioni sociali e politiche – dalla denuncia delle collusioni fra Chiesa e poteri forti, alla presa di posizione a favore del divorzio, fino alla dichiarazione di voto per il Pci – ne racconta le origini.
«La domenica celebravo in basilica la messa di mezzogiorno e nelle omelie tentavo di seguire l’insegnamento del teologo protestante Karl Barth: tenere insieme la Bibbia e il giornale. Ovvero attualizzare il Vangelo, incarnarlo nelle contraddizioni della società. Dopo un po’, con un gruppo di 30-40 persone, decidemmo di incontraci il sabato sera per preparare insieme l’omelia. Leggevamo i testi, discutevamo insieme, i laici portavano il loro contributo che per me, monaco, era molto importante. E la domenica la mia predica era il risultato di quel confronto: quindi un’omelia partecipata, non un indottrinamento dall’alto. Fu quello, di fatto, il primo nucleo della comunità».
Cominciò tutto da lì?
«Ci coinvolgemmo sempre più anche nel sociale: l’opposizione alla parata militare del 2 giugno e ai cappellani militari, le lotte con i disoccupati e i senza casa, le denunce della speculazione edilizia ecclesiastica, le manifestazioni contro la guerra in Vietnam. Arrivarono le contestazioni dei fascisti e dei cattolici tradizionalisti, arrivarono anche le visite apostoliche, cioè le ispezioni, delle gerarchie ecclesiastiche, da cui però passai sempre indenne. Fino al 1973.
Quando nacque la Comunità di base di San Paolo
Ci riunivamo in alcuni locali sulla via Ostiense dove iniziammo a celebrare la messa, con il cardinal Poletti, vicario del papa per la città di Roma, che “non approvava ma non proibiva”. E ancora oggi siamo lì
Siete degli scissionisti?
No, non vogliamo un’altra Chiesa, anche perché mi sembra che ce ne siano già tante, ma una Chiesa altra. Siamo dei riformatori, vogliamo che la Chiesa cambi per essere più fedele al Vangelo e al Concilio.
Che ne è del Concilio?
Lo spirito e le istanze del Concilio Vaticano II sono state soffocate da Ratzinger e da Wojtyla: la collegialità, la partecipazione, la sinodalità sono parole vuote. Certo i Sinodi dei vescovi si svolgono, ma hanno un valore solo consultivo, quindi sono totalmente inefficaci. Si continua ad ignorare il ruolo delle donne nella Chiesa, valorizzate solo a parole. C’è stata la sistematica repressione dei teologi che esprimevano un punto di vista diverso, a cominciare dai teologi della liberazione.
Papa Bergoglio sta raccogliendo molti consensi, anche dall’opinione pubblica laica e di sinistra. Qual è il suo giudizio?
È ancora presto per esprimere una valutazione complessiva. Ha cominciato il suo pontificato con una grande retorica pauperistica. La retorica è lecita, ci mancherebbe altro. L’immagine crea simpatia e consenso, ma devono arrivare anche delle decisioni su questioni controverse, altrimenti è solo apparenza.
Per esempio?
Per esempio sulla collegialità. Deve essere vera. I Sinodi devono avere potere decisionale, sennò non servono a nulla. Poi la riabilitazione dei teologi, dei vescovi e dei preti repressi da Wojtyla e Ratzinger, non solo quelli vivi ma anche quelli che sono morti da “eretici”. Non per un riconoscimento post mortem, ma per dire che oggi è possibile parlare liberamente, senza timori di vedersi tolta la cattedra, senza paura di subire emarginazioni e scomuniche. E poi le donne, esaltate a parole ma escluse da ogni ruolo decisionale nella Chiesa.
Parliamo di sacerdozio femminile?
No, parlo di ruoli decisionali e di responsabilità. Durante il Concilio un vescovo indiano, totalmente inascoltato, fece notare che molte responsabilità nella Chiesa non sono legate allo stato clericale. Cioè non bisogna essere per forza preti per ricoprirli. Questi ruoli possono essere affidati ai laici e quindi anche alle donne: i nunzi apostolici, i capo dicasteri, anche i cardinali. Gli otto “saggi” nominati da Bergoglio per riformare la Curia sono tutti cardinali maschi. Ci sarebbe potuto essere tranquillamente qualche laico e qualche donna, senza necessità che fosse prete. La questione del sacerdozio femminile è più ampia: il rischio è di clericalizzare anche le donne. E poi siamo sicuri che Gesù volesse dei preti così come sono oggi?
E sui principi non negoziabili?
Il discorso è analogo. Papa Francesco usa toni concilianti, parla in modo spontaneo. Ma bisogna affrontare i nodi. Va bene che il papa dica “chi sono io per giudicare un gay”, ma se poi quella persona chiede che la sua unione omosessuale venga benedetta dalla Chiesa cosa gli si risponde? Che non è possibile. E allora le parole non sono sufficienti. Bisogna invece aprire le porte, discutere insieme e decidere.

domenica 6 ottobre 2013

Competenze costituzionali

Luciano Granieri


Barbera Augusto, De Vergottini Giuseppe, docenti dell’Università di Bologna, Salazar Carmela, dell’Università di Reggio Calabria, Violini Lorenza, dell’Università di Milano, Caravita di Toritto  Beniamino,  della sapienza di Roma, sono fra le 38 persone denunciate dalla guardia di finanza di Bari per truffa, corruzione,  atti contrari ai doveri d’ufficio e falso ideologico per aver costituito un’associazione a delinquere allo scopo di pilotare negli ultimi tre anni i concorsi nella università italiane. 

Che c’è di così clamoroso!  Ci  troviamo di fronte all’ennesima brutta storia di corruzione  maturata nell’ambiente accademico. Ma non è tutto. La professoressa Violini aveva appoggiato la legge ad personam del legittimo impedimento, dichiarata incostituzionale dalla Consulta. De Vergottini e Caravita di Toritto avevano firmato un’appello in favore del lodo Alfano, anch’esso cassato dalla Corte Costituzionale perché violava gli articoli: 3 (principio di uguaglianza) e 138 (procedimento per la revisione della Costituzione e per l’approvazione delle leggi costituzionali) quest’ultimo non a caso ritornato sotto attacco del governo   Letta 2.0. 

Inoltre Caravita di Toritto e De Vergottini, insieme con un certo Zanon,  firmavano un parere “pro veritate” a sostegno del ricorso inoltrato a Strasburgo da Berlusconi contro la legge Severino. Un documento  nel quale si sosteneva la ben nota tesi delle inapplicabilità della pena di decadenza per reati commessi prima della promulgazione della legge stessa. Parere originale in quanto, come spiegato più volte da illustri giuristi,  la Severino non determina una pena, ma un atto da applicare in conseguenza di una pena, per cui se non si definisce una pena non si possono neanche definire i tempi della sua applicabilità. Ma perché scandalizzarsi anche di questo?  

Non sarà né la prima né l’ultima volta che accademici  indagati   per truffa e associazione a delinquere, si spendono a venire in soccorso di ben noti e accertati delinquenti, mostrando consapevolmente o inconsapevolmente la loro incompetenza in materia costituzionale. Già perché scandalizzarsi? 

Stavolta un motivo ci sarebbe.  Si da il caso infatti che Barbera, De Vergottini, Salazar, Violini e Caravita di Toritto, facciano parte dei 42 saggi, nominati per decreto da Letta, su  input di Napolitano, incaricati di stravolgere la Costituzione. E per approvare in tempi brevi i loro strafalcioni si sta tentando di manomettere per via parlamentare le difese dell’articolo 138. 

Dal momento che  si aspira  a modificare, di fatto,   anche la prima parte della Carta, ossia i  principi fondamentali,  ammesso che tale   operazione fosse ritenuta così indispensabile, decenza vorrebbe che in luogo dei saggi si eleggesse  una costituente formata da giuristi votati dal popolo. 

Perché è chiaro che la Costituzione non va toccata, ma se proprio si ritenesse necessario il suo sovvertimento, che sia un collegio di rappresentanti democraticamente eletti  a farlo e non ambigui giuristi definiti insigni solo dalla parte politica a cui interessa lo smembramento di importanti tutele sociali. 

E’ evidente come  tutta questa operazione sia l’ennesimo e forse più subdolo tentativo di rimuovere l’ultimo ostacolo all’alienazione della partecipazione politica dei cittadini, al   pieno dispiegamento del potere capitalistico finanziario, al libero fluire dell’accumulazione di risorse per pochi, con il conseguente aumento della diffusione della povertà per molti. 

E’ quindi ancora più   impellente scendere in piazza sabato 12 ottobre per difendere la Costituzione come ultimo baluardo dei principi di uguaglianza e solidarietà. E, a seguito del genocidio di Lampedusa, è necessario esibire, durente il corteo,   il lutto al braccio perché le stragi del mediterraneo indicano brutalmente che anche l’articolo 10 della Costituzione non viene rispettato nel suo principio per cui  si afferma che “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Arrivederci a Roma

Un documentario sulla resistenza palstinese

Samantha Comizzoli






Questo documentario nasce da immagini catturate con videocamera e telefonino durante i tre mesi di attivismo per i diritti umani che l’autrice ha svolto in Palestina con l’International Solidarity Movement.
E’ una testimonianza sulla resistenza palestinese non violenta e sui crimini perpetrati da Israele.
Il documentario dura all’incirca novanta minuti ed è arricchito da alcuni filmati del reporter palestinese Odai Qaddomi.
Due protagonisti della Resistenza palestinese saranno presenti per il tour del documentario: Murad per Kuffr Qaddum e Hakima per Asira.
Il titolo “Shoot” (sparo) si riferisce a ciò che ha colpito l’autrice.

Appello per l’apertura di un canale umanitario fino all’Europa per il diritto d’asilo europeo

Ai Ministri della Repubblica, ai presidenti delle Camere, alle istituzioni europee, alle organizzazioni internazionali



A cadenza ormai quotidiana la cronaca racconta la tragedia che continua a consumarsi nel mezzo del confine blu: il Mar Mediterraneo.

Proprio in queste ore arriva la notizia di centinaia di cadaveri raccolti in mare, ragazzi, donne e bambini rovesciati in acqua dopo l’incendio scoppiato a bordo di un barcone diretto verso l’Europa.
Si tratta di richiedenti asilo, donne e uomini in fuga da guerra e persecuzioni, così come gli altri inghiottiti da mare nel corso di questi decenni: oltre 20.000.

Lo spettacolo della frontiera Sud ci ha abituato a guardare l’incessante susseguirsi di queste tragedie con gli occhi di chi, impotente, può solo sperare che ogni naufragio sia l’ultimo. Come se non vi fosse altro modo di guardare a chi fugge dalla guerra che con gli occhi di chi attende l’approdo di una barca, a volte per soccorrerla, altre per respingerla, altre ancora per recuperarne il relitto.

Per questo le lacrime e le parole dell’Europa che piange i morti del confine faticano a non suonare come retoriche.

Perché l’Europa capace di proiettare la sua sovranità fin all’interno del continente africano per esternalizzare le frontiere, finanziare centri di detenzione, pattugliare e respingere, ha invece il dovere, a fronte di questa continua richiesta di aiuto, di far si che chi fugge dalla morte per raggiungere l’Europa, non trovi la morte nel suo cammino
Si tratta invece oggi di mettere al centro i diritti. Di mettere al bando la legge Bossi-Fini e aprire invece, a livello europeo, un canale umanitario affinché chi fugge dalla guerra possa chiedere asilo alle istituzioni europee senza doversi imbarcare alimentando il traffico di essere umani e il bollettino dei naufragi.

Nessun appalto dei diritti, nessuna sollevazione di responsabilità ai governi europei, piuttosto la necessità che l’Europa cambi profondamente la sua politica di controllo delle frontiere, di gestione delle crisi umanitarie, la sua politica comune in materia di diritto d’asilo:
convertendo le operazioni di pattugliamento in operazioni volte al soccorso delle imbarcazioni, gestendo in maniera condivisa le domande di protezione superando le gabbie del regolamento Dublino, aprendo canali umanitari che permettano di presentare le richieste di protezione direttamente alle istituzioni europee presenti nei Paesi Terzi per ottenere un permesso di ingresso nell’Unione, dove le domande vengano esaminate con le medesime garanzie previste dall’attuale normativa europea, senza per questo affievolire in alcun modo il diritto di accesso diretto al Vecchio continente e gli obblighi degli Stati Membri.

Alle Istituzioni italiane, ai Presidenti delle Camere, ai Ministri della Repubblica, chiediamo di farsi immediatamente carico di questa richiesta.

Alle Istituzioni europee di mettersi immediatamente al lavoro per rendere operativo un canale umanitario verso l’Europa.
Alle Associazioni tutte, alle organizzazioni umanitarie, ai collettivi ed ai comitati, rivolgiamo l’invito di mobilitarsi in queste prossime ore ed in futuro per affermare
IL DIRITTO D’ASILO EUROPEO

Andrea Segre, Ascanio Celestini, Vinicio Capossela, Tre Allegri Ragazzi Morti, Sandrone Dazieri, Valerio Mastandrea, Daniele Vicari, Moni Ovadia, Anita Capriolo, Motus, Riccardo Iacona, Stefano Liberti, Alessio Genovese, Tatiana Negri, Giovanni Palombarini, Giuliana Sgrena, Costanza Quatriglio, Massimo Carlotto, Annamaria Rivera, Augusto Illuminati, Paolo Ferrero, Giuseppe Caccia, Raffaella Cosentino, Fulvio Vassallo Paleologo, Flore-Murard Yovanovitch, Alessandra Ballerini, Aurora D’Agostino, Luca Casarini, Giuseppe De Marzio, Antonello Mangano, Claudio Calia, ZeroCalcare, Salvatore Geraci, Marco Ferrero, Sandro Mezzadra, Tiziano Rinaldini, Vittorio Agnoletto,